Non passarono due secoli dalla descrizione giuliana che i barbari non solo fossero romanizzati e civilizzati, ma addirittura additati e celebrati quale esempio di romana virtus ad opera di Cornelio Tacito. Nel nostro microcosmo dell’opera accade lo stesso. L’ascolto di alcuni fra i maggiori cantanti classificati di scuola austro-germanica, che abbiano inciso in lingua tedesca passi del Ballo in maschera insegna come sino al secondo conflitto mondiale questi artisti parlassero la medesima koinè linguistica di quelli formatisi ed attivi in terra italiana e come addirittura i loro modi espressivi fossero talora più castigati e fedeli all’autore di quelli praticati nel paese del melodramma. Ossia per chi nulla ha da fare se non che sprecare il proprio tempo in businate (che altro non sono che la versione lombarda e per lo più orale delle pasquinate) non vi alcun preconcetto in seno al Corriere della Grisi ma il solo desiderio di celebrare il buon canto, la grande interpretazione sia essa iberica, gallica, italica o germanica o russa. E potrei non andare oltre perché chi sia dotato di onesto apparato uditivo non può sentire quale vallo , anzi, per restare in tema, quali sponde renane dividano il canto di un Jonas Kaufmann da quello di Helge Rosvaenge. E del come Rosvaenge, Slezak e Patzak cantino splendidamente ciascuno con voce differente dall’altro, ciascuno privilegiando aspetti del personaggio e dello spartito tutti, però, esemplari ed inarrivabili. Basta -per capire il significato del termine “parlare lo stesso linguaggio”- sentire e confrontare il timbro vocale di qualità unica del tenore moravo, la sua dinamica sfumata e la libertà ritmica dell’entrata di Riccardo, che trasogna con voce sempre sonora e sul fiato l’amore per Amelia con lo squillo e la morbidezza di Rosvaenge, che esegue alla lettera i salti previsti nella ballata, che in poche battute passa dalla profferta amorosa di “Non sai tu” per diventare al tempo stesso estatico e mordente nell’esecuzione della stretta “Oh qual soave brivido”. L’amoroso offre una tale gamma di possibilità espressive da poter essere alla portata di Julius Patzak persino troppo sfumato ed amoroso, ma esemplare nell’esecuzione delle smorzatura (come accade nel “posa alfine” o nel “e taccia il core” del recitativo dell’aria del terzo atto, o nell’aria il “chiusa nell’intimo del cor” con rubati di altissima scuola),ma di essere persino centrato dal canto di Max Lorenz, normalmente a noi noto quale esecutore wagneriano, che per certo nel finale dell’opera non può reggere, sotto il profilo del legato, il confronto con gli altri tenori proposti, ma che sostiene con assoluta facilità il tempo lentissimo ( e tragico, aggiungo ) staccato da Karl Bohm. Proprio accanto a Lorenz compare Hilde Konetzni, che associamo a personaggi di Wagner o Strauss. Oggi, tanto per essere ripetitivi, i soprani dediti a quegli autori, approdando a Verdi o annaspano o cancellano. Evito nomi, basta richiamare accadimenti di pochi giorni or sono in terra d’Austria. Hilde Konetzni riesce quale Amelia ad essere morbida, dolce appassionata e sfumata. Il caso ancor più esemplare che la salda maestria consenta di cantare e fraseggiare Verdi anche ai cantanti wagneriani trova il proprio apogeo in Melanie Kurt. Premetto che la Kurt cantava abitualmente Isotta ed Aida, ma pure la Berta di Profeta. Come farà pochi anni dopo Frieda Leider. Nell’esecuzione delle due arie la Kurt non emette mai suoni aperti o di petto, sale con irrisoria facilità (vedi il si nat di “e terribile sta” e il do5 di “oh Signor”, smorza il la bemolle di “che ti resta”) e l’espressione è dolente e misurata come si conviene al disperato conflitto di Amelia. Come lei Frieda Leider supera con irrisoria facilità le difficoltà vocali del quartetto con marito e congiurati. Davanti a queste due cantanti, vere voci di soprano drammatico, soprani lirico spinti come la Nemeth o la Teschemacher sembrano non possedere la grandiosità e l’ampiezza che si richiederebbe alla cosiddetta voce verdiana. Che tanto per precisare e prevenire le solite polemiche voce verdiana non è affatto sinonimo di voce soltanto “grossa” e priva di dinamica. Ma la Nemeth, che si trovò a cantare alla Staatoper di Vienna i ruoli di soprano drammatico senza essere tale, ma dotata di un’ottava acuta facile e penetrante, supplisce alla dote naturale con l’accento e, appunto la saldezza in zona acuta, irrinunciabile per il ruolo di Amelia. La battaglia più interessante è fra i maggiori baritoni di scuola tedesca ossia Schlusnus e Schwarz, ma chi siano e di quali raffinate prodezze (comune quella del rallentando e della mezza voce su “quando Amelia”) fossero capaci è circostanza ben nota a chi si occupi della storia della vocalità e dell’interpretazione. Ma come spesso accade la vera sorpresa viene dal “terzo incomodo”: Domgraf-Fassbaender, che autentico baritono verdiano non era né per colore né per ampiezza, ma che esegue la sortita di Renato con un controllo ed una proiezione del suono assoluto, una conseguente facilità in zona acuta e, sotto il profilo interpretativo un accoramento esemplari non solo in assoluto, ma come pratica esemplificazione del più volte declinato assioma che il possesso della tecnica consente di superare agevolmente i limiti naturali della voce.
Chi non aveva quale paggio Oscar né limiti vocali né limiti tecnici è Selma Kurz, che, al pari di altre prime donne del tempo (Hempel, Tetrazzini e Galli-Curci) teneva stabilmente in repertorio il paggio. E lo praticava da prima donna e da esimia virtuosa con trasporti, varianti ed interpolazioni. I trilli della Kurz sono esemplari qui ed altrove e la cantante ne interpola un paio impressionanti per facilità e granitura. Si racconta che le libertà di questo Oscar provocarono le reazioni di Luigi Mancinelli, direttore di imposto ottocentesco e, quindi, favorevole agli arbitri, che, inascoltato, invitò la signora a qualche moderazione. Qui vale “il prendere o lasciare”. Io prendo e non solo perché ami le esibizioni canore un poco fine a sé stesse in generale, ma perché nel caso di specie e soprattutto nel couplet del terzo atto possono assumere un loro significato quale ultimo unico omaggio di Verdi a personaggi esornativi e di limitata presenza drammatica, quale è indiscutibilmente Oscar al terzo atto. E non mi si risponda che è il paggio a descrivere al vindice Renato il travestimento del conte che consente l’omicidio, perché sarebbe solo una scalcinata difesa d’ufficio. Non la prima che mi tocca leggere!
Verdi – Un ballo in maschera
Atto I
La rivedrà nell’estasi – Leo Slezak (1906)
Alla vita che t’arride – Joseph Schwarz (1916), Heinrich Schlusnus (1917), Willi Domgraf-Fassbaender (1931)
Volta la terrea – Lotte Schöne (1929)
Ogni cura si doni al diletto – Max Lorenz, Mathieu Ahlersmeyer, Alda Noni, Sigmund Roth & Marjan Rus, dir. Karl Böhm (1942)
Re dell’abisso, affrettati – Sigrid Onégin (1919), Karin Branzell (1928), Margarete Klose (1935)
Della città all’occaso – Elena Nikolaidi, Hilde Konetzni & Max Lorenz,dir. Karl Böhm (1942)
Di tu’ se fedele – Leo Slezak (1906), Julius Patzak (1929), Helge Rosvaenge (1935)
E’ scherzo od è follia – Erna Berger, Else Ruzicka, Artur Cavara, Eduard Kandl & Felix Fleischer-Janczak (1930)
E’ lui! ratti movete…O figlio d’Inghilterra – Franz Worff, Max Lorenz, Mathieu Ahlersmeyer, Alda Noni, Elena Nikolaidi, Sigmund Roth & Marjan Rus, dir. Karl Böhm (1942)
Atto II
Ma dall’arido stelo divulsa – Melanie Kurt (1916), Maria Nemeth (1927), Margarethe Teschemacher (1940)
Teco io sto – Helge Rosvaenge & Hilde Scheppan (1944)
Odi tu come fremono cupi – Hildegard Ranczak, Hans Reinmar & Helge Rosvaenge, dir. Heinrich Steiner (1938)
Ve’ se di notte – Frida Leider, Heinrich Schlusnus, Martin Abendroth & Otto Helgers (1925)
Atto III
Morrò, ma prima in grazia – Melanie Kurt (1916), Maria Nemeth (1927)
Eri tu che macchiavi quell’anima – Joseph Schwarz (1916), Heinrich Schlusnus (1917)
Siam soli…Dunque l’onta di tutti sol una…Di che fulgor, che musiche – Hildegard Ranczak, Gertrude Callam, Hans Reinmar, Augusto Garavello & Hans Müller, dir. Heinrich Steiner (1938)
Ma se m’è forza perderti – Julius Patzak (1929), Joseph Schmidt (1931), Helge Rosvaenge (1935)
Saper vorreste – Selma Kurz (1905)
T’amo, sì, t’amo e in lacrime…Ella è pura, in braccio a morte – Max Lorenz, Hilde Konetzni, Mathieu Ahlersmeyer, Alda Noni, Sigmund Roth & Marjan Rus, dir. Karl Böhm (1942)
Concordo su tutto. Non capsico però perchè qualcuno di voi mi abbia stroncato senza pietà l’aria di Florestano cantata dallo stesso Rosvaenge (tenore splendido!) qui invece tanto celebrato . Cent co , cent crap?
sempre grazie per gli ascolti
visto il don carlos e l’ aida parmigiana dolce conforto ai miseri!
Ed ancora conforto serve dopo Turandot di Bologna e Salome di Bolzano
Che merviglia!!
Il Riccardo di Roswaenge già lo conoscevo – è uno dei tenori che preferisco -; gli altri ascolti sono stati una bellissima sorpresa, specialmente Patzak: il suo “Ma se m’è forza perderti”, a parte il piccolo taglio, è una lezione di canto e di immedesimazione col personaggio da pelle d’oca. Grazie.
grazie talvolta si ha l’ impressione che sia operazione ardua non con convincere, perché non è questo quello che desidero e ritengo giusto, ma far capire le ragioni della propria passione. Saluti domenico. aggiungo che purtroppo tagli e aggiusti sono il doloroso scotto da pagare alla durata standard dei 78 giri
Semplicemente grazie. Nuove preziose conoscenze anche da questo post. Davvero, indispensabili grisacci