Comincia oggi secondo il calendario romano il tempo di Quaresima, tradizionalmente dedicato alla penitenza e alla mortificazione della carne. Pratica oggi quanto mai diffusa non solo nei giorni che precedono la santa Pasqua e con particolare riferimento ai padiglioni auricolari. Nella diocesi ambrosiana prosegue invece sino alla prossima domenica il Carnevale. Per l’occasione anche Sorella Radio si sdoppia e riflette su due recenti broadcast: Don Pasquale dal Théâtre du Châtelet (trasmesso anche alla televisione) e Barbiere di Siviglia dal Metropolitan.
In realtà vorremmo evitare che questa puntata carnevalesca si trasformasse nell’usato elenco di doglianze relative a prestazioni poco o punto professionali, spacciate per il non plus ultra della raffinatezza e dell’espressività, o peggio ancora assolte nel segno della clamorosa menzogna “non c’è di meglio”. Menzogna che lava o che dovrebbe lavare la coscienza di sovrintendenti, maestri di canto e di una fetta consistente della critica, la cui funzione pare essere sempre più spesso non già l’invito all’ascolto consapevole e informato, ma la giustificazione e la difesa, a priori, per principio e contro ogni evidenza, di quanto i teatri propongano od impongano.
E allora sforziamoci di essere più fantasiosi e creativi di quella critica, tenacemente avvinghiata al suo limitato frasario e ai suoi assiomi, che denotano invece fantasia illimitata (per non dire di peggio).
Osserviamo per esempio che le opere rappresentate sono o dovrebbero essere cardini del repertorio, e che in quanto tali non hanno mai conosciuto, neppure in quelle che oggi vengono considerate epoche buie della storia dell’opera (quelle documentate dai 78 giri, tanto per intenderci), periodi di prolungata assenza dalle scene. Certo le vituperate forbici, di cui direttori anche illustri facevano uso e abuso, non risparmiarono questi titoli, che vedevano così regolarmente, ad esempio, il conte di Almaviva privato suo rondò (magari a vantaggio della primadonna: prassi questa antica quanto il Barbiere stesso o poco meno), l’aria di Ernesto nel secondo atto abbassata di tonalità e amputata della relativa cabaletta, o ancora la parte di Rosina trasportata all’acuto e affidata a cantanti che interpolavano, nella scena della lezione, brani di qualsivoglia autore, a esclusione di Rossini. Tutte pratiche dinanzi alle quali la critica, non solo quella cui accennavamo sopra, si straccia oggi le vesti, lamentando l’attentato al genio creatore, il tradimento dell’autore e lo sfregio della grandezza della musica. Tutte cose su cui potremmo anche concordare, salvo poi notare come il melodramma, arte che vive sulla scena prima ancora che nel chiuso delle biblioteche, debba in molti casi la propria sopravvivenza e forse qualcosa di più proprio a quelle pratiche, certo discutibili, che però riuscivano, servendo le doti e in molti casi anche la vanità degli artisti, a onorare, seppur parzialmente e con inevitabili limiti, il genio musicale degli autori rappresentati.
Che cosa onora invece, o più banalmente a che cosa serve, il Don Pasquale parigino, in cui il tenore canta integralmente l’aria del secondo atto con tanto di da capo nella cabaletta, quando il medesimo emette suoni tecnicamente maldestri nella zona del passaggio superiore e non è in grado di produrre un acuto che sia avanti e dotato di seppur minimale squillo? E per quale motivo chiudere la suddetta pagina con un sovracuto microbico, urlacchiato e pure calante d’intonazione? Il dubbio, che a dispetto dei malpensanti non è retorico, investe del pari l’Almaviva newyorkese, ennesima fotocopia dei vezzi e quindi dei difetti di emissione di Juan Diego Flórez, che propone un’esecuzione approssimativa della coloratura prevista, eseguita con voce bianchiccia e malferma, piena d’aria, connotata da un vibrato stretto che evoca numerosi abitanti di un cortile agreste. Sempre fuor di retorica ci domandiamo come il signor Colin Lee abbia potuto affrontare la parte di Rodrigo nella Donna del lago, ancor più bassa di tessitura e quindi ancor meno propizia a una voce di contraltino, quale sarebbe quella del suddetto, qualora opportunamente educata. Poi riflettiamo sugli ultimi Rodrigo che abbiamo avuto la “ventura” di udire alla radio e in teatro e la domanda ci appare improvvisamente poco sensata! Si rafforzano però al tempo stesso i dubbi sul significato e la valenza di esecuzioni integrali e filologicamente corrette (almeno sulla carta), che impieghino in grandiose parti da baritenore dei cantanti, cui converrebbero maggiormente quelle da comprimario. Quando non da corista.
La filologia praticata dal teatro statunitense è perlomeno singolare anche sotto un altro aspetto, quello che concerne la protagonista. La Rosina soprano di coloratura ha alle spalle una tradizione ampiamente documentata ed è stata del pari ampiamente stigmatizzata in quanto poco rossiniana. Anche qui potremmo concordare, almeno nei casi in cui il prescelto soprano dia prova, fin dalla cavatina, di un’esausta vocina di soubrette, vuota al centro, parlante in basso, spinta e forzata in acuto. Che è poi esattamente lo scenario che si delinea ascoltando Diana Damrau. Peccato che la signora passi per il maggior soprano di coloratura oggi in attività, e forse anche qualcosa di più, visti gli improvvidi debutti annunciati dalle trombe mediatiche. Oggi, più ancora di ieri, la Rosina soprano si giustifica solo in presenza di un’interprete che sappia coniugare il virtuosismo mirabolante, se vogliamo eccessivo, con la sensibilità della vera interprete, quella capace di illuminare i famosi accenti nascosti del Pesarese. Se ascoltiamo Lydia Lipkowska ovvero Antonina Nezhdanova non sentiamo in prima battuta un usignolo e tantomeno una cocorita, ma una voce limpida, svettante, capace di affrontare i passaggi di canto fiorito senza compromettere la qualità dell’emissione e del legato. Si ammira insomma l’esecutrice, ma più ancora si ammira la musicista. Quando questo non avvenga, meglio astenersi dal portare in scena il Barbiere, e Rossini in genere, qualunque sia la natura vocale degli esecutori coinvolti. Le considerazioni, mutatis mutandis, valgono per gli altri membri del cast metropolitano, capitanato dal Bartolo di John Del Carlo, tanto disastrato e afonoide da dover ricorrere, in apertura del secondo atto, al soccorrevole annuncio di indisposizione, che giunge come tardiva e insufficiente scusante. Un forte raffreddore non si manifesta certo a recita già in corso! Nessuna scusa, e un secco no comment, per la performance di Ferruccio Furlanetto. Il quale, archiviato il Don Basilio della matinée, si accingeva, secondo quanto riferito dalla speaker radiofonica, a cantare in serata Silva dell’Ernani!
Analoghe considerazioni per il Don Pasquale, opera composta per un quartetto di autentici fuoriclasse. La regia dell’attore francese Denis Podalydès ha collocato la produzione parigina in ambito circense, in mezzo alle roulotte di quella che potrebbe essere una troupe di comici ambulanti o giostrai. In tempi di ristrettezze economiche si potrebbe pensare di riciclare l’allestimento per i Pagliacci. Per mettere in scena Leoncavallo mancherebbe comunque il tenore, anzi i tenori, trovandosi Francesco Demuro con ogni verosimiglianza altrettanto in imbarazzo con la serenata di Beppe, cavallo di battaglia dei tenori di grazia all’antica, come con quella di Ernesto. Maggiori chance di riciclaggio in tal senso avrebbero baritono e soprano, cui difettano sia l’emissione sia l’agilità richieste dai personaggi donizettiani. È sufficiente comparare il duetto che chiude il primo atto con una delle esecuzioni di riferimento del brano, protagonisti un ancora fresco Antonio Scotti (dalla carriera già quasi ventennale, però, e neppure giunta alla sua metà) e una Sembrich alle soglie dei cinquanta anni di età e dei trenta di carriera. Siccome l’arte del canto non è l’arte della cabala crediamo non servano ulteriori commenti e affidiamo quindi all’ascolto comparato la considerazione definitiva circa la prestazione dei parigini di oggi, l’unico dei quali a fornire qualche scampolo di professionismo all’antica (Alessandro Corbelli nel title role) non ha purtroppo la voce di autentico basso richiesta dal ruolo, né, ormai, il controllo diaframmatico necessario all’esecuzione del sillabato al duettone con Malatesta. Sia ben chiaro: quisquilie e pinzillacchere, davanti al resto.
Gli ascolti
Rossini – Il Barbiere di Siviglia
Atto I
Una voce poco fa – Diana Damrau (2012)
Atto II
Cessa di più resistere – Colin Lee (2012)
Donizetti – Don Pasquale
Atto I
Vado, corro al gran cimento – Marcella Sembrich & Antonio Scotti (1906), Desirée Rancatore & Gabriele Viviani (2012)
Atto II
Povero Ernesto…Cercherò lontana terra – Tito Schipa (1932), Francesco Demuro (2012)
Purtroppo, caro Antonio, ho avuto la sventura di ascoltare alcune parti di quel Barbiere in radio…e credo che il tuo resoconto sia fin troppo buono! A parte le continue stonature, il gusto orrendo, la totale incapacità di Del Carlo nel semplice solfeggio, il continuo ricorso al parlato, ho trovato semplicemente vergognosa la performance della Damrau: a cominciare da una pronuncia talmente scadente dal far sospettare (ed è quasi certezza) che non avesse la più pallida idea di quel che stava cantando. Non parlo, poi, degli acuti strozzati e dell’agilità disastrosa. In questi casi, però, ci vuole più filologia: quella per cui con certi cantanti non si fa il Barbiere (o il Don Pasquale). Grazie al cielo non ho ascoltato Basilio!
Le alterazioni nel Don Pasquale, invece, non mi piacciono per nulla…piuttosto rinuncio a sentirlo. Peraltro non ci voleva certo un genio per capire che con certi cast non ci si può permettere un’opera del genere (non certo semplice – nonostante venga presa come spettacolo/saggio d’accademia). Sulla squallida giustificazione del “non c’è di meglio”, concordo in pieno: un paio di anni fa ho assistito a Cremona ad un Don Pasquale gradevolissimo e cantato 100 volte meglio di quello parigino…senza tagli o alterazioni. Insomma chi cerca trova….
La voce della Damrau è chiocciante, senza accenti (se non su ogni sillaba, portamenti discutibili nella seconda parte), un registro medio-acuto molto traballante, un’inascltobile registro grave (che si sente essere soffocato e strozzato a volte).
Come mozart2006 ha detto diverso tempo fa, la voce della Damrau (come quella della Rancatore in parallelo) fatica a trovare la proiezione nel registro grave, medio e medio-acuto, aprendosi un tempo nell’acuto; oggi ho qualche dubbio ogni tanto.
Dagli ascolti sembra che la Damrau nell’acuto urli più che canti con voce proiettata. I sovracuti, che poi un tempo erano il suo forte, si sentono tutti strozzati. Mah!
Io non ho mai amato i Barbieri del Met, nemmeno quando erano cantati dai veri grandi, in quanto l’ impostazione interpretativa è sempre stata un misto tra le operette di Offenbach e il Bagaglino. Figuriamoci poi con un cast del genere!
Concordo: un gusto pessimo e una faciloneria indegna di Rossini. E non tanto per i tagli discutibilissimi (il rondò in particolare), i trasporti (Rosina soprano è – per mio conto – un’assurdità e, spesso, un rossinicidio), e le alterazioni (l’aria della lezione), ma per tutta quella serie di gags e di trivialità assortite che infestano quel repertorio e di cui, evidentemente, il Met non vuole liberarsi.