Ci sarebbe da premettere un pensiero del tutto personale: a furia di rincorrere o percorrere la strada della liricizzazione del repertorio, a furia di schiarire, alleggerire, sfumare, addolcire a tutti i costi, si sono persi in molti repertori e nell’approccio allo stile di molti autori, certi connotati che rappresentavano i tratti più salienti e identificativi propri dell’interpretazione e della vocalità.
Per carità, tali esperimenti hanno portato dei contributi certamente incisivi se non epocali, riuscendo ad approfondire tematiche, che magari, erano state rese superficiali o affrontate in maniera scontata e prevedibile, dando così un nuovo costume e nuovi impulsi a ciò che sembrava ormai consolidato o paludato oppure riscoprendo attraverso una ricostruzione fedele e critica lo stile e la prassi di un’intera epoca o di un movimento che altri linguaggi avevano completamente travisato.
Eppure esiste la faccia opposta e deleteria di questa interessante medaglia: quella cioè che per inseguire la liricizzazione di cui sopra dimostra di non aver capito nulla del repertorio e dell’autore affrontato: penso allora, per fare degli esempi, al recente “Siegfried” del Met il cui protagonista (Jay Hunter Morris) solo dieci anni fa sarebbe stato impiegato giusto per interpretare il Paggio del “Parsifal”, il Pilota de “L’Olandese volante”, o al massimo, a voler essere estremi, Froh nel “Rheingold”; il cui Wotan (Bryn Terfel) che dicono “le anime pure” dei fori internazionali, possedere un fraseggio perturbante e intenso ha in realtà voce malferma, secchissima, stiracchiata e fraseggio desolante che forse sarebbe bastato per un Gunther di bassa periferia; la cui Brunnhilde (Deborah Voigt) è un preclaro imperdonabile errore di cast, che sensibilità maggiore avrebbe consigliato un onesto e dignitoso ritiro dalle scene già cinque-sei anni fa sostituita invece da una prolungata agonia vocale che mette i brividi; il cui Alberich (Erich Owens) brilla per la monotona rozzezza di una voce “spessa” e dalla cattiveria pedestre; la cui Erda (Patricia Bardon) ha voce che non basterebbe nemmeno per una Flosshilde di secondo cast; il cui direttore (Fabio Luisi) dirige come se si trattasse di “Bambi”.
Non molto diverso, in effetti, da quanto proposto in Scala in cui un sestetto di “sommi artisti rossiniani” (Florez-DiDonato-Barcellona-Osborn-Orfila-Abbado) sono stati salutati, non senza dividere pubblico e critica, come “il meglio esistente oggi”… pensiero che non avrebbe nulla di scandaloso a patto che si collocassero per onestà storica e intellettuale tali voci nell’alveo della loro giusta dimensione: ovvero nelle cornici di quelle splendide opere di mezzo-carattere tanto in voga nel ‘700 e nella prima metà dell’ ‘800.
Non è un insulto, né tantomeno una provocazione; ma è semplicemente un consiglio, una strada da percorrere più consona a voci che fingono di essere ciò che non sono, alla vana ricerca di uno stile, una vocalità, un accento, un fraseggio più aulici, più aristocratici, più “drammatici” che purtroppo timbri di questo tipo, destinati cioè ad essere dolci e brillanti in natura, non possiedono o semplicemente non governano con la dovuta naturalezza.
Una purissima delizia come “Le cantatrici villane” di Valentino Fioravanti accoglierebbe volentieri e con grande intelligenza parte del cast scaligero e, anche non avendo lo stesso richiamo che può avere un’opera rossiniana (ma è solo una questione di nome), farebbe tranquillamente brillare i suoi interpreti e darebbe al pubblico l’opportunità di conoscere qualcosa di accattivante e di sicuro divertimento.
Andiamo con ordine.
Ritenuto alla pari quanto a maestria musicale e ad originalità dei contenuti ai suoi contemporanei Cimarosa, ma soprattutto Rossini, Valentino Fioravanti, assieme alla sua produzione, è oggi quasi completamente sparito dai cartelloni italiani e internazionali, salvo apparire in qualche concerto sottoforma di aria, o in qualche rara ripresa festivaliera, o come saggio accademico di fine corso per giovani promesse del canto.
Singolare e interessante risulta anche la sua vita e la sua formazione: romano di nascita (11 settembre 1764) fu indirizzato dalla famiglia dapprima allo studio delle arti e della letteratura, e solo successivamente e seguendo le proprie inclinazioni, apprese lo stile della composizione, del contrappunto e del canto dai grandi rampolli della prestigiosa Scuola Romana, che vide tra le sue file maestri del calibro di Palestrina, passando per Rinaldini, Clementi, Carpani, Pisari, Zingarelli per giungere fino al padrino e Maestro del Fioravanti, il contralto della Cappella di S. Pietro Gregorio Toscanelli, ed il direttore della suddetta Giuseppe Jannacconi. Si perfezionò successivamente a Napoli dove frequentò privatamente i maestri di scuola partenopea.
Una commistione degli stili di due scuole storiche che non tardò a confluire nella composizione di un intermezzo, “Le avventure di Benoldino”, al suo ritorno a Roma, che gli fruttò, nel 1783-84 un buon successo ed una buona visibilità nel panorama culturale della capitale, ma non solo: fu subito richiamato a Napoli ove scatenò la sua vena comica nelle opere buffe, nei drammi giocosi, cioè quel genere comico che gli diede il maggior successo e diffusione europea, tra le quali spicca per freschezza e felicità compositiva il suo capolavoro, “Le cantatrici villane” appunto.
Il successo ottenuto dalle sue opere (tra le più fortunate: Camilla, La capricciosa pentita, I virtuosi ambulanti, la Trilogia Adelaide e Comingio, etc. si annovera anche uno sfortunato Adelson e Salvini su libretto di leone Tottola successivamente musicato da Bellini), sia d’argomento più leggero e malizioso, sia più serio, fecero il giro delle più importanti piazze italiane, tra cui Milano e Venezia, ed europee fino alla trionfale accoglienza che lo salutò a Lisbona, tanto da tributargli l’onore della gestione del Teatro San Carlos e la successiva commissione di nuove composizioni per i teatri parigini e londinesi.
Al ritorno in Italia, dopo nuovi trionfi a Roma, ma anche in Scala e Napoli, Fioravanti venne nominato maestro della Cappella Giulia in S. Pietro in Vaticano.
Da qui in poi la sua carriera teatrale si blocca, diviene più meditativa e rivolta verso lo studio e l’approfondimento della musica sacra e di cantate, che comporrà fino al 1837, anno della sua morte, provocando l’ammirazione di Cimarosa e Donizetti.
Valentino Fioravanti ebbe anche dopo la morte, un larghissimo consenso ed una vasta fortuna nella diffusione e rappresentazione dei suoi componimenti; basti pensare che brani delle sue oltre settanta opere furono riutilizzati da compositori minori come il Bianchi o di prestigio come Paisiello, oppure a quella sorta di rivalità-ammirazione che da sempre lo legò a Cimarosa il quale non nascondeva una certa preoccupazione nei riguardi della frizzante fantasia compositiva del Fioravanti e nell’originalità stilistica ed espressiva che lo distingueva nel suo genere.
Nonostante badasse poco all’evoluzione del linguaggio musicale europeo, il suo stile rimase pressoché invariato costituendo un limite evolutivo malgrado l’abilità contrappuntistica e teatrale, Fioravanti seppe sfruttare con raffinatezza alcune piccole innovazioni teatrali del tempo, come: una incisiva presenza dei dialoghi in dialetto nei recitativi secchi e accompagnati; l’inserimento del corno inglese nelle orchestre parigine; il piccante e comico utilizzo dell’onomatopea che colpì positivamente il pubblico londinese allorché i personaggi de “La capricciosa pentita” si trovarono ad imitare i versi degli animali da cortile con i risultati che possiamo immaginare.
Tuttavia ai nostri giorni il successo di Fioravanti è relegato ormai alle pagine di vecchi documenti e libri di musica, e “Le cantatrici villane” rappresentano probabilmente il titolo unico che ancora oggi permette un ricordo assai esaustivo del compositore.
Un’opera che per certi versi restituì il sorriso ad una città, Napoli appunto, che tra il 1798 ed il 1799 (le probabili date della prima: incerte infatti risultano le pochissime fonti a riguardo) stava subendo una serie di cambiamenti politici di portata rivoluzionaria: le lunghe e sanguinose guerre contro i francesi scesi a Roma e poi nel Regno delle due Sicilie; le lotte civili tra antifrancesi e filo francesi; la brevissima vita della Repubblica Napoletana ed il ritorno dei Borboni avevano condizionato la vita culturale, e mutato la fisionomia stessa della città partenopea.
Trionfale fu dunque l’accoglienza tributata a “Le cantatrici villane”, che in breve tempo godette di una rapidissima diffusione in Europa e non perché si trattasse della solita farsetta infarcita di servette viperine, padroni improbabili e cicisbei di porcellana; il contenuto stesso dell’opera, una scatenata parodia leggermente dolceamara sul teatro e le sue convenzioni di genere, fu salutato con ammirazione dal pubblico e dai contemporanei, i quali approvarono il passaggio, come nota il Della Corte, dalla banalità amorosa ormai stantia, verso una vicenda umoristica, depurata dalla prevaricante componente sensuale, e tutta giocata su una satira pungente e di immediata comprensione. Certo Fioravanti è fermamente ancorato al garbato stile settecentesco di tipi comici già collaudati e già familiari al pubblico; eppure la musica del compositore, unita al libretto immerso nelle inflessioni dialettali napoletane e in un linguaggio agilissimo, ma non volgare, ci aiuta a capire quanto le lezioni di Cimarosa e Paer erano prossime ad essere riscritte dal terremoto rossiniano (le farse e le opere buffe) e donizettiano (una per tutte “Convenienze e inconvenienze teatrali”), quantola levigatezza formale dell’ opéra larmoyante e comique francesi, che affiorano nella struttura della partitura stessa, giovino allo stile elastico e giocoso di Fioravanti, il quale ne terrà conto anche nelle opere successive (la trilogia di Comingio ad esempio).
Difficile poi dare una forma definitiva a “Le cantatrici villane” tanti sono stati i rimaneggiamenti sia dell’autore (recitativi secchi o accompagnati ad esempio secondo l’usanza del teatro che ospitava la rappresentazione), sia di altri compositori o cantanti (arie aggiunte, arie sostituite, arie composte ex-novo, aggiunta o tagli di interi personaggi, mutamenti o manomissioni nel libretto).
Sia il Maestro Rossi, sia il Maestro Tigani, sia in anni recenti Roberto de Simone hanno cercato di dare una fisionomia all’opera; nel caso di Rossi, lungi per sua stessa ammissione dall’essere un filologo, attraverso una versione estremamente godibile (che vi proponiamo), che fa a meno delle aggiunte successive, ma sfoltisce anche diversi recitativi e taglia di netto intere scene (peccato grave la mancanza della scena della lezione), ma potendo contare su un cast in cui brillano la purezza di Alda Noni, la calda comicità di Sesto Bruscantini e Franco Calabrese e la dolcezza di Agostino Lazzari; più scientifica la ricostruzione di Tigani che ripristina le arie ed i recitativi accompagnati col cembalo, ma dirige in maniera calligrafica disponendo anche di un cast parecchio mediocre; de Simone invece revisiona l’opera aggiungendo brani di sua composizione.
Il libretto a cura di Giovanni Palomba (utilizzato come base quasi quarant’anni dopo da Calisto Bassi per la stesura dei versi destinati al “Don Bucefalo” di Antonio Cagnoni), si articola in due atti e vuole come teatro della farsa il paese di Casoria nella cui piazza il Maestro di musica Don Bucefalo (basso buffo) attirato dal malizioso canto di tre giovani ragazze si propone come loro insegnante aiutato in questo al clavicembalo dal suo allievo Don Marco (basso buffo).
Una di esse, Rosa (soprano), attrae in maniera più che evidente sia Bucefalo che Marco che la eleggono loro pupilla, scatenando le ire delle compagne (Agata e Giannetta, soprani), con i conseguenti bisticci tra “primedonne”.
Quello che tutti loro ignorano è che il defunto marito di Rosa, il militare Carlino (tenore), in realtà è più di quanto essi credono e smanioso di riprendersi il posto che gli spetta accanto alla tanto bramata moglie; ovviamente l’uomo ritorna a Casoria e ricorre ad un travestimento, da sergente spagnolo, per vegliare, non riconosciuto ovviamente, sulla fedeltà della bella Rosa, la cui condotta, non irreprensibile, spinge il geloso Carlino a chiedere ospitalità in casa della “vedova” onde architettare nuovi stratagemmi.
Tra una prova al cembalo, l’ennesima baruffa tra donne e vari equivoci, si decide di mettere in scena il celebre “Ezio” di Metastasio; ma accompagnato da alcuni concittadini irrompe il “prode” Carlino in preda a folle gelosia facendosi finalmente riconoscere dalla moglie.
Sarà proprio grazie alle cure di Don Bucefalo e Don Marco se sarà possibile il lieto fine con la riconciliazione della coppia e l’allontanamento degli altri personaggi.
Dopo una breve sinfonia sui toni dell’adagio e dell’allegro, gli archi disegnano un tema che si ripete variato e rincorso dai flauti ed introduce il clima solare che si respira nel primo atto attraverso il canto delle tre donne “Che bel gusto è in sul mattino”, il quale, su accordi minori, diventa una cullante barcarola, dal malioso gusto francese.
Su di essa giunge il personaggio di Don Bucefalo che esclamando “Oh che trilli che mordenti!” trasforma la scena in agile terzetto dal retrogusto piccante, mentre gli archi riprendono gli accordi iniziali della sinfonia e dopo .un recitativo, ecco un soave cantabile di presentazione delle ragazze, con il conseguente terzetto tra Rosa, Agata e Bucefalo, sostenuto dai fiati, dai non complicati vocalizzi ascendenti all’unisono delle due fanciulle e da Don Bucefalo stesso che ne fa la parodia variandone le riprese.
Se la presentazione di Don Marco, con la sua podagra che lo tormenta passa un po’ in sordina “O sospirate mura” dedicato all’ingresso del tenore potrebbe tranquillamente essere stata scritta da Rossini: l’inizio soavissimo, si adagia su un cantabile morbido che si rinforza con l’accento verso il passaggio esaltando le doti di un tenore di grazia dal bel corpo, dal legato impeccabile e dalla vocalizzazione rapida ed elastica. Alla scena assistono Bucefalo e Marco che si intromettono nell’aria con brevi recitativi da dire sottovoce.
La scena della lezione è un capolavoro di teatro musicale: mentre Bucefalo insegna a Rosa l’emissione delle note e l’aria “Tra gli scogli e la procella”, con ovvia gag sul gioco di parole “procella-porcella” (e visto che a pronunciarla è una “vedova piuttosto allegra”…) assistono all’azione, ben nascosti, Marco e Carlino da un lato e Agata e Giannetta dall’altra: i primi resi furiosi della gelosia, le altre rose dall’invidia. La scena è costruita dapprima come un normale recitativo, per poi trasformarsi in un crescendo parossistico in un’aria dalla geniale costruzione, in cui il basso buffo imita il cembalo (dizione, pronuncia ed emissione devono essere impeccabili) ed il soprano deve alternare picchettati, volatine, vocalizzazioni ad alta quota, sul passaggio ed al centro tradendo la sua natura di lirico di coloratura; la seconda parte dell’aria, più centrale, contiene variazioni più parche per dar spazio alle voci sovrapposte dei quattro personaggi nascosti; la terza parte dell’aria muta drasticamente in un quintetto con “basso buffo continuo” comicamente bloccato nella perpetua imitazione del cembalo e con l’aggiunta di numerosi mordenti per il soprano e le altre voci che si rincorrono con una continuità geometrica perfettamente organizzata.
Al termine dell’aria ecco irrompere un divertente sillabato che contrasta con il tono sommesso dell’orchestra sostenuta da archi e fiati e alternata ai vocalizzi di Rosa e di Don Bucefalo.
Interessante è la risoluzione del duetto “Chi m’ha tolto poveretta” tra allieva e maestro in cui entrambi esprimono i loro propositi come sovrapensiero, su un tono sospeso tra il patetico ed il giocoso, scena interrotta dall’arrivo di Don Marco che si sostituisce a Bucefalo nell’agile recitativo tra i due moltiplicando l’effetto comico con l’intervento in sordina del maestro e successivamente di Carlino, così il sillabato su una nota di Rosa diventa il perno musicale della scena.
L’inventiva di Fioravanti trasforma ancora una volta l’azione: l’orchestra imita il canto dell’usignolo, del canarino, evocato da Agata e Giannetta, mentre Rosa fa loro il verso e la parodia trillando sulle loro voci fino quasi a coprirle.
Il finale d’atto si ricollega idealmente a quei nodi avviluppati rossiniani in cui la confusione regna sovrana nella testa di tutti i personaggi riuniti in proscenio che si esprimono con un canto frammentario, balbettato, staccato ovviamente all’unisono, in cui la frase del singolo diventa il perno per una variazione corale.
Il secondo atto, dopo un lungo recitativo, si apre con il terzetto delle tre primedonne “Morì la villanella”, esempio di scontro canoro trattenuto sia nella rabbia sia nel riso, in cui Rosa impegnata in fioriture semplici e aguzze si oppone alle voci all’unisono di Giannetta e Agata; se il “duello” tra Carlino e Bucefalo risulta più convenzionale, ecco arrivare il gustosissimo “Tai, tai, tarà, larà” in cui Bucefalo, nelle vesti di “Maestro di cappella”, personaggio comico più volte apparso nella produzione dei compositori dell’epoca, è protagonista di un monologo buffo a base di canto, sillabato, “parlato” e… direzione d’orchestra in cui gli strumenti musicali ironizzano su loro stessi facendo da contraltare vocale alle “critiche” del cantante.
Immancabili durante le prove in casa di Rosa, le bizze tra i due maestri/impresari e la primadonna completamente ignorante della sua parte: ed è qui che è stata inserita l’aria tripartita “D’un padre traditore” in cui Fioravanti fa il verso al dramma serio settecentesco infarcendo l’ultima strofa dei mordenti, dei trilli e di quelle fioriture che Rosa tanto vanta di possedere, accontentando così le esigenze vocali della sua “primadonna”.
Il finale è suddiviso in due parti intervallate da uno svelto recitativo: l’irruzione di Carlino risolto con un concertato dal ritmo indiavolato e seguito dalla scena di riconoscimento dei due sposi improntato sullo staccato sia orchestrale che vocale e adagiato su un ritmo quasi pizzicato, sul quale cresce un nuovo concertato risolto vocalmente sulla ripetizione di una nota (è l’orchestra che esegue le variazioni) conducendo la vicenda a concludersi lietamente.
Gli ascolti
Valentino Fioravanti
La cantatrici villane
Rosa – Alda Noni
Agata – Ester Orell
Giannetta – Fernanda Cadoni
Carlino – Agostino Lazzari
Don Bucefalo – Sesto Bruscantini
Don Marco – Franco Calabrese
direttore – Mario Rossi
Bel post, Marianne. Mi chiedo anch’ io perchè certi cantanti da te citati non si dedichino a questo repertorio. Per dirne una, la Scala non poteva proporre, al posto di un NON Giovanni, un bel Matrimonio Segreto?
Ah ma forse certi soggetti non stuzzicherebbero la fantasia delle divinità registiche…
Questi venditori di fumo non ricordano per esempio che l’ Arlecchino di Goldoni nell’ edizione di Strhler si rappresenta da più di cinquant’ anni…
Dico un’altro nome, forse meno noto… Filippo Crivelli
caro mozart
ma tanto per andare al matrimonio segreto un tempo paolino lo cantavano bonci, schipa e valletti e la zia fidalma malibran, alboni sino alla stignani adesso che ci servirebbero…….io lo immagino e per dirla con arsace un raccapriccio orrendo
Opera che non conoscevo e che trovo godibilissima.
Farebbe oggi grandissimo furore: sapete quante primedonne odierne sono contadine e vorrebbero diventare virtuose del belcanto? XD
Propongo un cast, previo studio e prove un anno prima della rappresentazione soprattutto per la signora Netrebko e signor Villazon :
* Rosa – Anna Netrebko
* Agata – Joyce di Donato
* Giannetta – Elīna Garanča
* Don Bucefalo – Paolo Pecchioli / Alfonso Antoniozzi
* Don Marco – Giorgio Codauro / Marcelo Otegui
* Carlino – Juan Diego Florez / Antonino Siragusa
* Giansimone – Rolando Villazon
Direttore: Antonio Pappano
Pappy è questo quello che volevo dire!
La Netrebko dovrebbe però prima imparare la pronuncia, le agilità e parecchia maschera e sostegno, perchè da quello che ho sentito e visto in Scala lei più che cantatrice resta “villana”!
Ma se questi cantanti riscoprissero QUESTE opere fatte su misura per voci di mezzocarattere vivrebbero di rendita, farebbero ascoltare delle composizioni di stupenda fattura e finalmente usciremmo dal circolo vizioso “gran titolo – grandi nomi – impostura”, invece si insegue il fantasma del nulla condito con tragiche e ampollose giustificazioni.
Tra l’altro dopo l’ascolto/vista dal vivo del DG scaligero “cantato” da voci microbiche, tutte appoggiate sul nulla che facevo fatica a sentire (Anna in pratica aveva volume solo nelle due arie, arrancando nel resto tra mugugni e accenni, Terfel e Filianoti parlano e emettono suoni onomatopeici, la Frittoli è sfibrata, Mattei “fa” solo il primo atto, gli altri lasemo stare che ho il disgusto) sono sempre più fermamente convinta che “divi del nulla” come loro farebbero bene ad appropriarsi di un repertorio che non li sfracelli già dopo metà del primo atto come appunto è accaduto dando vita a qualcosa prossimo al mozartricidio!
Marianne
Non posso che concordare, zia mary
Faccio presente che questo repertorio esige chiare specializzazioni: Pappano sta a Fioravanti come Jacobs sta a Giordano… per non parlare del cast! A parte i tenori, come si può pensare a delle interpreti femminili che non hanno nulla o poco a che fare con la nostra lingua, a parte lo stile, e con dei baritoni o bassi, eccetto Caoduro, che sono in “decomposizione”? Ecco perché il ‘700 è poco praticato, perché mancano le competenze: basta parlare con qualcuno che ha visto e sentito il Cimarosa straziato a Napoli di recente…
Cara Lucilla il tuo ragionamento non fa una piega, eppure anche con i recenti Rossini e Mozart scaligeri quegli stessi cantanti hanno dimostrato di non avere le competenze neccessarie e minime per gestire lo stile di questi due compositori e con loro siamo nel ‘700 e nell’ ‘800.
Voci del genere hanno bisogno di essere “addestrate” con cura allo stile e poi, ma solo poi, potrebbero offrire una degna lettura delle farse come quelle di Cimarosa, Piccinni e Fioravanti.
Quello che hanno fatto mangiare al pubblico a sazietà non era né Rossini, né Mozart e non era nemmeno Musical: era una parodia.
Si può essere cantanti di mezzo carattere, ma si deve anche padroneggiare lo stile prima di tutto e fino ad allora stanne certa pioveranno ancora e ancora spettacoli-cialtroni come quelli a cui abbiamo assistito e pubblicizzati come “questo è il meglio, questo è il modo giusto”.
Insomma ennesima ignorantissima profanazione.
Marianne
Concordo pienamente con Lucilla…l’opera settecentesca è molto più difficile da eseguire rispetto a quanto comunemente si creda… Cioè, non basta essere “inadatti” a Verdi o a Rossini per essere “automaticamente” adeguati a Cimarosa, Piccinni, Paisiello, Gluck, Haydn o Mozart… L’ottica “rossinicentrica” (che io personalmente rifiuto, rigetto e aborro) o “belcantocentrica”, porta ad aberrazioni quali il ritenere tutto ciò che esula da Rossini e da certo melodramma come un minus…per cui i cantanti non in grado di eseguirlo vengono ritenuti adatti ad eseguire quelle che a torto vengono considerate “operine”… Niente di più falso! L’opera del ‘700 richiede specifiche competenze musicali e tecniche assai complesse (molto più complesse di quelle richieste per il melodramma o Rossini): non da ultima la perfetta pronuncia e la padronanza dell’espressione. Pappano è un ottimo direttore, ma il suo repertorio d’elezione è il grande sinfonismo europeo, Puccini e pure Rossini (nelle poche prove che ha offerto).
Le cantatrici villane: titolo che ben si addice a molte star attuali…………