Riflettere e confrontare, terza puntata: Elena, “non donna ma silvestre Dea”.

Il ruolo di Elena scritto da Rossini per Isabella Colbran è il penultimo tra quelli napoletani, dopo Elisabetta, Desdemona, Armida, Elcia, Zoraide, Ermione e prima di Anna Erisso e Zelmira. Contrariamente ai precedenti non è una regina dell’età antica o moderna, né una figura tragica che si muove entro uno scenario classico o letterario, e nemmeno una maga della mitologia cristiana tassiana, ma una semplice ragazza figlia di un capoclan delle Highlands scozzesi. La vicenda dell’opera è di genere serio, ma le tinte non sono forti come in precedenza ed il finale lieto stempera la tensione drammatica tra i protagonisti maschili che percorre il libretto di Tottola. Rossini è il compositore di punta di una città aperta al rinnovamento musicale, e sperimenta il genere tragico e quello buffo ben oltre la duale tradizione partenopea, nei nuovi ambiti del serio e semiserio. Eppure La Donna del Lago resta un‘opera sfuggente, perché tale è la psicologia del personaggio protagonista, tanto da sembrare un’anomalia in un gruppo di figure piuttosto statuarie, classicheggianti, talora anche auliche.
La componente lirica è certamente prevalente nelle moderne riprese del ruolo affidato a soprani lirici di agilità protagonisti della belcanto renaissance, mentre nelle odierne riprese si tende ad affidare la parte ai moderni mezzi acuti, data la scrittura molto centrale della parte, nella convinzione che la voce della Colbran, come abbiamo visto recentemente, corrispondesse a quella degli odierni mezzosoprani. Questioni di natura interpretativa si intrecciano ad altre attinenti la sfera del canto; fatto sta che Elena ha trovato eccellenti interpreti in passato, come si dirà, ma qualcosa di questo ruolo continua a sfuggire.
In primo luogo, mi pare vi sia la questione del “carattere” del personaggio, apparentemente in contraddizione con l’immagine storicizzata della Colbran quale cantante tragica, di accento classico. Il soggetto si presta, secondo la nostra sensibilità odierna, ad una lettura della figura di Elena  condizionata dal romanticismo, mentre si tratta di un soggetto certamente anticipatore in alcuni suoi elementi chiave, ma in realtà pienamente tardo settecentesco. Durante il duetto del primo atto Uberto si rivolge ad Elena chiamandola “silvestre dea”, dea silvana, regina dei boschi. Elena, affascinante e misteriosa donna che traghetta il re attraverso il lago, è una creatura del paesaggio, appartiene alla natura selvaggia che non è meno settecentesca dell’interesse per la primitiva poesia ossianica ed i miti celtici che fanno capolino qua e là nel libretto. Il poemetto di Walter Scott, The lady of the lake, da cui l’opera è tratta, riecheggia il neoplatonismo di Shaftsbury, in cui la natura allo stato “naturale”, ossia selvaggio, è parte dell’ordine divino, che l’uomo può intuitivamente cogliere come bellezza. Elena è una derivazione dell’estetica settecentesca inglese del “sublime”, in cui l’uomo costituisce parte integrante della natura e dall’empirismo inglese deriva pure il dualismo tra il bello classicista, fatto di proporzioni, geometria e regole come nell’architettura neopalladiana e il bello naturale, “spontaneo”, fatto di irregolarità, di mistero, di paure, di forme ondulate e spaventose, ossia “sublimi”. In questo dualismo si colloca pure l’elemento primitivista, quello ossianico del mito arcaico, presente nel soggetto di Scott e che rappresenta l’elemento suggestivo, esotico…nel tempo remoto anziché nello spazio. Questa mi pare sia l’estetica incarnata dal personaggio, “silvestre dea” di Walter Scott,  portata in scena da Tottola e Rossini nella Napoli storicista di G. Vico, che tanta fortuna ebbe nell’ispirare il revival neogotico in Italia come pure una nuova visione del paesaggio romantico. Elena, dunque, è un personaggio di importazione delle teorie del “bello” entro il neoclassicismo italiano a cavallo tra Sette ed Ottocento, una sintesi di classicismo arcaico ed elementi protoromantici: è chiaro, dunque, come non abbia nulla in comune con le romantiche Lucia di Lammermoor, o Elvira dei Puritani, rimanendo culturalmente affine a creature quali Ermione, Desdemona etc.
Sul piano vocale, peraltro, Elena manca della vis tragica di altre primedonne rossiniane pensate per la Colbran, ma dotata di tutte le altre connotazioni specifiche della sua vocalità, declinante o meno che fosse la cantante. Tra il 1811 ed il 1814 il titolo maggiormente frequentato al San Carlo da quella che era, di fatto, la primadonna assoluta del Teatro Reale, era la Vestale: 24 recite nella stagione 1811-12, anno del suo debutto, 8 nella stagione 1813-‘14, 14 nella ’14-‘15, seguita dalla celebre Medea in Corinto di Simone Mayr, 33 recite nella ’13-‘14, 36 nella ’14-‘15, 5 nella ’15-‘16, 16 nella ’17-‘18, seguita dalla Gabriella di Vergy di Carafa, 15 recite nella stagione 1817- ’18, 10 in quella successiva, 9 nella 1820-21, più tutta una serie di opere oggi sconosciute di Mayr, Farinelli, Fioravanti, Garcia, Morlacchi, Saccenti, Paer etc.. etc. Solo la Medea di Mayr potè vantare una quantità di rappresentazioni pari ai titoli di Rossini.
Stando a quello che racconta Stendhal la Colbran aveva iniziato sin dal 1815 “ ad avere spesso la voce stanca; è quel che si dice volgarmente tra i cantanti di secondo ordine cantare stonato”. Dal 1816 al ‘22 sarebbe stata a suo dire “ esecrabile”, tuttavia trionfatrice “ per dispotismo”, dato che a Napoli non la si poteva criticare. Depurando dagli eccessi fantastici e dalle esagerazioni il divertente racconto del romanziere francese, è noto che la cantante negli ultimi anni napoletani fosse in declino e manifestasse problemi di intonazione. Più  attendibile il musicista tedesco Von Miltiz, che, presente alla prima della Donna del Lago, affermò che la diva stonava con frequenza.
Detto questo non credo che si possa parlare di un mezzosoprano come modernamente siamo soliti intendere, ma, come rivela il ruolo di Giulia tanto frequentemente praticato, un soprano centrale che andava perdendo via via le proprie prerogative in acuto. Dopo i sopracuti se n’era andato il do ed il si nat era una nota ormai solo da toccare: più in generale lo slancio nel registro superiore, come pure il fraseggio nella zona del passaggio alto dei soprani si erano fatti difficili. L’ascolto della voce sontuosa di Montserrat Caballè, che non è mai stata estesa nei gravi come un drammatico alla Callas, tanto per intenderci, ci dimostra con chiarezza come un soprano dalla voce mediamente importante possa affrontare la scrittura di Elena nella zona inferiore del pentagramma sino al re sotto il rigo, zona dove la parte di Elena insiste con frequenza, in particolare nel primo atto. E Monserrat Caballè non è mai stata né specialmente perita nell’ottava inferiore, come invece erano voci quali la Callas, appunto, la Cerquetti, una Russ, una Lehmann, oppure quei nostri moderni mezzosoprani estesi come la Stignani o la Oneghin. Un appassionato di dischi antichi non avrebbe difficoltà ad affermare che più si và all’indietro nel tempo e più i soprani rivelano altra e diversa sonorità e saldezza nella zona grave della voce, quasi un’impostazione diversa da quelle della seconda metà del novecento: basti pensare al confronto tra il registro grave di una Sutherland e quello di una Siems, tanto per esemplificare, fatto documentabile anche nei soprani leggeri, per non dire nei mezzosoprani.
Che la bella Colbran, originariamente estesissima in alto, addestrata al canto delle grandi virtuose barocche e dei castrati, nel declino avesse spostato il baricentro della propria voce più in basso non stupirebbe né costituirebbe un fatto specialmente rilevante, ma non credo che di questo avremo mai una dimostrazione possibile.
L’estensione della parte và da labem2 al sinat 4, mentre le varianti successive del rondò finale, evidentemente pensate per esecutrici più sopranili, tendono a fare salire la scrittura, toccando anche il do5. La parte di fatto oscilla tra la zona do4-re4 e quella fa3-la3, con salite alla zona acuta, le note più alte dal labem4 al sinat4 toccate per discendere immediatamente con scale o altre figurazioni e, in zona grave, con numerose discese sotto il rigo, a volte anche con note tenute, nel terzetto addirittura accentate, oppure come partenza per volate ascendenti ed altre fioriture. Nel monumentale rondò finale, esibizione meravigliosa dello splendore vocale della primadonna ( anche se stonata… ) Rossini impiega la voce in tutta la sua estensione mediante un apparato di fioriture ascendenti e discendenti senza pari in tutta l’opera, e la scena è di prammatica, come già nei titoli precedenti, perché ad Isabella spettava una grandiosa scena finale. Elena canta come un soprano centrale proprio nei due momenti solistici, la cavatina“Oh mattutini albori”, andantino dal clima elegiaco, connotato da passi di fioritura minuta, trilli, terzine, scale, collocato di fatto nella zona re4-do4 – sol3-re3, funzionale all’introduzione del personaggio e della diva, senza eccessivi impegni vocali, e nel rondò finale, il Maestoso “Tanti affetti” che tutti ben conoscete, un’antologia di scale ascendenti, discendenti e cromatiche di ogni genere e qualità, salti di sedicesima inclusi, trilli, quartine ed altre fioriture minute, sull’intera estensione della cantante, sopra e sotto il pentagramma, un vero e prorpio monumento del canto di forza della priamdonna rossiniana.
Interessante è la scrittura di Elena in presenza di Giacomo V, sia nel duetto dell’atto I che nel terzetto della sfida all’atto II. Come in altre occasioni il soprano canta alla terza con il tenore, e la sua scrittura è centro grave: il recitativo iniziale insiste sulla zona labem3-si3, quindi nella ripresa del tema dell’andantino della cavatina si rialza come in precedenza “Scendi nel picciol legno”, per poi tornare centro grave nelle frasi spianate “Sei nella Scozia e ancora…”, dal sinat3 al re sotto il rigo.La prima parte del duetto termina con la tessitura che si alza di nuovo, fiorettature, trilli, terzine e quartine, in moto prevalentemente discendente dal sol4 al re3 sotto il rigo e la seconda parte del duetto non decampa da questo schema. Il recitativo è analogamente basso, perché le frasi tendono a partire e a chiudersi in zona mi3-la3, alzandosi talora sino al mi4, mentre Giacomo V canta sopra ad Elena. Nel Maestoso attaccato da Giacomo,“ Sei già sposa? ”, la scrittura fiorita di Elena “Le mie barbare vicende” è ricca di fiorettature, trilli, quartine etc. continua ad essere un saliscendi lungo il pentagramma; l’andante consta invece di frasi più gravi, muovendo dal sol3-la3 sale al do4-fa4 “Quai tormenti, e come in seno..”, per inabissarsi in “Da me fugge qual baleno..” dal sibem3 sino al sibem2. Si tratta però di una discesa momentanea, dato che poi nell’allegro che chiude la scena “Cielo in quall’estasi”, all’unisono, la melodia risale in zona do4-sol4, per riaccomodarsi con fioriture discendenti tra fa4 e mi3 – fa4-fa3. Il carattere del brano però è meramente lirico, tale da non impegnare la protagonista sul piano dell’accento e della vis drammatica, come invece accade nella grandiosa scena della sfida dell’atto II, dapprima un duetto con Giacomo, che si evolve in terzetto, con lo scontro frontale tra i due pretendenti, quindi con l’inserimento del coro. Il carattere della scena è totalmente diverso, dapprima lirico e teso per i toni della conversazione tra i due, quindi più acceso ed imperioso nell’esortazione a Giacomo dell’allegro introduttivo“Alla ragion deh riedi”, di scrittura fiorita, oscillante dal do3 al sinat4 con scale, sequenze di quartine etc.. da eseguire di forza; segue un momento di ripiegamento, “Nume se a miei sospiri”, per poi ripartire con l’allegro che introduce la sfida tra i tenori, dove arrivano le famose successioni di quartine accentate con cui Elena sola si muove entro tutto il pentagramma, per poi spostarsi in zona centro grave, sino a toccare il ladiesis2 sotto il rigo, a far da pedale ai due uomini. La seconda sezione del terzetto ha un carattere agitato, se non tragico nel passo “Io son la misera che morte attende”, che attacca in zona la3-fadiesis3 ma canta spianato dovendo smorzare su mibem4-re4-do4, poi ripetendo le frasi accentandole con forza e quindi andando anche sino al labem sopra il rigo, mentre, dopo l’ingresso di Giacomo V, “Se i giorni miei troncar vi piace..”, la tessitura si abbassa di nuovo su frasi ancora da accentare, ma in zona labem3-mibem3, per poi risalire ancora in alternanza con il tenore come nella sezione precedente. La drammaticità della situazione, il contrasto con i due uomini, l’intensità orchestrale fanno di questa scena il momento più pesante della parte, dove sia i soprani lirici di coloratura che i moderni mezzi stentano a farsi udire in zona grave, alcune di loro faticando pure in alto, come già la stanca June Anderson alla Scala. La scena è potentissima sul piano teatrale e mette alla corde sia i soprani che non sanno risolvere il passaggio inferiore, come pure i mezzosoprani dal registro grave disordinato, come la Di Donato, assai meno udibile della precedente interprete scaligera.
Non credo sia necessario ricordare la scrittura del monumentale concertato I, le grandi forcelle previste sul sol3 nelle frasi infarcite di quartine discendenti di “Di opposti affetti miei” seguite dalla chiusa della scena “Io ti perdei o calma del mio cuor “con le salite dal sol3 al sol4 e le messe di voce al FF, oppure le frasi da soprano o da mezzo acuto davvero molto saldo “Oh quai sanguigne faci”che battono sul sol4-labem4-mibem4, per individuare la natura vocale della Colbran – Elena. Se questo ruolo era davvero scritto ad personam la cantante doveva avere una voce certamente corposa ed estesa nei gravi, come i soprani di cui si è detto all’inizio. Una voce che noi non abbiamo mai sentito applicata a questo ruolo, vuoi perché non abbastanza stilizzate e perite nel belcanto come la Gulin, vuoi perché latitanti nella coloratura di forza e nell’accento aulico come la Caballè o la stessa Ricciarelli, vuoi perché in difficoltà nel canto in zona grave come la Anderson (che fu solo una volta Elena, in condizioni vocali non certo ottimali), vuoi perché voci limitate sul piano timbrico e dell’accento tragico come la precisissima Cuberli, per forza di cose quella con il canto più perfetto tecnicamente, ma condizionato dalla propria natura.
Cero, il ruolo fu da subito appannaggio di voci sopranili, alcune di soprano drammatico, quale dovette essere la Meric Lalande, prima Lucrezia Borgia con Donizetti, Imogene e Straniera di Bellini..etc A Napoli le cronologie attestano dopo la Colbran, la Ferron nel 1823, Adelaide Tosi nel ’25 e nel ‘27, la Meric Lalande appunto nel ‘26, la Boccabadati nel ’29 e nel ’31, nel ’34 la Tacchinardi Persiani ( prima Lucia di Lammermoor ), mentre alla Scala di Milano alla Loreto Garcia nel ’24 e ’25 seguì la Rubini Comelli nel ’27 e la Schoberlechner nel 1838. Al Des Italiéns di Parigi, capitale europea della musica, alla Mombelli nel 1824 seguì la Sontag nelle produzioni del 1826 ( in alternanza con V. Blasis), ’27 e ’28, quindi la Grisi nel 1832, e la Frezzolini nell’ultima ripresa del 1854. Un parco voci assai simile a quello che ha modernamente occupato il ruolo durante la Rossini renaissance.
Che i moderni soprani lirici di coloratura non siano ideali per dare pregnanza esatta d’accento al canto di Elena lo dimostrano i due rondò sperimentali, eseguiti il primo da Marilyn Horne, il secondo da Martine Dupuy, entrambe in concerto, quest’ultima davvero sorprendente negli esiti, perché pare essere la migliore esecutrice per precisione, coloratura di forza, accento. E credo che costituisca  da un lato la miglior dimostrazione che un soprano centrale, magari dotata di un mezzo importante educato al belcanto, come fu certamente educata la Colbran, costituisca la voce ideale per il ruolo, e che se si deve trattare di una voce di mezzosoprano acuto come modernamente intendiamo, debba essere una cantante di altra e diversa capacità tecnica rispetto a quelle che oggi si è soliti indicare. A mio modo di vedere le voci attuali di mezzo, come la Antonacci, la Ganassi e la Di Donato, quest’ultima di certo la migliore del terzetto, sono state le peggiori esecutrici del ruolo, e non per ragioni legate alla loro estensione, ma per quetioni squisitamente tecniche. Le loro prove sono incomparabili con quelle di un’imperfetta Anderson che alla Scala che, non al top delle proprie possibilità, mostrò cali di intonazioni, note “tirate da sotto “ e forzate in quantità, ma pur sempre capace di imporsi nella sala per la sonorità del mezzo, la sua qualità timbrica comunque eccellente, il virtuosismo di cui era capace anche nelle serate con la voce “giù”. O con quella di una Cuberli, bravissima nella coloratura di forza e, soprattutto, nella gestione del canto sul passaggio inferiore, dove mai la voce si ingolfa o manca di sonorità: il rondò è un grande saggiodi stile, mentre nel duettare con Giacomo riesce sempre ad avere varietà di accento, recitativi inclusi, pur nel quadro di un personaggio lirico e poco aulico. Meglio delle cantante di oggi seppe fare anche mezzosoprano per nulla perfetto tecnicamente come F.von Stade, abituè del canto aperto in zona centro grave, ma comunque interprete e vocalista assai più completa, anche in virtù della grande sonorità della voce nella zona medio alta. Che anche i moderni belcantisti non abbiano generalmente più la voce sul fiato, salvo alcune rare eccezioni, è noto a chi è avvezzo all’ascolto del passato. Al di là dei problemi di dizione, la voce acuta e talora falsettante della Di Donato, con le agilità “bartolesche” ( il terzetto è perfettamente esemplificativo in questo), la dizione incomprensibile ( e ben poco classicheggiante ) è solo in parte compensata dalla sua natura vocale generosa, mentre una Ganassi manca di proiezione nella zona centrale, è gutturale nei gravi, anche lei con le agilità falsettanti ed imprecise, gli acuti ghermiti. La Antonacci non se la cava affatto meglio, per via dell’emissione spesso vetrosa ed aspra, ed annaspa nella parte afflitta da vistosi cali di intonazione. Le loro Elene per forza di cose mancano di varietà di accento, di una minimale aulicità, insomma della necessaria allure nobile, oltre che della prescritta perfezione esecutiva, che invece ci sanno con naturalezza fornire le Cuberli o le Caballè. Quest’ultima, che pure approssima, more solito, nel canto di agilità, alleggerendo e procedendo di grazia e non di forza come dovrebbe ( si senta per tutti il terzetto e soprattutto il rondò finale, dove le frasi fiorite cominciano sempre nel migliore dei modi per poi perdere in precisione ed incisività con l’andare delle battute..), sanno dare al canto una linea assai più seducente e varia, la prima per studio analitico e progetto razionale del dire, la seconda per natura privilegiata e innata nobiltà nel canto legato sul mezzoforte. Certo, alle voci importanti e di bel timbro è assai più facile risolvere Elena, come modernamente ci ha fatto sentire a tratti anche la Takova, che aveva tutti i mezzi in suo possesso per essere una grandissima Elena se solo avesse voluto.
Sul piano del gusto, poi, le inflessioni neoliberty immesse nella parte da soprani di agilità come la Aliberti o la Devia, costrette ad improbabili trasporti della parte, si scontrano inevitabilmente con lo stile del canto rossiniano, che nulla ha a che spartire con i soprani di coloratura di fine secolo e che non tollera nella sua linea picchettati e staccati, pianini, figurazioni arzigogolate, che pure oggi son riemerse inspiegabilmente con la Di Donato, che avrebbe i numeri per essere una Elena migliore, almeno sotto questo profilo, di quanto abbia fatto udire in teatro. Come ci dimostra la tradizione, il personaggio consente ad un soprano lirico, versato nella coloratura e che disponga di bella saldezza sul passaggio di registro inferiore, di affrontare la scrittura grave della parte Colbran, complice certamente il romanticismo che condiziona la nostra sensibilità in senso più lirico e meno aulico verso questo personaggio. Restano per noi oggi due soli rimpianti: che voci come la Cerquetti o la Stella o prima ancora una Stignani non siano nate nel tempo della Rossini renaissance ed educate al belcanto e che la Horne o la Dupuy non abbiano potuto disporre di un contralto che sostenesse Malcolm per esibirsi come Elena, perché le loro sarebbero state le voci di mezzosoprano idonee sotto ogni profilo al ruolo Colbran.

 

Gli ascolti

Rossini – La donna del lago

Atto I

O mattutini albori – Angeles Gulín (1974), Katia Ricciarelli (1983), Lella Cuberli (1986), June Anderson (1992)

Qual suon!…Scendi nel piccol legno – Lella Cuberli & Rockwell Blake (1986), June Anderson & Rockwell Blake (1992)

Sei già nel tetto mio – Lella Cuberli & Rockwell Blake (1986), June Anderson & Rockwell Blake (1992)

Atto II

Alla ragion deh rieda – Lella Cuberli, Rockwell Blake & Chris Merritt (1986), June Anderson, Rockwell Blake & Chris Merritt (1992), Joyce DiDonato, Juan Diego Flórez & John Osborn (2011)

Tanti affetti – Montserrat Caballé (1968), Marilyn Horne (1971), Angeles Gulín (1974), Frederica von Stade (1981), Lella Cuberli (1986), Lucia Aliberti (1990), June Anderson (1992), Anna Caterina Antonacci (1992), Cecilia Bartoli (1993), Martine Dupuy (1993), Mariella Devia (2001), Darina Takova (2004), Sonia Ganassi (2006), Joyce DiDonato (2010)

6 pensieri su “Riflettere e confrontare, terza puntata: Elena, “non donna ma silvestre Dea”.

  1. Sono veramente commossa per la bellezza, l’acume, e il serio approfondimento storico-musicale che contraddistinguono questo intervento. Io stessa, cara collega, non avrei saputo far meglio… che bei tempi i nostri!

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