Con riferimento alla storia dell’Ottocento, patria in particolare, si indica il 1848 come l’anno simbolo di rivolgimenti sociali e politici di rilievo, tanto che il quarantotto è diventata la metafora della rivoluzione e del disordine o, se vista da parte delle forze del rinnovamento, come il simbolo del rinnovamento e del cambiamento. Al contrario il quarantotto verdiano fu il 1847 perché segnò nei mesi di febbraio e di novembre due debutti che coincisero con la presentazione di Verdi sui due maggiori palcoscenici internazionali. Perché tali erano Parigi e Londra. Del debutto parigino abbiamo già parlato con riguardo a Jerusalem ed in particolare non abbiamo potuto non dire che la scelta di Verdi fosse, per i teatri, che volevano nuovi titoli italiani un passo obbligato per i direttori di teatro. Il passo obbligato ovviamente importava obblighi anche per l’autore, per certo caratterialmente assai meno docile e disponibile alle convenienze ed agli usi teatrali vigenti.
Dobbiamo, però, aggiungere che la disamina che tutti noi del Corriere andiamo facendo di Verdi smentisce quello che Verdi in persona, ormai divenuto famoso accreditò come un periodo di lavoro duro, forzato e forzoso e senza grosse alternative e crescite. Ogni titolo dei cosiddetti anni di galera se non rappresenta un progresso e un crescita musicale costituisce però un nuovo tassello nello sviluppo della personalità dell’autore. Anche perché Verdi non ebbe a differenza di Donizetti un periodo di autentica riduzione in schiavitù ad opera di impresari e cantanti. Era ed anche questo lo abbiamo detto, ma con riferimento alla Messa una mutata visione dell’artista.
Come sempre non abbiamo alcuna presunzione di insegnare alcunché parlando dei Masnadieri, ma quella assai più modesta di offrire spunti di riflessione, magari un po’ fuori dai canali tradizionali.
Ad esempio scrivendo per Parigi Verdi dovette soggiacere alle ferree leggi strutturali del grand-opéra e tale necessità forse furono un po’ premature. Approdando a Londra Verdi approdava in una piazzaforte della tradizione musicale e nella città che con le sue stagioni aveva, in uno con Parigi, contribuito a creare ciò che noi oggi definiamo il repertorio. Il repertorio si basava ovviamente sulle esigenze e sul repertorio dei divi che rischiavano il pubblico della capitale inglese. Londra era la città dove imperavano i divi, quelli assoluti del tempo come Giulia Grisi, Mario, Ronconi, Marietta Alboni. Verdi dovette nel creare il personaggio di Amalia andare incontro alle caratteristiche del canto di Jenny Lind. Anche qui parecchia mitologia perché la Lind fu, per ammissione dello stesso Muzio (inviato da Verdi in avant scoperta) disciplinatissima e disponibile al maestro, ma anch’egli seppe secondare la predisposizione al canto elegiaco ed elegante di sapore belliniano che rendeva La diva tale. La cavatina di sortita, “lo sguardo aveva degli angeli” risponde a quell’agilità minuta di sapore post rossiniano che poi connoterà il canto di Gilda e più ancora di Luisa. Le lunghe frasi aeree e legate dell’andante della seconda aria, ancora, rispondono ad un astrattezza vocale estranea ai tormenti di Giselda o Abigaille, che quanto a legato impegnano non di meno le esecutrici. Ma è la valenza drammatica, che discosta Amalia dalle precedenti eroine verdiane anche se il “ti scosta malnato” del duetto con Francesco richiede mordente e slancio. Per altro la vocalità ed il gusto della Lind ben servivano all’idea romantica di fanciulla angelicata ed in questo l’aderenza all’originale di Schiller è uno dei punti di forza, al di là della realizzazione musicale del trapasso dalla prosa alla musica.
Da sempre chi si occupa di vocalità verdiana ha posto l’accento sulle libertà lasciate a Jenny Lind, pochi hanno rilevato che Verdi ebbe ben altro colosso con cui fare i conti scrivendo i Masnadieri. Alludo a Luigi Lablache, che di anni ne contava 55, di carriera trentacinque e che da almeno un lustro era in condizioni vocali da “sfasciacarrozze” donde una scrittura vocale , che non supera un re acuto e che esprime nella zona centrale della voce il dolore del padre più volte oppresso e dalla sorte (la creduta morte del figlio) e la prigionia cui l’altro figlio, il cadetto cattivo, lo ha costretto. Ai due cantanti di scuola e, forse, gusto arcaico Verdi riservò una struttura, un “duettino”, connotante, appunto epoche precedenti quella verdiana.
Ci si può, poi, domandare se il cattivo affidato ad un baritono non sia anch’essa reminiscenza antica ed ascendenza rossiniana. Sino ad allora Verdi aveva affidato ai baritoni o i deliri di un padre ormai al termine della propria esistenza come il Doge Foscari o le profferte erotiche di don Carlos o due figure assai complesse come Nabucco e Macbeth. Qui Francesco è solo rivale, è solo cattivo, è solo antagonista non solo in amore, ma anche in questioni ereditarie. Oltre tutto Verdi non coglie tutta quanta la polemica contro il diritto positivo che nel testo originale è la sigla, oltre la cattiveria, di Francesco Moor. Questa limitazione, ma intendiamoci bene in quale opera, Antigone esclusa, si può dibattere di diritto naturale, è il limite del primo approccio di Verdi a Schiller. Per la verità Verdi aveva già incontrato Schiller con Giovanna d’Arco, ma il vero incontro sarà ben successivo e sempre per un grande palcoscenico, alludo a Parigi e don Carlos e forse solo questo meritevole di confronti e disamine.
Un ultimo spunto di riflessione prima degli ascolti, che sono l’aspetto più rivelante della Verdi edission grisiana ovvero la scarsa coralità del titolo. Mi spiego e segnalo la stranezza. Autore corale Verdi senza dubbio, a fondare l’assunto bastanti Nabucco e Lombardi, ma anche Attila con il dramma del popolo esule e fondatore di Venezia e lo scontro fra romani e barbari. Per contro in un lavoro dal titolo corale i cori hanno spazi di riempimento e di contorno al drammone a tinte forti che oppone i quattro membri di una nobilissima famiglia. Ci rifletterei perché questa scelta è molto molto donizettiana!!!!
Gli ascolti
Giuseppe Verdi
I masnadieri
Preludio – Riccardo Muti (1969)
Atto I
Quando io leggo in Plutarco…O mio castel paterno…Nell’argilla maledetta – Gianni Raimondi (1972)
Vecchio! spiccai da te…La sua lampada vitale…Fra poco, Francesco – Renato Bruson (1972)
Venerabile, o padre…Il volto avea degli angeli – Luisa Maragliano (1969), Ilva Ligabue (1971) Ghena Dimitrova (1980)
Mio Carlo…Carlo, io muoio!…Sul capo mio colpevole – Carlo Cava, Luisa Maragliano, Licinio Montefusco, Dino Formichini, dir. Riccardo Muti (1969), Boris Christoff, Ilva Ligabue, Renato Bruson, Giampaolo Corradi, dir. Gianandrea Gavazzeni (1972)
Atto II
Dall’infame banchetto…Tu del mio Carlo…Carlo vive! – Christine Deutekom (1976), Joan Sutherland (1980)
Perchè fuggisti…Io t’amo, Amalia!…Ti scosta malnato – Rita Orlandi-Malaspina & Mario Petri (1971), Christine Deutekom & Matteo Manuguerra (1976), Joan Sutherland & Robert Allman (1980)
Tutto quest’oggi…Come splendido e grande…Di ladroni attorniato…Su, fratelli, corriamo – Coro dell’Opera di Roma, Gianni Raimondi, dir. Giananadrea Gavazzeni (1972)
Che meraviglia Gianni Raimondi!!
Accento, voce libera e squillante, dizione chiarissima, intelligenza (nell’attacco della cabaletta, molto centrale per un tenore acuto come lui, saggiamente non va a cercare sonorità che non gli appartengono e così non appesantisce la voce che, infatti, sale con una facilità invidiabile), musicalità. Insomma: un cantante professionista davvero.
Gli altri ascolti devo rimandarli, ché il lavoro mi chiama. Ma questo è davvero bello. Io poi ho sempre pensato che “O mio castel paterno” sia uno dei cantabili del Verdi “quasi” maturo più belli; e cantato così è un piacere.
Bravissimo Raimondi, ma Domenico, perche’ non Bergonzi nella stessa aria ?
Gran magistrale scelta di pezzi. Mi sbaglio o i pezzi cantati da Sutherland in questa selezione sono estrapolati dall’edizione (che ho e che mi ha fatto conoscere quest’opera) in cui canta anche Franco Bonisolli che mi ha lasciato stupito quanto a volume, potenza vocale e afflato? (Stupenda interpretazione anche questa per intenderci ed una delle interpretazioni, se non sbaglio, di riferimento sebbene in studio).
Bello!
À “Perchè sfuggisti” non c’è la versione Deutekom-Manuguerra (è la stessa Orlandi-Malaspina-Petri).
Grazie.