I Masnadieri segnano un traguardo importante per Verdi: dopo l’Oberon di Weber era la prima volta che un compositore di successo internazionale riceveva una commissione per scrivere un’opera in un teatro inglese. E non era solo una questione di prestigio (che non toccò a Rossini, Bellini o Donizetti), ma anche di vantaggio economico: Londra, infatti, era una piazza assai remunerativa (lo stesso Haydn era solito dire che col ricavato del suo periodo inglese, si era assicurato una rendita tale da farlo vivere nell’agiatezza per tutta la vita) e la prospettiva di guadagni esorbitanti influirono certamente sull’inusuale buona disposizione dell’autore. Al solito Verdi mostrò una certa arroganza nelle trattative, i soliti capricci e le consuete pretese eccessive (all’offerta di un contratto per dieci opere in altrettante stagioni come direttore dell’Her Majesty’s Theatre, replicò con negligenza proponendo un diverso accordo per sole tre opere, da pagarsi ciascuna il quintuplo del prezzo di mercato oltre ad una villa in campagna e una carrozza), ma per contro non ci fu nessun problema con il cast e con il libretto. Nuovamente si rivolse a Schiller (autore prediletto, insieme a Shakespeare) e al suo Die Räuber, opera prima del poeta, rappresentata con ininterrotto successo fina dal 1782 e vero manifesto dello Sturm und Drang: un dramma violento e carico di eccessi, un pugno in faccia alla razionalità illuminista, alla morale comune e all’ordine costituito. Andrea Maffei, uomo colto e intellettuale raffinato, spianò le asprezze, ammorbidì gli aspetti più scabrosi e rivoluzionari e sviluppò la trama amorosa a scapito del contenuto ideale (in particolare la caratterizzazione dei personaggi appare semplificata e banalizzata: in Schiller non esiste mai una differenziazione netta tra bene e male, ma entrambi i fratelli Moor sono la personificazione di un gesto ribelle, di un disordine che cerca nella pura bellezza – Amalia – una via di fuga: nel libretto, invece, Carlo e Francesco sono due semplici stereotipi), ma aldilà di una versificazione più curata e suggestiva (rispetto ai più rozzi, ma maggiormente efficaci, Piave e Solera), il risultato è piuttosto deludente: un libretto estremamente convenzionale, con poco senso teatrale (un primo atto con tre cambi di scena e organizzato come una serie di cavatine: un deciso passo indietro rispetto al pur precedente Macbeth) dove è evidente il disinteresse del compositore, solitamente molto più attento ed esigente. Identica passività è mostrata da Verdi nei confronti della compagnia di canto e dei desiderata della prima donna. La compagnia dell’Her Majest’s aveva appena subito una traumatica scissione: la Alboni, Ronconi e Mario – superstar dell’epoca – seguirono, infatti, Michele Costa (considerato il miglior direttore d’orchestra attivo in Inghilterra) e la sua nuova compagnia teatrale che prese sede al Covent Garden. Rimase fedele a Lumley solamente il grande Lablache e il mediocre Balfe (alla direzione): l’impresario, però, riuscì nel “colpo grosso” di aggiudicarsi Jenny Lind, celebre soprano dell’epoca, tuttavia del tutto impermeabile alle nuove tendenze musicali (tanto da dichiarare che mai avrebbe preparato un’opera “nuova”). Si può intuire quale opinione avesse Verdi dell’usignolo di Svezia dalle parole del fedele Muzio: “ha un’agilità senza pari e generalmente per far udire la sua bravura di canto pecca in fioriture, in gruppetti, in trilli, cose che piacevano nel secolo passato, ma non nel 1847”. Eppure l’autore le lascia libertà inconsuete (pressoché tutte le sue cadenze) e accetta uno stile ornamentale decisamente superato. Verdi non oppose alcuna resitenza neppure al tenore Italo Gardoni (una sorta di ripiego al posto di Fraschini, la cui unica attrattiva pare fosse l’avvenenza fisica), nonostante una prova volenterosa, ma debole. Francesco era Felice Coletti, nuovo beniamino del pubblico inglese. E Massimiliano era Luigi Lablache. Dopo appena due prove d’orchestra l’opera andò in scena la sera del 22 luglio 1847 con l’autore sul podio: non era il debutto londinese di Verdi – già un paio di anni prima aveva rappresentato con successo il suo Ernani – e, vista l’accoglienza di allora e i nuovi entusiasmi popolari (i giornali si occuparono della sua presenza in città fin dal suo arrivo a giugno), legittimamente non si aspettava meno di un trionfo. Trionfo che, paradossalmente, fu più di circostanza: gli entusiasmi della prima si spensero rapidamente e il titolo sopravvisse solo per un paio di sere dopo la partenza del compositore. Presto la stagione estiva si chiuse e I Masnadieri percorsero stancamente l’Europa con poche e sparute recite (ancor meno in Italia) per poi raggiungere Alzira come uno dei drammi verdiani meno rappresentati. Fin da subito la stampa inglese “fiutò” il velato fiasco: da una parte a causa dell’ostilità della critica (molto chiusa e conservatrice: ancora fissata con la supremazia del modello rossiniano – nel 1847!); dall’altra per effetto del rapido disamoramento del pubblico inglese che se era facile agli entusiasmi, era ancor più svelto a moderarli. Non avevano torto: I Masnadieri restano un’opera diseguale e poco omogenea che affianca singoli episodi riusciti ad altri della più sconsolante routine artigianale. Gran colpa, dicevo, va attribuita al libretto: un primo atto così piatto e convenzionale non poteva certo stimolare la miglior vena dell’autore, così come la staticità dei caratteri. Verdi non ebbe il coraggio o la convenienza o l’interesse ad intervenire su Maffei (ripetendo lo stesso errore già compiuto con Alzira), impedendo così al suo innato istinto teatrale di dare un maggior respiro alla sua musica. L’opera è costruita con una certa ambizione, ma l’esito resta alterno (soprattutto se confrontato con Macbeth, ma anche Ernani o I due Foscari). La trama è facilmente riassumibile: Carlo ha abbandonato la casa paterna e attende il perdono del genitore per ritornarvi (e rivedere la sua Amalia), ma riceve invece un duro “foglio di via”, tanto da convincerlo a mandare al diavolo i doveri familiari e di unirsi a una banda di delinquenti (di cui assume il comando). In realtà è tutta opera del fratello Francesco che mira a conquistare il potere del vecchio padre, allontanare definitivamente Carlo e impalmare la di lui promessa. Il perfido Francesco – dopo la finta lettera al fratello – fa credere al genitore che il figlio sia morto in battaglia maledicendo la sua famiglia: il vecchio padre ha un mancamento e viene creduto morto. Amalia, però, resta fedele al ricordo di Carlo e, venuta a conoscenza degli inganni del fratello, decide di fuggire: incappa nel suo ex promesso sposo, gli racconta tutto e lui giura di vendicarla. Nel frattempo si scopre che il padre non è morto, ma tenuto prigioniero. Carlo lo libera, ma ormai è colpito da demenza. I masnadieri assediano il castello dove Francesco troverà la morte. Amalia viene rapita dalla banda e portata da Carlo: ormai non può più mentire e rivela di essere lui il capo dei masnadieri e per non condurre l’amata nella sua stessa spirale di violenza e abiezione, la uccide per poi consegnarsi alla giustizia. L’opera si apre con un gradevole preludio (che è in realtà un breve pezzo concertato per violoncello, in omaggio al solista dell’orchestra, Alfredo Piatti, vecchio amico di Verdi, sin dagli anni milanesi) che conduce all’introduzione e alla prima delle tre cavatine che meccanicamente presentano i personaggi principali. La prima scena è dedicata a Carlo (il fratello buono nella semplificazione di Maffei) e si svolge nelle forme usate dell’aria con cabaletta: un andantino raffinato seguito da un allegro vigoroso e trascinante. La seconda è riservata a Francesco (il cattivo, quindi baritono): ancora aria e cabaletta, ma stavolta la mano dell’autore è molto più pesante (volgarissima l’orchestra, in puro stile bandistico). La terza è per la primadonna che “finalmente” può dar sfogo a tutto il suo armamentario di trilli, picchettati e cadenze (Verdi lascia libertà totale…e non poteva fare altrimenti): la Lind era sostanzialmente un lirico-leggero di coloratura e l’autore si trovò costretto a patteggiare con le limitate capacità drammatiche della protagonista, risolvendo la sua parte nel registro medio e acuto, più o meno come sarà per Gilda, ma con la fondamentale differenza che, nel caso di Rigoletto la scelta era consapevole e finalizzata ad un determinato effetto (la fanciulla ingenua e innocente), mentre ne I Masnadieri non c’erano alternative (e, in effetti, una scrittura più drammatica con generosi affondi nel registro grave – come Odabella o Abigaille – sarebbe stata più adeguata al carattere del personaggio schilleriano). Segue un duetto col padre indebolito e rapidamente si passa al finale, con un quartetto di ottima fattura. Il secondo atto – dopo il solito coro di festa, con mera funzione riempitiva – presenta la “gran scena” della primadonna: l’aria, con la sua delicata orchestrazione e i suoi richiami belliniani (un adagio semplice, di canto spianato, senza inutili orpelli ornamentali) è uno dei pezzi più ispirati dell’opera. Segue una cabaletta piuttosto banale nella melodia (e goffa nell’orchestrazione), irta di difficoltà e virtuosismi a cui sicuramente la Lind avrà aggiunto ulteriori acrobazie. Il successivo duetto con Francesco soffre la leggerezza della protagonista, risultando così poco convincente: Budden suggerisce che proprio le limitate doti della Lind in un canto più vigoroso, abbiano in qualche modo legato l’ispirazione verdiana. La scena successiva si svolge nel campo dei masnadieri dove, dopo un ampio squarcio corale (di robusta costruzione ed efficacia), Carlo esprime i suoi dubbi e il suo dolore attraverso una delle pagine più alte dell’opera: una romanza in puro stile donizettiano, a cavallo tra nostalgia e rimpianto. Coro e cabaletta (nuovamente massicci) chiudono l’atto. Quello successivo si apre con la fuga di Amalia e, soprattutto, con il coro dei masnadieri (e si deve immaginare come nel ’47 potesse essere recepito un inno a stupri, rapine e morti: sicuramente un brano “scandaloso”). Segue l’incontro con Carlo e il bel duetto tra i protagonisti (per certi versi anticipa le atmosfere notturne del Trovatore), costruito sul sostegno del tenore, ma con ampie concessioni ai trilli della Lind, disseminati a piene mani (soprattutto nella stretta finale). Chiude l’atto la scena scritta per Lablache (il vigoroso racconto dei suoi tormenti) e il giuramento di Carlo di vendicare gli stenti patiti dal genitore (anche se, con molta ironia, l’impresario Lumley dirà, chiosando lo scarso successo dell’opera, che “Lablache – soprannominato Cicciobomba – nelle vesti del padre imprigionato doveva fare pressocché la sola cosa che non potesse fare a perfezione: impersonare un uomo morente di fame”): il brano riprende la formula del Guillaume Tell ed è innegabilmente trascinante. L’ultimo atto è il più breve e contiene la scena più interessante dell’opera: il monologo di Francesco e il duetto con padre Moser. Si nota l’interesse che il personaggio deve aver suscitato in Verdi (il richiamo a Filippo II e al suo dialogo con l’Inquisitore è scontato): se solo Maffei gli avesse fornito una psicologia più ambigua e un carattere più profondo, sarebbe entrato di diritto nella gallerie dei grandi baritoni verdiani, ambigui e tormentati. Qui, purtroppo, si intuiscono solo le grandi potenzialità della scena, e certe prolissità del monologo (che stenta a prendere il volo) sono attribuibili solo al dilettantismo del librettista. Il duetto vero e proprio è, invece, un capolavoro. Chiude l’opera un efficace terzetto con coro (il brano, che pure era stato paragonato al terzetto conclusivo di Ernani, è in realtà molto differente sia per il ruolo protagonista che assume il coro sia per la maggiore drammaticità dell’insieme). L’opera, si diceva, non ottenne il successo sperato e prestissimo finì tra i titoli meno rappresentati. Le cause dell’oblio furono molteplici: certamente il libretto mal costruito di Maffei è uno dei maggiori responsabili, ma a questo si devono aggiungere almeno altri due fattori. L’insolita accondiscendenza di Verdi (forse lusingato da onori e guadagni); la sostanziale estraneità della Lind al tipo di vocalità (tesa e drammatica) perseguita dall’autore e le conseguenti concessioni ad un tipo di canto che certamente non poteva soddisfare gli ideali estetici verdiani (l’apporto virtuosistico, per quanto spettacolare e ammirevole, era anacronistico in quella forma puramente ornamentale ed era già stato superato dallo stesso Donizetti, in chiave maggiormente espressiva). Il risultato è un’opera dicontinua che, pur contenendo pagine di elevato valore musicale, appare meno compatta dei lavori precedenti (soprattutto Macbeth). Anche oggi sono poche le occasioni per ascoltare I Masnadieri: segno evidente di qualcosa di non risolto.
Gli ascolti
Giuseppe Verdi
I masnadieri
Atto III
Dio ti ringrazio!…Qual mare, qual terra…Lassù risplendere – Ilva Ligabue & Gianni Raimondi (1972), Christine Deutekom & Pedro Lavirgen(1976)
Le rube, gli stupri – Coro del Teatro alla Scala, dir. Riccardo Chailly (1978)
Ben giunto, o Capitano!…Tutto è buio e silenzio…Un ignoto, tre lune or saranno…Giuri ognun – Ralph Lambert, Angelo Mercuriali, Sesto Bruscantini, dir. Alfredo Simonetto (1951)
Atto IV
Tradimento!…Pareami che sorto…M’hai chiamato – Renato Bruson, Gianpaolo Corradi, Giovanni Foiani (1972)
Francesco! Mio figlio!…Qui son essi!…Caduto è il reprobo – Boris Christoff, Gianni Raimondi, Ilva Ligabue, Gianpaolo Corradi, dir. Gianandrea Gavazzeni (1972), Bonaldo Giaiotti, Pedro Lavirgen, Christine Deutekom, Gianfranco Manganotti, dir. Michelangelo Veltri(1976)
Recensione molto bella, così come gli ascolti. Ne emerge tutta la disomogeneità, tutti gli alti e bassi a volte pazzeschi di un’opera comunque molto meritevole. Peccato davvero per il libretto scadente…