Riflettere e confrontare, quarta puntata: Rodrigo di Dhu

Qualcuno ha definito, con ragione, “La donna del lago”  l’opera dell’ambiguità, aspetto incarnato principalmente dalla protagonista, ambigua nel suo rapporto con Giacomo V, da lei attratto e che la attrae, ambigua nei rapporti  familiari, sia  quello con l’amato (Malcolm Groeme) che con il marito imposto dalla ragione di clan (Rodrigo di Dhu). Con un simile intreccio le tradizionale categorie drammaturgiche rossiniane sono stravolte o, almeno, alterate. Dinnanzi  alla situazione sentimentale rappresentata nel capolavoro rossiniano Ernani, che prevede tre uomini nella stanza da letto della medesima donna è ben poca cosa.
Intreccio ed ambiguità drammatiche si riverberano  nella vocalità dei personaggi, particolarmente Rodrigo, ufficialmente antagonista, parte scritta per Andrea Nozzari (1775-1832) cui in genere erano riservate questi caratteri ed ufficialmente baritenore.
Ma antagonista di chi no si sa,  perché nel finale del primo atto  le moine di Elena e l’incombente lotta contro il monarca ed il cataclisma distolgono lui e Malcolm  dalla sfida, che, invece, si concreta al secondo  atto con Giacomo V, sorpreso solo con Elena e rivelatosi pure antagonista politico.
E poi proprio baritenore? Questo antagonista e rivale canta anche d’amore, come accade alla sezione centrale dell’aria di sortita “Ah dov’ è colei che accende” e all’incipit del concertato finale “Quanto a quest’alma” , tanto che più “cattivo”  Rodrigo anticipa psicologia ed anche  vocalità dei baritoni di Donizetti  e di taluni amorosi verdiani respinti (quale Carlo V ed il Conte di Luna), ricorrendo alle cosiddette melodie “lunghe”,  pensate forse in ragione del passato di Andrea Nozzari, che per anni aveva cantato ruoli di amoroso di mezzo carattere prima di essere un  “tragico”. Che carattere Rodrigo fosse, più di ogni altro ruolo di Andrea Nozzari, quello degli amorosi respinti in chiave di fa, che si trasformano in antagonisti e rivali doveva essere percepito sin dalle prime rappresentazioni del titolo, perché già nel 1827 a Milano il ruolo fu interpretato da Antonio Tamburini, il prototipo di baritono nobile donizettiano. Sicchè una volta effettuati i dovuti trasporti il carattere di Rodrigo coincideva con quello degli amanti respinti di Donizetti. Non dimentichiamoci poi, che, in assenza del tenore contraltino, Andrea Nozzari fungeva perfettamente da amoroso a pieno ed esclusivo titolo come accadde con il Leicester di Elisabetta e con l’Osiride del Mosè. Insomma nonostante la fama di essere un interprete limitato e non particolarmente fantasioso, un esimio vocalista prima di tutto, Nozzari era in grado di prestare voce a differenti “caratteri” e “situazioni tragiche”, per utilizzare la terminologia del tempo.
Solo che era un grande vocalista, e di questo  Rossini tenne conto scrivendo ogni sua parte, non solo obbligandolo ai passi di agilità elaborati, ma imponendo al personaggio ampiezza di fiati, larghezza e fierezza di fraseggio. Tutte qualità, che resero –sempre-  di estrema difficoltà trovare interpreti adeguati a quei ruoli. Di fatto  dopo Nozzari il solo Domenico Donzelli, che fu Rodrigo di Dhu in moltissime esecuzioni del titolo Vienna (1824), Parigi (1825,1827,1828), Londra (1829, 1832), Milano (1838) .
Rodrigo canta d’agilità soprattutto nella prima e nella terza sezione della grande cavatina di sortita nonché all’ingresso nel secondo atto sulle parole “Misere mie pupille” quando si crede (e, in fondo,  non proprio a torto) tradito,  spiega vocalità ampia e  per l’epoca stentorea, tipica al finale del primo atto sulla frase . “Disperdansi, struggasi” e, più ancora, alla sfida  nel “Dai vostri guadi uscite” dove la scrittura di Rodrigo è marcatamente orizzontale, quasi prossima all’omofonia. Erano queste le frasi che dovevano mettere in rilievo la straordinaria ampiezza e cavata della voce di Nozzari ( e poi di Donzelli) se corrisponde al vero quanto scrive Stendhal, ossia  che la voce del tenore bergamasco si sentisse dal palcoscenico del San Carlo sino a via Toledo.
Andrea Nozzari insieme ad altri cantanti che rispondono ai nomi di Niccolò Tacchinardi, Domenico Donzelli,  sono definiti tenori baritonali per contrapporli ai cosiddetti tenori contraltini rappresentati dapprima da Giovanni David e poi da Giovan Battista Rubini. Che le due categorie fossero differenti è chiaro da un passo di una lettera di Rossini al baritenore per eccellenza ossia Domenico Donzelli, ove il maestro  afferma: “ so che l’Otello è andato bene; ne godo molto. Ho riserbato il Crociato per la tua comparsa, la donna del lagago e Ricciardo; ho dato quattro voltre l’Otello con Rubini; ma è troppo forte per lui e lo riserbo anche per te…. Addio Donzellone; ama il tuo aff.mo amico. Segretezza su tutto”.
Come sempre ci sono alcuni ma e, soprattutto, l’assoluta esigenza di non ragionare applicando le categorie attuali, perché già a proposito di Giacomo V è evidente che se un Blake (a prescindere dalla modesta qualità naturale della voce ) poteva reggere senza fatica, sforzo e con assoluta aderenza drammaturgica le parti di  David e di Rubini, lo stesso non può certo dirsi degli attuali pseudo David o Rubini in carriera, come la recente ripresa di Donna del Lago ha dimostrato quanto sia errato parlare di tenore baritonale evocando  l’idea di una sorta di baritono con “appiccicati” acuti  falsettanti e bianchi.  Che cosa siano per ampiezza, colore acuti emessi in falsettone, ossia in marcato registro di testa, lo esemplificano a 78 giri cantanti come Slezak, Gherlinzoni e, persino, il giovane Caruso. La scrittura di Rodrigo in basso scende sino al Lab2 sotto il rigo ed in alto sale sino al do4. Ma è il come sale ed il come scende che riducono o, quantomeno, invitano a riflettere sulle vere caratteristiche di Andrea Nozzari, perché le note estreme (parecchie nella parte) sono sempre raggiunte al termine di figure ornamentali,  oppure toccate e subito abbandonate per eseguire una figura scala discendente. Esemplare in questo senso la prima sezione della cavatina. Quando canta da amoroso il canto di Rodrigo è  spesso fiorettato (atto primo “quanto a quest’alma amante”) e si pone nella zona fra il  si2 ed il sol 3,  ossia la zona del cosiddetto passaggio superiore. E spesso si comporta vocalmente da tenore di forza donizettiano (Poliuto per intenderci) quando nel terzetto è chiamato ad emettere in fortissimo un paio di si bem, al termine di passi di tessitura assolutamente tenorile ed anche fiorita per tacere sempre nel concertato di un paio di do4. Sempre nel finale dell’atto primo “Su coraggio amici guerrieri” Rodrigo è chiamato a cantare su fa e sol acuti.
La scrittura diviene un poco più centrale (nonostante il do4 in vocalizzo) nella scena della sfida attesa l’esigenza di  differenziare Rodrigo da Giacomo V, ma non c’è frase che non chiami in causa  il passaggio superiore.
Quindi il fantasma del baritenore, inteso come un baritono con gli acuti è, almeno con riferimento a Rodrigo di Dhu un po’ meno presente ed ingombrante di quanto si voglia far credere.
La sera del 14 novembre 1982 nella vastissima sala della Carnegie Hall la voce di Dano Raffanti, un ragazzo della Lucchesia, sui trentacinque anni evocava per proiezione, ampiezza e sonorità il racconto di Stendhal riferito a Nozzari. Sembravano non esistere difficoltà per quella voce anche perché la sapienza della scrittura vocale rossiniana e la straordinaria dote di Raffanti occultavano il limite del cantante ovvero gli acuti estremi scoperti. Davanti a questo prorompente e protervo Raffanti persino lo slancio, l’estensione ed il virtuosismo  del giovane Blake apparivano limitati. Era l’inizio della scoperta del Rossini serio e sino ad allora non si erano mai sentiti quei ruoli affrontati con la voce di una tenore, che poteva cantare Edgardo, Nemorino, Duca di Mantova ed anche il repertorio pucciniano. Era la prima volta che si sentiva una voce maschile e di tenore, per giunta, in grado di affrontare le agilità di forza come sino ad allora aveva fatto la sola Horne e qualche soprano. La documentazione di tenori capaci di fare questo, ma non applicata a titoli seri di Rossini era sporadica ed a 78 giri, rispondendo ai nomi di Jadlowker, Slezak  e Leon Escalais, abituati come eravamo a tenori dal timbro chiaro e dalla limitata estensione cantare Rossini, essenzialmente comico. In questo contesto deve essere considerata la prestazione di Raffanti nel ruolo di Rodrigo. Poi Raffanti, voce splendida, in natura credette opportuno darsi ad altro repertorio e la Rossini renaissance perse un elemento unico perché era il solo cantante dalla voce di assoluta qualità che avesse mai cantato con gusto e proprietà stilistica certi titoli  E mentre Raffanti cantava parti centrali per evitare quegli acuti che in Rossini gli riuscivano facili e sonori approdò sulle scene italiane il corpulento Christofer (Chris) Merritt ed il mito del baritenore trovò ancora più impressionante realizzazione. La voce di Merritt  non vantava  la spontanea bellezza ed omogeneità di quella di Raffanti, ma in zona centrale e bassa il colore era scuro ed evocava quello del baritono, in alto Merritt, oltre a padroneggiare le tessitura da contraltino, arrivava sino al mi bem 4 e gli acuti tradizionali del tenore si ben, si nat e do) sembravano suoni centrali per la facilità con cui erano emessi, l’esecuzione delle agilità non era quella di Blake (suo abituale rivale nelle opere napoletane), ma erano stupefacenti  la forza dell’accento e lo slancio nelle zone estreme della voce. Con queste caratteristiche  Merritt spesso affrontò Rodrigo . Le scene di sfida, di cui una esemplare nella donna (le altre stanno in Otello e Ricciardo), eseguite dai due tenori americani  erano lotte all’ultimo acuto, all’ultimo abbellimento, all’ ultima tenuta di fiato, alla più spericolata variante, ovvero alla messa in mostra di ogni artificio tecnico, che in Rossini diviene la sigla del grande interprete. I cantanti venuti dopo possono anche avere cantato bene, occasionalmente meglio  o almeno dando prova di maggior conoscenza delle difficoltà vocali e delle proprie caratteristiche, ma nessuno ha eguagliato i due Rodrigo che,  integrali, ritengo di dover proporre nel loro breve, ma aureo apogeo.

 

 

 

Gli ascolti

Rossini – La donna del lago

Atto I

Qual rapido torrente…Eccomi a voi, miei prodi – Dano Raffanti (1982), Chris Merritt (1986), Ramón Vargas (1992), Gregory Kunde (2002), John Osborn (2011)

Vieni, o stella…Quanto a quest’alma amante – Dano Raffanti (con Frederica von Stade, Marilyn Horne & Dmitri Kavrakos – 1982), Chris Merritt (con Lella Cuberli, Lucia Valentini Terrani & Harry Dworchach – 1986)

Atto II

Alla ragion deh rieda…Misere mie pupille – Dano Raffanti (con Frederica von Stade & Rockwell Blake – 1982), Chris Merritt (con Lella Cuberli & Rockwell Blake – 1986)

32 pensieri su “Riflettere e confrontare, quarta puntata: Rodrigo di Dhu

  1. Io non credo che Nozzari possa essere classificato come baritenore. Merritt è riuscito più di ogni altro, in epoca moderna, ad eseguire le parti Nozzari con proprietà vocale, tecnica, stilistica, ed era senza dubbio un puro contraltino. Il baritenore alla Nozzari che cos’è? Un tenore corto? Impossibile… le parti Nozzari sono piene di acuti, e non solo acuti sfuggiti; se sullo spartito c’è scritto “F” (forte), l’acuto inevitabilmente deve essere pieno, e non sfalsettato. Un baritono lungo? Ma per quanto un baritono possa avere una lunga estensione, non potrebbe mai sostenere, cantare in una tessitura tenorile, tanto meno potrebbe disporre, cantando, di acuti come quelli che Rossini scrive per Nozzari, sui quali solo un tenore lungo può riuscire a cantare. Nozzari era a tutti gli effetti un ex contraltino, con un centro robusto, un baricentro abbassato in ragione della sua maturità vocale, ed un’estensione formidabile sia in alto sia in basso (non è affatto raro che un contraltino possa scendere sotto il rigo). La credenza che il baritenore sia un baritono con gli acuti sfalsettati è una colossale mistificazione. Il baritenore non esiste: o sei baritono o sei tenore. Tutt’al più possono esistere tenori molto centrali, limitati in acuto, ma non era certamente il caso di Nozzari, che era un contraltino.

    • Sono d’accordo con Mancini: bisognerebbe ripensare alle classificazioni vocali e, soprattutto, non prenderle alla lettera come categorie fisse. Secondo me l’equivoco nasce quando si vuole a tutti i costi applicare la nostra suddivisione vocale a quella del ‘700 e del primo ‘800 (ancora incerto sulla sua identità), in particolare per quel che riguarda l’opera italiana. Il problema è la collocazione del baritono: voce che non esisteva nella tradizione dell’opera seria. Se si osservano le opere di Vivaldi e di Handel, si vede come la corda tenorile venisse usata per interpretare figure autoritarie, guerrieri, antagonisti, mentre l’amoroso (parte che nel melodramma sarà appannaggio del tenore) era interpretato dal castrato. Rossini prosegue in questa linea affidando al tenore tradizionale (con voce scura e corposa) i personaggi autoritari o antagonisti, lasciando per l’amoroso il contralto oppure il tenore contraltino. Dall’evoluzione del tenore barocco (o del baritenore rossiniano) nasce il baritono verdiano. Certo poi stili e tecniche compositive variano: il baritenore rossiniano era capace di acuti e salti impressionanti (ma questo attiene più all’espressione ornamentale che non alla cifra estetica del personaggio). Mancini ha ragione quando dice che il “baritenore non esiste”, ma esiste la chiave tenorile che dall’originale barocco si evolve in due direzioni opposte: il baritono e il tenore acuto.

        • E perché mai? Sono tutti e due contraltini. Ho già scritto sopra che ritengo il baritenore una vocalità inesistente, una fantasia partorita dalla mente fantasiosa di qualche vociologo… Solo i contraltini (voci di natura assai lunghe) possono sfoggiare estensioni come quella di Merritt, nessun tenore, né tanto meno baritono, può salire in quel modo ai sopracuti.

        • Con due voci molto diverse però: baritenore è un astrazione, come tenore contraltino…indica una tipologia di scrittura e di voci. Io credo che dal ceppo tenorile (parlo dell’opera barocca), che è propriamente la voce che oggi si indica come “baritenorile” (basta guardare i ruoli) si siano sviluppate le due categorie di baritono e tenore (prima contraltino e poi pienamente romantico). Del resto l’evoluzione dell’amoroso va dal castrato al contralto al tenore contraltino al tenore. Mentre il tenore barocco si evolve in “baritenore” e poi baritono. Naturalmente con tutte le varianti possibili e immaginabili.

          • Due voci diverse nella stessa misura in cui lo erano Nozzari e David: il primo un cantante aulico da opera tragica, autentico contraltino per estensione, ma con un centro irrobustito ed un baricentro abbassato in ragione dell’età non più giovane; il secondo un contraltino più leggero, nato per ruoli di mezzo carattere, ma impiegato da Rossini anche nell’opera seria, come amoroso. Il contraltino non è un’astrazione, è un tipo di voce ben definito, più acuto di una terza circa rispetto al tenore classico, con estensione maggiore del tenore sia in alto (dove il contraltino può raggiungere note sopranili mediante la voce di testa), sia in basso (Nozzari scendeva anche al lab sotto il rigo), ma con lo svantaggio di un timbro tendenzialmente ambiguo e disomogeneo, e con la tendenza ad avere problemi di intonazione. Esempi di contraltini sono Lauri Volpi, Kraus, Pavarotti, Merritt, Blake. Tenori classici invece sono De Lucia, Schipa, Gigli, Bergonzi, Tucker. Il baritenore invece sì penso sia solo una sorta di astrazione. E’ una categoria vocale appartenente ad un periodo della storia della vocalità in cui le tessiture delle voci maschili erano limitate alla zona centrale. Penso che potessero rientrarvi sia baritoni chiari, sia tenori corti (non era certamente il caso di Nozzari, sulla vocalità del quale intendevo soffermarmi nel mio intervento). Era il tempo dei castrati, in cui non esisteva ancora il mito del tenore.

  2. Merritt si è sfasciato “naturalmente”, non c’è da attribuire nessun addebito alle ultime scelte di repertorio: il fatto è che se si concentrano in una decina d’anni, ruoli vocalmente massacranti, se ne esce con la voce rotta. Soprattutto quando non si sono mai sistemati certi problemi: precisione e intonazione (anche fraseggio e pronuncia erano piuttosto censurabili). I problemi dell’ultimo Merritt sono gli stessi del primo, solo che nel primo erano “mascherati” da ruoli che si mettevano in mostra per spettacolarità vocale…quando – anche biologicamente – gli acuti si sono accorciati e li saliscendi spericolati si sono ridotti, sono rimasti solo i guai: ossia l’intonazione periclitante. Puritani, Vespri etc…hanno semplicemente messo in evidenza questo problema, perché sono ruoli in cui non si può barare con l’uso (e abuso) dell’esibizionismo virtuosistico…occorre altro. E altro Merritt non poteva offrire. In realtà non si può pensare che un cantante canti per tutta la vita alla stessa maniera o frequenti lo stesso repertorio: arriva un momento in cui si cambia…certo, con alcuni ruoli si può andare avanti e sfondare la soglia del ridicolo (come chi a 60 anni suonati fa Violetta o Manon o Salome), ma altri impongono l’abbandono. Merritt ha abbandonato Rodrigo, Oreste, Otello quando ormai non ce la faceva più…poi ha affrontato con dubbi risultati Arrigo: ma la voce era già sfasciata, non è stata certo colpa di Verdi o di Muti.. Io credo che se avesse aggiustato fraseggio e intonazione avrebbe potuto cambiare repertorio senza grossi problemi.

  3. Duprez non è che sia così facile aggiustare fraseggio e intonazione, non basta volerlo. Credo che fossero imprese fuori dalla portata di un tenore – per altri versi ragguardevole – come Merritt. Ci sono limiti che sono anche personali e fisiologici. Per dirla banalmente: Merritt non aveva un orecchio supersonico.

  4. Ovvio che non era solo orecchio. Molti problemi di intonazione sono in realtà problemi di emissione. Va detto però che un buon orecchio dovrebbe essere una spia tempestiva del problema ed indicarti dove lavorare per risolvere il problema di emissione… Certo però che per passare dall’individuazione alla soluzione ce ne vuole…

  5. Buongiorno. Innanzitutto complimenti per l’intervento, appassionante soprattutto nella parte finale: questa partecipata retrospettiva sulla storia dell’interpretazione ha un che di “epico” ed è molto appassionante! Avrei un quesito da porti su Raffanti, che ultimamente sto ascoltando parecchio in Donna del Lago (Pesaro 1983) e Fra Diavolo (Martina Franca 1981). Nel tuo intervento e altrove (E. Giudici, lo confesso e mi batto il petto) leggo che si tratta di un cantante tecnicamente agguerrito, con un solidissimo controllo del fiato, etc. Lo accetto, diciamo che lo prendo come un atto di fede perché è un’informazione che proviene da chi è senz’altro più esperto di me. Però, quando io ascolto Raffanti per trovare riscontro degli elogi letti sul suo conto, c’è qualcosa che mi turba: non vorrei essere eretico, ma l’effetto che percepisco è quello di un canto un po’ di gola, sforzato, che mi urta quasi. Soprattutto nel caso della Donna del Lago, dove il confronto con Merritt è inevitabile, mi sembra che non ci sia storia: Merritt risulta molto più preciso nello sciorinare le agilità e a scolpirle, il suo canto mi sembra molto più levigato e stupefacente, ho quasi l’impressione di vedere le note che scorrono sul pentagramma. I suoni di Raffanti mi sembrano invece più approssimativi soprattutto in basso e più sgradevoli, sforzati. Con questo non voglio togliere niente al cantante e alla fama che di sicuro merita giustamente, ma vorrei chiederti cosa ne pensi, se c’è una ragione oggettiva alla base di queste mie impressioni. Grazie già da ora. Un saluto.

    • Beh, solidissimo controllo del fiato… insomma… era un cantante con un’ottima voce ed un buon imposto di base, ma rischiava spesso di steccare, gli acuti anche nella donna del lago non sono del tutto sicuri… Solidissimo controllo del fiato lo aveva Blake, mica Raffanti. Ah, un consiglio, smettila di leggere Giudici.

  6. raffanti era un super dotato il super dotato imbroglia perchè la qualità naturale del suono può passare per qualità derivata da controllo tecnico e non da generosa natura . Le stecche sugli acuti estremi erano credo in parte frutto di paura ed in parte di non completo controllo tecnico o meglio di una tecnica più naturale che non meditata e pensata. All’ ascoltare molto attento ed allenato non può sfuggire che sul sol acuto raffanti suonava aperto. Il sol acuto nota successiva al passaggio è in pratica un acuto ma per il super dotato può anche non essere emesso come tale e di qui i problemi. Non solo da qui! sia chiaro

    • D’accordo, grazie mille a entrambi, ora è un po’ più chiaro; io comunque continuerò ad ascoltare, “riflettere e confrontare” per cercare di capire meglio. Quanto a Giudici, a dire il vero lo leggo sempre meno; tuttavia se lo si legge in modo critico e non come se fosse il Vangelo, perché no? D’altronde ci sarà sicuramente anche chi dice in giro che non bisogna leggere il CdG… eheheh…

  7. è un ottimo consiglio quello di non leggere il corriere della grisi! Per ricorrere alla pericope neo testamentaria è pericoloso come andare alla piscina di siloe! sai la storia del cieco nato, che riacquista la vista! a parte gli scherzi mi permetti un atto da miles gloriosus. Una delle differenze con i mostri detrattori è che quelli della grisi non consigliano mai di non leggere qualcuno. Il riso fa buon sangue!

  8. Non amo polemizzare,ma questo botta e risposta mi sembra troppo autoreferenziale, torniamo a Raffanti:e’ evidente anche ad uno come me che, ad un ascolto comparato,Blake ha un controllo del fiato nettamente superiore a Dano,ma quando tanti anni or sono ascoltai quest’ultimo al Regio nell’elisir d’amore, le splendide mezze voci esibite presupponevano almeno un buon controllo del fiato (come mi insegnate) , negli anni seguenti, invece , e’ andato progressivamente peggiorando gia’ forse a partire dall’inizio anni ‘ 70, e questo sicuramente per i motivi che indicate. Quanto ai testi da leggere o meno,laicamente penso che si debba discernere : anche Celletti a volte e’ irritante, come certe pagine di Lauri-Volpi,come lo pseudo-testo di Stinchelli e cosi’ via…

    • non ami polemizzare, ma intanto l’hai fatto… Ovvio che questo è un sito sul quale si parla di musica, canto, etc… ma se ogni tanto ci scappa la battuta più o meno felice (o infelice) non ne farei un dramma. Certo, non deve diventare un’abitudine…

  9. avete ragione (per Lauri Volpi sono stato influenzato dagli aneddoti di mio padre che lo conobbe a Roma, e mi riferiva che era piuttosto antipatico , almeno con alcuni medici che frequentava, di cui uno, appunto, era mio padre)

  10. Caro Donzelli,non voglio annoiarvi con le vicende familiari, percio’ mi limito a cio’ che puo’ interessare gli amici del Corriere.Nella seconda meta’ degli anni ’30, a Roma, mio padre ed altri 2 colleghi(lavoravano al Forlanini),trascinati da uno di loro-di famiglia calabrese “nobile”-, Dott Florio, furono introdotti sporadicamente nel mondo della lirica,prestando anche i loro servigi quali medici. Ebbero cosi’ modo di apprezzare alcuni famosi cantanti dell’epoca, ed io ricordo soltanto cio’ che mi racconto’ riguardo ai tenori da loro ascoltati.Anzitutto , cosa ben nota, la voce di Schipa non era fonogenica,e, dal vivo, non sembrava affatto “piccola”,era poi molto cordiale tanto da improvvisare un piccolo concerto a Piazza dei Cinquecento all’aperto , con isuoi gioveni estimatori. Discorso diverso per Lauri Volpi ,che, come vi ho gia’ scritto, mio padre diceva stonasse spesso, umanamente poi, oltre ad essere molto colto, era troppo smaccatamente a favore del regime.Mi stupisce invece l’atteggiamento che i tre medici ebbero per Gigli,non vorrei dire cosa inesatta,ma non so dove e quando, furono allontanati perche’ buuarono il grande tenore per i troppi singulti .Infine, il loro preferito era Pertile,perche’, a loro dire,era il piu’ preparato tecnicamente (l’unico che conosceva la musica era il nobile), il tenore che piu’ faceva “muovere l’animo”, ed il miglior Radames che avessero mai sentito. Vi e’ poi un seguito alla storia, perche’, anni ’60, trasferito a Viterbo,mio padre penso’ bene di iscrivermi nella sezione del liceo classico ove insegnava il professore piu’ temuto , che pero’ si chiamava Attilio Valletti : fui rimandato 2 volte in greco, pero’ ne valse la pena, perche’, quando il fratello del professore veniva a Viterbo,un certo Cesare Valletti,( che in quel periodo lavorava al Maggio Musicale Fiorentino) venivamo invitati a casa sua per essere “iniziati” all’opera lirica……
    Scusate per la scarsa importanza di questi ricordi, e grazie per i tanti stimoli che fornite

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