Le cronache di Manuel García: Filarmonica della Scala – Daniel Harding – 09.I.2012

Dispiace davvero quando le serate musicali che esulano dalla frequente mediocrità di oggi vengono accolte con pallidi e rapidi applausi. E si vede un pubblico indifferente, forse incapace di cogliere qualità, pregi ed effettivi meriti di una esecuzione tanto quanto di accorgersi delle falle e delle crepe di altre o forse schiavo incosciente dei comandamenti del marketing musicale. Ci sarebbe da interrogarsi sulla credibilità di certe platee (e certi loggioni…), sulla loro capacità e coerenza critica.
Il concerto in questione è avvenuto nel Teatro alla Scala, di conseguenza la mia considerazione d’apertura non può che riferirsi al suo pubblico, ai suoi figli fedeli ed affezionati, eppure incapaci di arrabbiarsi quando fa male, e altrettanto incapaci di gioire quando fa bene.
Fatto sta che il bellissimo concerto di Harding è stato accolto da tutto il pubblico con applausi, certo (perché i fischi sono illegali), ma privi di quel calore e di quell’entusiasmo che il Maestro innanzitutto si sarebbe meritato.
Peccato. Peccato davvero perché una serata come questa era degna di un grande trionfo.

Veniamo al dunque, al solista, all’orchestra. Al Direttore.
Programma facile, bello, di quelli che attirano pubblico, molto pubblico: Concerto per violino di Beethoven e la Sinfonia “Dal Nuovo Mondo” di Dvorak.
Il primo titolo ha avuto come protagonista il violinista tedesco Frank Peter Zimmermann, grande nome d’oggi per tutto il repertorio ottocentesco. All’interno del quale però il concerto beethoveniano occupa uno spazio particolare: la sua peculiarità e grande difficoltà non sta tanto nell’eccessivo virtuosismo dello spartito, nelle velocissime scale, arpeggi, glissandi e agilità varie che invece riempiono altri sparititi violinistici di poco successivi. La grande complessità di questa composizione sta nell’interpretazione, nell’ “anima” che il solista deve mostrare nell’esecuzione.
Quanto a virtuosismo (perché comunque resta un concerto di grande difficoltà tecnica) Zimmermann ha mostrato grande solidità, agilità e chiarezza. Il suono non è però sempre stato bello e pulito: è parso in certi momenti metallico, fibroso e miagolato nella parte alta della tastiera. Comunque promosso, anche perché sostenuto da un’orchestra impeccabile.
Non si può dire lo stesso del secondo e più difficile punto di questo concerto: l’interpretazione. È stato un Beethoven troppo settecentesco, razionale, privo di pathos. Di conseguenza, è risultato anche un suono talvolta privo di cavata, di potenza, fragile nei grandi accompagnamenti orchestrali. Insomma un Concerto privo di quella forza quasi metafisica, di quel volare sopra l’orchestra con mirabile levità e concretezza che rappresenta la grandezza di questa mirabile pagina violinistica.

 

Ma veniamo al grande miracolo della serata: Daniel Harding.
Eh si, miracolo perché il direttore inglese è riuscito a risvegliare la pigra e indolente compagine scaligera dandole una nuova forza, un nuovo vigore, cosa che ad altri suoi coevi colleghi non è riuscita.
La sinfonia di Dvorak in questo senso è stata esemplare: l’orchestra ha infatti mostrato un suono pieno, avvolgente nei forti, dolce e delicato nei piano. Mai noioso e sporco.
Particolarmente riuscito il II movimento: Harding è riuscito ad ammorbidire senza sgonfiare tutte le sezioni raggiungendo un lirismo assolutamente poetico, un fraseggio (soprattutto nello splendido solo del corno inglese) omogeneo e raffinato.
Negli altri movimenti della sinfonia, il direttore inglese ha sempre dato una interpretazione equilibrata, capace di mettere in luce ogni particolare dello spartito con grande saggezza esegetica: così dunque il grande fuoco dell’ultima parte, aggressivo, forte ed energico con un suono complessivo né rumoroso né “pestato” ma rotondo, con una cavata davvero notevole. Pregevole pure l’esecuzione dello Scherzo in cui Harding ha saputo alternare con intelligenza il gusto più riposato e pastorale (bellissimo il  dialogo flauto e poi clarinetto in La con i violoncelli) delle battute centrali con quello più energico delle battute iniziali e finali con uno staccato degli archi pulito e netto.
Ovviamente è data per scontata in questa analisi, una assoluta capacità di tenere l’orchestra unita e compatta ad ogni indicazione di tempo.
Il tutto corrisponde a un gesto pulito negli attacchi, chiaro nella dinamica, elegante e raffinato. E molto, molto bello da vedere.
Insomma, un gran Direttore, con la D maiuscola.
Il risultato di questo concerto è stato frutto di una collaborazione minima, di qualche giorno, solo il tempo di qualche prova. Ci sarebbe da chiedersi e da chiedere a chi ha preferito altre bacchette a capo del Teatro alla Scala, quali risultati si potrebbero raggiungere, in un rapporto più lungo nel tempo, con bacchette precise nella tecnica e raffinate nel gusto come quella di Daniel Harding.
Bravo Maestro!

 

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9 pensieri su “Le cronache di Manuel García: Filarmonica della Scala – Daniel Harding – 09.I.2012

  1. La reazione del pubblico è stato uguale alla fine della sua bellissima Alpensinfonie l’anno scorso. Davvero incomprensibile. Apparentemente alla Scala non sono solo i cantanti che si ammalano perennemente, ma anche il pubblico generale ha un’allergia contro la buona musica.

    • Nella maggior parte dei casi, le scelte manageriali in campo artistico mostrano una cattiva preparazione e un dubbio gusto. Che pare siano condivisi anche dal pubblico, che applaude commosso le piccole starlette e ignora i maggiori talenti del panorama mondiale.

      • Gianni Raimondi, io sarei, se mi permette, ben più drastico in questa analisi.
        Innanzitutto le “scelte manageriali” e il “campo artistico” sono due realtà distanti per natura. Le prime hanno come obbiettivo fare soldi, guadagnare in qualsiasi modo: pompare oltre misura artisti incapaci (vedi Villazon, vedi Netrebko), pubblicare dischi di miserrima qualità con “””artisti”” sconosciuti e destinati ad avere un successo a scadenza limitata e solo in disco (vedi dischi attuali della Decca).
        Seconda cosa: non è che il pubblico condivide le scelte manageriali e basta in un atteggiamento diciamo di parità o superiorità, ma anzi il pubblico dipende da quel che esse impongono apprezzandolo per principio, giudicandolo di grande qualità solo perchè promosso dalla Decca, dalla Emi o dalla Detusche Grammphon.
        Per capire il gusto del pubblico d’oggi basta aprire gli occhi sulle magagne del marketing odierno.
        Scommetto che se Florez avesse avuto un contratto con la Claves o con la Erato non avrebbe avuto un tale successo, idem dicasi per Villazon e la Deutsche Grammophon e per tanti, tantissimi artisti d’oggi.

        Prima la pubblicazione di un disco con la Decca, ad esempio, era un punto d’arrivo per un cantante, il raggiungimento di un obbiettivo, frutto di un successo meritato. E frutto anche in parte, di abili capacità manageriali sulla propria arte.
        Oggi la pubblicazione di un disco con la stessa casa discografica è il punto di partenza su cui costruire la propria carriera, dal quale dare inizio al proprio successo. è la causa del proprio successo, non la conseguenza. Successo determinato, va da sé, non dalle proprie qualità artistiche, ma dal fatto di essere sostenuti dalla Decca.
        Ricordo, in chiusura, in occasione di quel vergognoso elisir in scala con villazon che tutti i grandi negozi di classica milanesi, circa 4 mesi prima dello spettacolo, avevano messo scaffali particolari per villazon con poster e figure in cartone e con tutti i suoi dischi in sconto. La gente ovviamente è cascata nella trappola presentandosi in teatro pronta ad applaudire.

        • Questa sua disanima mi trova pienamente d’accordo e riesce a cogliere aspetti che la mia breve battuta non voleva far emergere. Lei saprà meglio di me come nel mondo dell’opera si possano contare più esempi di carriere ideate “a tavolino”, lanciate da un disco dall’indubbia qualità artistica, seguito da rappresentazioni più o meno scandalose (Villazon, Netrebko sono solo due esempi). E’ una costante che caratterizza questi ultimi vent’anni.
          Non sarei così critico però, specie prendendo ad esempio gli anni 50 e 60, circa i rapporti tra scelte manageriali all’interno di un teatro, intese ovviamente come scelte gestionali ed economiche, e la qualità artistica. Il problema è che al giorno d’oggi le ragioni economiche e promozionali prevalgono su quelle artistiche e i risultati sono sotto gli occhi di tutti, soprattutto di coloro che vivono la realtà dei “grandi teatri” (parlo per esperienza personale, frequentando spesso un certo teatro inglese…).
          Per quanto riguarda il pubblico mi trova d’accordo con lei, anche se devo ammettere che qui il discorso si fa più complesso. Sono infatti convinto che, sempre più di frequente, il pubblico cada nelle trappole tese dai promotori perchè non consapevoli o non sufficientemente educati al bel canto o la buona musica. Ci sono senza dubbio altri punti su cui potremo forse discutere, rimango in attesa di sentire ulteriori considerazioni.

          • Negli anni 50/60′ diventa inevitabile, con la diffusione dei dischi, un contatto tra campo artistico e marketing. Contatto che diventerà fortissimo con le grandi coppie Sutherland-Decca o Callas-Emi. Questo rapporto era ben diverso da quello odierno: l’etichetta discografica si poneva al servizio dell’Artista, assecondandone ovviamente entro certi limiti, capacità, necessità e richieste. Va tenuto conto che l’Artista che pubblicava un disco doveva essere già all’apice o quasi del successo (solito discorso espresso prima): insomma, doveva già aver dimostrato in teatro le sue doti musicali e la sua sensibilità artistica.
            Oggi è tutto l’opposto: è il cantante che si pone al servizio delle necessità economiche della casa discografica. E questa, ad es decca (che oggi sta pubblicando allucinanti aborti discografici), prende un cantante, ad es la De Niese, pompandolo come mucca d’allevamento con mangimi chimici. Il cantante ci sta al gioco: fa soldi, fa carriera. E poi scade, crolla, collassa. Alla fine il pubblico si dimentica di lui, dei suoi dischi e lo rimpiazza con un altro cantante destinato alla medesima, veloce parabola.

            Il tutto avviene ovviamente per colpa del pubblico.
            Basta anche vedere, tanto per capirci, quel che succede nella musica leggera o nel cinema: film sfornati uno dopo l’altro per soddisfare gusti sempre più superficiali, film dimenticati dal mondo appena vengono cancellati dalle sale cinematografiche. Oggi tutto viene inghiottito dal marketing, dalla necessità di novità. Il che può funzionare fino a un certo punto in forme “””d’arte””” contemporanee. Non con l’Opera.

  2. Io non mi meraviglio più tanto se l’orecchio degli spettatori scaligeri per troppo tempo è stato educato da direttori sinfonicamente mediocri, in primis Muti. A seguire, Dudamel, Gatti e Barenboim.
    Qualche anno fa, il convento passava ben altro… Giulini, Sawallisch…

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