L’Angelo di fuoco a Torino: cronaca di una delusione annunciata.

Delude l’Angelo di Fuoco torinese. Delude nonostante l’eccellenza di orchestra e coro, a cui si deve comunque tributare un incondizionato plauso per la precisione, la compattezza e l’impegno in un’ opera non certamente “facile”. Delude per l’allestimento scenico che definire “dilettantesco” è puro eufemismo. Delude, soprattutto, per la direzione d’orchestra. In realtà, conoscendo Gergiev e il suo mondo musicale, la delusione non era certo imprevedibile. La lettura del direttore russo, infatti, ha evidenziato gli elementi lirici e più “tradizionali”, privilegiando un suono morbido e composto, a discapito delle asprezze, dei contrasti e della violenza, che pure sarebbero cifre fondamentali della partitura. Prokof’ev iniziò a interessarsi al soggetto nel 1919 (leggendo, quasi per caso, il romanzo di Brjusov) e il lavoro di composizione si protrasse per ben sette anni, risentendo della temperie culturale di quello scorcio di XX secolo, stretto tra le prime avanguardie  cubiste e atonali, il disfacimento della tradizione austro tedesca (attraverso le ipertrofiche forme mahleriane), il gigantismo postwagneriano (ormai ridotto a maniera che stancamente ripeteva i suoi fasti – a volte imbastardito col verismo – illudendosi, nuovamente, di rappresentare una qualche “musica dell’avvenire”), il neoclassicismo di ritorno. Prokof’ev cerca una nuova strada, un nuovo linguaggio, esattamente come Chagall in ambito pittorico, senza accodarsi a mode e formule, ma scavando nella profonda identità russa e facendone emergere la forza primitiva, i contrasti, le passioni. Lo stesso autore dichiara di escludere sia la “gelatina debussista” sia l’esplosione atonale. Da questa fucina nascono le visioni allucinate di Renata con le sue formule ossessive, il gusto per il grottesco della prolusione di Agrippa, la violenza disperata dei duetti dei protagonisti, gli accenti espressionisti nella scena dell’Inquisitore con le monache invasate. L’orchestra è un magma che ribolle tra melodie ipnotiche, formule alchemiche, cabala, sesso, deliri barbarici, slanci di passione malata. Questa difficoltà di linguaggio, non sussumibile in nessuna buona forma tradizionale o d’avanguardia, fa sì che l’opera verrà rappresentata solo postuma (dopo la morte dell’autore e di Stalin: avvenute il medesimo giorno), nonostante un timido interessamento di Bruno Walter nel ’26 e alcuni abboccamenti col Met nel ’30. Nulla di tutto questo si percepisce a Torino. La sensazione generale – fin dai primi momenti – è una eccessiva rilassatezza, una visione “normalizzata” che, pur nella squisita cesellatura del singolo dettaglio, smussa gli angoli e priva l’opera della sua identità selvaggia e visionaria. Dicevo che non era imprevedibile una lettura del genere: Gergiev – pur nella sua onnivora sovrapposizione di impegni – ha sempre privilegiato il repertorio più “classico”. Rimskij-Korsakov, Borodin, Glinka, Musorgskij e Čajkovskij: sottolineandone, ogni volta, l’aspetto più lirico. Lo stesso si può dire del suo Mahler in technicolor o delle sue incisioni dello stesso Prokof’ev: dove pare sia più a suo agio nelle ultime sinfonie o nelle opere più tarde (rispettose dei dettami estetici del realismo socialista, come Guerra e Pace). Nell’Angelo di Fuoco questo comporta la rinuncia ad ogni vitalismo, ad ogni elettricità e tensione (elementi che, al contrario, erano ben presenti ed enfatizzati nella splendida edizione scaligera diretta da Chailly: uno dei migliori spettacoli passati sul palcoscenico milanese). A tale impostazione, ampia ed educata, quasi neoromantica, avrebbe dovuto fare da pendant un cast dalle voci analogamente sontuose, morbide e rassicuranti: così da riscattare almeno in parte, l’assenza di tensione. Purtroppo le cose sono andate diversamente con quasi tutti gli interpreti. Nikolaj Putilin – un habituè di Gergiev – era Ruprecht: la voce ha perso smalto rispetto alle prime pagine del sodalizio con il direttore (che risale ai primi anni ’90), ma, a parte l’imbarazzante presenza scenica, ha sfoggiato un ragguardevole strumento, una linea di canto sicura, calda e dal buon legato (la ripresa radiofonica è stata penalizzante e poco generosa). La Renata di Mlada Khudoley, invece, ha mostrato qualche problema in più: a fronte di un registro acuto compatto, sonoro e generoso, i centri e i gravi apparivano costantemente vuoti e gutturali, tanto da scivolare in un fastidioso “parlato”. Genericamente tra il discreto e l’appena sufficiente l’ampio stuolo di comprimari, con talune eccezioni in negativo tra cui vale la pena citare l’Agrippa molto sforzato di Leonid Zachožaev, lo stonatissimo ed evanescente Mefistofele di Aleksandr Timčenko, l’Indovina/Madre Superiora di Elena Vitman che pareva volesse ricalcare tutti i difetti più sgradevoli di certi vecchi mezzosoprani russi (voce gutturale, cattivo gusto, enfasi eccessiva e gigionate insopportabili) e l’inudibile Inquisitore di Michail Petrenko che non solo era totalmente privo di autorità, ma pure spariva soffocato dal coro delle monache nel finale (bravissime peraltro). Con tale cast, dunque, la morbidezza e il cesello di Gergiev divenivano monotonia e mollezza. Peccato. Un pensiero a parte andrebbe dedicato all’allestimento proveniente dal Mariinskij di San Pietroburgo e coprodotto con la ROH, a firma di tale David Freeman (ma probabilmente qualcuno lo riterrà un genio…io non me ne sono accorto): una scena vuota occupata, nei primi due atti da una pedana con due letti e una mezza parete, nel terzo e quarto dalla facciata di alcune case stilizzate (che parevano disegnate da un bambino di 3 anni) alternate a quattro alberelli striminziti simili a quelli fatti con l’ovatta nei presepi, nel quinto completamente vuota. Il tutto illuminato talmente male da rimpiangere la luce fissa: credo che un qualsiasi locale di provincia possa vantare effetti luminosi più professionali (ma pure giocherellando nel salotto di casa con le luci alogene credo si possano ottenere effetti più suggestivi)! Regia (???) ispirata al laissez-faire più vieto, incapace di ispirare un qualsiasi gesto che non fossero le braccia alzate al cielo o la mano sul cuore o sulla fronte. Unica “trovata” (peraltro banale e fuorviante) la presenza di una decina di acrobati seminudi dipinti di bianco (e dai fisici non proprio tonici) che si contorcevano sulla scena a simboleggiare le presenze “maligne”: a parte l’effetto ridicolo di talune soluzioni (spesso se ne restavano appollaiati sui trespoli ai lati della scena o sul fondo, oppure – nella scena di Agrippa – avevano cuciti addosso pezzi di scheletro simili a quelli che si trovano nei grandi magazzini durante il carnevale, nel reparto giochi) la didascalica esplicitazione del male attraverso la personificazione delle visioni di Renata, impoverisce l’evocatività della musica di Prokof’ev che, da sola, basta a suggerire tali presenze, lasciando il dubbio – teatralmente efficacissimo – di quale sia la realtà vera: quella di Renata o quella di Ruprecht, il diavolo esiste o è solo nella mente dell’invasata? Di particolare bruttezza visiva la scena finale, con gli acrobati che violentano le monache, le monache che si denudano e che corrono per il palco sballottando le grazie talvolta abbondanti, l’Inquisitore vestito come il cardinale Borromeo dei Promessi Sposi che brandisce una croce come se fosse la bacchetta magica di Harry Potter, due acrobati arrampicati sulla parete di fondo e illuminati da giganteschi riflettori, il rogo trasformato nell’improvvisa accensione di una serie di fanali che illuminano la platea. Insomma, una scemenza. Stavolta a Torino la ciambella non è uscita col buco…

 

4 pensieri su “L’Angelo di fuoco a Torino: cronaca di una delusione annunciata.

  1. Sono stato stasera per la recita qui al Regio per l’Angelo di fuoco,non sò se per errore mio ho c’era un errore poi
    corretto sulla locandina on line ero convinto che stasera cantavano tutti quelli della prima,invece quando mi sono
    trovato in teatro quando ho visto la locandina al foyer ho visto che cantava Sergeeva come Renata Akimov come Metistofele,e la Savova come indovina,e madre superiora.
    Sulle scenografie concordo con Duprez riguardo alla pochezza,però era funzionale non è di certo un opera che richiede sarà quali scene o paesaggi.
    Insomma certo che il regio se voleva fare un allestimento in proprio , è di soldi c’è ne fossero a iosa con i palchi movibili in orizzontale e in profondita,e in verticale,e la torre di 30 metri che sovrasta il palco dove possono essere alloggiate tante attrezzature se si vuole si poteva anche fare un Angelo di fuoco con effetti speciali alla Potter,magari lasciavano Duprez sbalordito,ma tantè si deve accontentare,per me è stato una scenografia povera ma funzionale allo scopo dell’opera,anche l’effetto luci sono state più che buone,mica potevano mettere i laser.I vari movimenti dei cantanti sono stati coerenti e funzionali sia per le scene sia per la trama.
    Poi è vero che la presenza maligna dovrebbe essere già data dalla musica,ma quelle figure bianche acrobatiche che
    si appolaiavano,rimanendo ferme,immobili come statue come quelle che si vedono in certi luoghi anche religiosi dove il
    maligno si insidia e osserva,poi scendevano muovendosi attorno o avvinandosi o allontanandosi dai protagonisti davano una
    certa presenza maligna che prima si è manifestata concretamente all’inizio tormentando Renata,per poi esplodere nel parossismo finale il pubblico ha molto apprezzato alla fine, tributando a questi mimi acrobati un grande applauso certo
    che i movimenti andrebberò un po affinati.I Costumi andavano piu che bene non capisco cosa devono indossare anche per dare l’idea degli scheletri,non ho capito se alla fine quelle figure femminili erano nude integrale o avevano la calzamaglia,ero in 18ma fila.
    L’orchestra per me ha suonato piu che bene precisa analizzando i vari passaggi,in questo caso si può anche discutere il
    modo in cui Gergiev ha voluto interpretare l’opera,però a me sembra che non sia mai mancata la tensione a sottolineare la
    trama,ha fatto le sfumature per sottolinerare certi passaggi,e ha fatto una buona analisi nella concertazione.
    Le voci premettendo che il ruolo di Renata per un soprano è un ruolo infame la Sergeeva se l’è cavata abbastanza bene la
    voce in sala correva era piena e corposa anche se mi è parsa non molto convicente nella parte finale,e nella scena iniziale
    quando era tormentata dai diavoli,ci voleva più peso nella voce per dare il senso anche di paura e terrore.
    Ulanov che canta Ruprecht una voce di non grande volume anche se si sente bene,mi è parso preciso contenuto nel canto.
    Akimov come Metistofele non male,come Zachozaev come Agrippa.
    L’inquisitore questa sera Tanovickij mi è parso di ottimo volume e di voce autoritario,e nella scena finale tra le monache
    indemoniate la sua voce svettava perfettamente.
    Sulle luci del rogo sarebbe stato preferibile creare un gioco di luce diverso per simboleggiare il rogo, ci sono tanti
    sistemi.Pubblico attento,parco di applausi durante la recita, ho avuto l’impressione che si sia lasciato coivolgere nella
    trama,senza annoiarsi,alla fine un grande applauso sopratutto alla Sergeeva,anche Gergiev ha avuto la sua dose di
    applausi.
    Stasera a Torino temperatura fredda,nonostante il tempo infame il teatro era praticamente pieno.
    All’uscita dal teatro dopo un decina di minuti ha cominciato a fioccare
    Anche stasera al Regio la ciambella è riuscita col buco.

  2. Nessun laser e nessun effetto speciale, caro Pasquale, semplicemente qualcosa di più intelligente e di meno “cheap”… Ho ancora nella mente lo splendido spettacolo scaligero di Cobelli (1994, poi ripreso nel ’99): anche lì nessun effetto speciale o laser, ma semplicemente un regista che fa teatro per davvero e non si limita a riempire spazi. Tornando allo spettacolo torinese (prodotto da due importanti strutture, che non hanno certo problemi di bilancio: il Mariinskij e la ROH) ribadisco quanto scritto. E’ una mia opinione e non i motivi della tua ironia su quelle che sarebbero state le mie fantomatiche “pretese”. Tanto più che non cambierò certo parere e quegli acrobati in sovrappeso mi parranno sempre grotteschi e di cattivo gusto. Gli scheletri attaccati alle tutine bianche che danzano intorno ad Agrippa restano, a mio giudizio, esempio massimo di comicità involontaria (e pensare che secondo le intenzioni di Prokof’ev dovevano sogghignare in un angolo, come contraltare alle parole dell’alchimista, in un effetto di allucinata ironia). In generale mi aspettavo di più (non tanto da Gergiev di cui conosco perfettamente il modo di dirigere e la sua non perfetta resa di tale repertorio). Mi sono discretamente annoiato: soprattutto nei primi due atti.
    Ps: nella scena finale le monache erano nude.
    Pps: noto che hai riscontrato gli stessi dubbi rilevati da me… Io non dico che fosse un cattivo spettacolo (l’orchestra è splendida e il coro è ottimo), certo non è stato indimenticabile e – francamente – non è valsa la pena andare sino a Torino, a -15 gradi e coi noti disagi ferroviari, per assistervi.

  3. Ho assistito all’ultima recita dell’Angelo di Fuoco, era la mia prima volta, e quindi, non avendo confronti con edizioni del passato, non sono rimasta delusa. Nel cast, il terzo, nessun cantante emergeva per meriti . Rupert di Evgenij Ulanov la solita voce piccola e non proiettata, Renata di Larisa Gogolevskaja voce di maggior peso ma oscillante, sempre spinta e già in difficoltà dal terzo atto, sonora la voce dello stonato Mefistofele di Evgenij Akimov , il migliore l’Agrippa di Vasilij Gorskov, per tutti gli altri vistosi ingolamenti.
    Ho trovato lo spettacolo miserello, poco simbolico, senza malia, non adeguato a quanto usciva dalla buca.
    La regia è incentrata sulla visione simultanea di due realtà: quella demoniaca rialzata e superiore e quella umana inferiore .Nel primo atto già visualizziamo che la realtà degli spiriti del male è più ampia e contiene quella umana, raccolta su una piccola pedana, illuminata da una luce soprastante fissa che ne enuncia la pochezza.
    Per il mondo degli umani le scarne scene tendono all’illustrazione più che alla ricerca di elementi concettuali ed espressivi, il mondo è grottesco e senza bellezza; nell’osteria, dove Mefistofele mangia il giovane servitore che scompare in una botte per ricomparire poi in un’altra, gli intenti comici sono grevi, da sagra paesana e da saltimbanchi; i maschi sono rozzi, le femmine ossessive.
    Il livello superiore è esclusivamente risolto con i mimi-acrobati completamente dipinti di bianco, il colore della morte per molte culture, spiriti del male che insidiano gli umani, circuendoli e possedendoli, e ad essi si contrappongono secondo la dicotomia che pervade l’opera: Ruprecht/Renata, normalità/follia, bene/male, inferno/paradiso ecc.., tuttavia anche qui, come già evidenziato nell’articolo, ci sono momenti non ben risolti, i loro movimenti sono spesso disturbanti e, comunque, rimangono un’idea non proprio innovativa !
    Nell’ultimo atto, la scena dell’esorcismo è indiscutibilmente kitsch e l’inquisitore-vescovo ne è la vetta, mentre la trucida lascivia delle ombre che può avere una sua adeguatezza.
    Ho interpretato le proiezioni di luce bianca per il rogo di Renata come: possessione/angelicazione, sacrificio = redenzione . (Ma forse è un po’ forzata :) )

    Pur percependo le lacune di cui parla magnificamente Duprez “la lettura del direttore russo ha evidenziato gli elementi lirici …a discapito delle asprezze, dei contrasti e della violenza, che pure sarebbero cifre fondamentali della partitura” non concordo quando ritiene che la “morbidezza e il cesello di Gergiev divenivano monotonia e mollezza”. Ho trovato la direzione magnifica, capace di creare una tensione narrativa in bilico tra espressionismo, razionalismo, e lirismo classicheggiante, senza mai indulgere in momenti romantici e decadenti. Impareggiabile nell’evocare un’anima ancestrale potente e misteriosa, la stessa dei grandi romanzi russi. Il magma, sino all’epilogo, non “scatena” ma “sussurra” di pulsioni latenti, che si delineano non con il riconoscimento, di cui egli sottolinea la mancanza, ma con l’evanescente incanto di atmosfere sinuose e macabre, nell’ambiguità di trasparenze avvolgenti, subdolamente trascinanti sino a quel gorgo indistinto del finale dell’opera, dove amore/morte, perdizione/salvazione si confondono in un flusso ossessivo e sensuale in cui balenano strumenti beffardi, sonorità inattese, e la meraviglia trascina l’ascolto.
    Chi ne ha le capacità e le conoscenze potrà discutere sulla validità dell’interpretazione, sulla sua correttezza storica e filologica, elencarne tutte le carenze, evidenziare gli scostamenti dalla scrittura del compositore; per me è stato solo bello e poetico.

    Direi che questo “Angelo di Fuoco” torinese, spettacolo modesto, con cantanti scarsamente sufficienti, per la bellezza della partitura, per l’incanto musicale che il direttore ne ha tratto, per l’ottima orchestra, si possa egualmente meritare un viaggio disagevole.

    Riguardo alla segnalazione del grande freddo, cornice ideale per il Mariiskij, ipotizzo che possa essere stato evocato e risvegliato dalla “magica” cooperazione Torino-SanPietroburgo !

    Con la consueta ammirazione per il dotto Duprez,

    Olivia

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