Il Comunale felsineo ha proposto nell’ambito della sua stagione sinfonica la Petite messe solennelle. Non possiamo che plaudire alla scelta, trattandosi del capolavoro della maturità rossiniana, nonché di uno dei brani del repertorio sacro che maggiormente avvincono l’ascoltatore in tutti i sensi profano, e questo tanto per l’invenzione musicale a dir poco somma, quanto per la rigorosa eppure liberissima struttura formale, in cui si alternano numeri maggiormente ortodossi e altri (si pensi al “Domine Deus” oppure alla conclusione del “Credo”) di chiara matrice operistica. Lodevole la scelta, persino coraggiosa vista la scarsa presenza della Messa nei programmi delle nostre istituzioni concertistiche. La lode però sfuma e il coraggio inclina pericolosamente verso l’incoscienza quando si vadano ad esaminare circostanze ed esito dell’esecuzione.
È noto che Rossini orchestrò personalmente, di malavoglia e unicamente per impedire che altri vi mettesse mano con esito prevedibilmente inferiore, la composizione originariamente concepita per coro di dodici esecutori (di cui quattro solisti), due pianoforti ed harmonium. È per l’appunto questa versione orchestrata che è stata proposta a Bologna. Ora, le dimensioni della sala (il Teatro Manzoni, capace di poco più di mille posti) non sembrano tali da giustificare la scelta; in più, l’organico assemblato per l’occasione (orchestra con dodici violini primi, coro di una sessantina di elementi) era tale da mettere in serio imbarazzo le voci solistiche, nessuna delle quali dotata della proiezione necessaria per emergere distintamente, specie nei momenti di maggiore clamore. Momenti che non sono stati rari nella lettura (parlare di interpretazione appare eccessivo) proposta dal direttore stabile del Coro del Teatro, Lorenzo Fratini, per l’occasione promosso concertatore e direttore d’orchestra, il quale ha dispensato volume bruckneriano nei momenti maggiormente solenni (su tutti il “Credo”), tempi ora letargici (duetto “Qui tollis”, aria “O salutaris hostia” e più ancora il “Prélude religieux”, ridotto a una successione di suoni incerti e privi di una condotta musicale degna di questo nome), ora comicamente rapidi (“Domine Deus”, in partitura Allegro giusto, ridotto a una parodistica marcetta, e la seconda sezione del “Cum sancto Spiritu”), colori e turgori spiccatamente postmahleriani e diffuse imprecisioni degli ottoni, in particolare nella seconda parte della “Messa”, mentre neppure il coro ha brillato per esattezza d’intonazione, segnatamente nelle voci femminili alle prese con i passaggi più acuti del “Credo”. La natura ambigua di questa musica, per metà mistica e per metà salottiera, è stata sistematicamente affossata da una direzione preoccupata solo di sottolineare l’ovvio, banalizzando l’ironia raffinata di Rossini in un coacervo di trovate effettistiche e prive di un disegno unitario o anche solo di una progressione drammaticamente efficace. Un notevole passo indietro anche rispetto a tempi, oggi spesso deprecati a priori, in cui si potevano trascurare le esigenze della filologia (esigenze in massima parte non ancora codificate), ma raramente si tradiva in maniera così plateale (è il caso di dire) il dettato e ancor più lo spirito della musica. Il tutto, ripetiamo, in una sala non certo enorme, che per giunta risultava piena solo per due terzi della platea, nonostante gli sconti last minute generosamente (e doverosamente, viene da dire, vista la qualità della proposta) praticati al botteghino. Registriamo per dovere di cronaca che una simile lettura è stata molto apprezzata (sia pure con applausi a dir poco contenuti e limitati a un paio di chiamate alla ribalta a fine concerto) da una parte del pubblico, ma sempre per dovere di cronaca non possiamo esimerci dal sottolineare come la soddisfazione di quegli spettatori, stando almeno ai commenti colti all’uscita dalla sala, provenisse dalla piacevole sorpresa di avere ascoltato “una musica divertente”. Eloquente fotografia di un pubblico, bolognese ma non solo, per il quale la musica si identifica sempre più spesso con un obbligo sociale o peggio ancora con un malinteso “impegno” di natura vagamente autopunitiva.
Quanto ai solisti, la compagine maschile superava di gran lunga quella femminile. Pur nell’usura, naturale conseguenza di una carriera ultraventennale e di un repertorio sovente troppo oneroso, la voce di Michele Pertusi è la più omogenea del quartetto. Non è però l’autentica voce di basso richiesta dalla Messa e risulta poco sonora nelle discese al grave, in cui era è giunta penalizzata dalla sistematica pesantezza dell’orchestra. Molto faticosa la salita agli acuti, opachi e ovattati. Più consistente, ma non automaticamente più ampia e sonora, la dote di Celso Albelo, agevolato dalla scrittura marcatamente centrale della parte (scrittura che riduce l’impatto dei suoni periclitanti che caratterizzavano il suo Arturo bolognese di tre anni fa o la recente Sonnambula radiotrasmessa dal Covent Garden), inchiodato su un sistematico mezzoforte che non gli consente alcuna duttilità e portato a berciare, spesso malamente (“Gratias agimus tibi”), i sol e i la acuti previsti in partitura. La parte di soprano era affidata all’(ex?) allieva dell’accademia bolognese, Valentina Corradetti, emula nell’opulenza delle forme di una Cerquetti o di una Caballé. Basta sentire la faticosa salita, o meglio, scalata al fa#4 all’attacco di “O salutaris hostia” o la difficoltà nel cantare piano senza scivolare nei falsettini al duetto “Qui tollis”, per accertare come la somiglianza con le summenzionate cantanti si limiti all’aspetto fisico. Quanto a Veronica Simeoni, premiata in ben due edizioni del concorso “Voci verdiane” di Busseto, fatichiamo a comprendere come possa affrontare le ben diversamente onerose parti di quel repertorio, quando risulta sistematicamente inudibile in questo Rossini. Voce priva di smalto, vuota al centro, incapace di legato (soprattutto nell’“Agnus Dei”), anche più dei colleghi avrebbe tratto giovamento da un’esecuzione il più possibile raccolta, intima, davvero cameristica della Messa. Considerato il peso, in tutti i sensi, dell’orchestra, il palco del Manzoni avrebbe dovuto accogliere come minimo Maria Pedrini, Elena Nicolai, Giacinto Prandelli e Giulio Neri!
Concordo pienamente con la definizione data dal caro Tamburini in merito all’orchestrazione della Petite Messe. L’evidente malavoglia e la conseguente scarsezza di ispirazione, infatti, rendono irriconoscibile l’autore del Guillaume Tell e dello Stabat Mater.
Non sono invece d’accordo col buon Rossini sul fatto che nessuno avrebbe potuto orchestrarla meglio di lui: la storia della musica insegna che gli accostamenti più improbabili a volte producono capolavori. E’ il caso dei Wesendonck Lieder: l’orchestrazione per orchestra d’archi predisposta da Henze è molto più intrigante (e più bella) di quella tradizionale di Mottl, molto accademica e banale (eppure Mottl era molto più vicino al mondo wagneriano rispetto a Henze). Ma vale anche per la Kovancina di Musorgskij: se si confronta la splendida orchestrazione di Shostakovich a quella più banale di Rimskij-Korsakov.
E’ un peccato che nessun grande compositore si sia cimentato nell’orchestrazione del capolavoro di Rossini!