Già negli anni immediatamente successivi alla prima di Napoli, la fortuna della Donna del lago – come, del resto, di ogni titolo del Rossini napoletano – dipese principalmente dalla possibilità di reperire cantanti in grado di venire a capo della sua scrittura, con particolare riferimento ai due tenori Giacomo/Uberto e Rodrigo, le cui parti furono specificamente approntate per l’ineguagliata coppia di fuoriclasse Nozzari/David. I rimaneggiamenti parigini (1824) ci dimostrano come anche a quel tempo il Terzetto del secondo atto – da allora sostituito con il Duetto ed il Quartetto dal Bianca e Falliero – fosse vocalmente inaccessibile a quasi tutti i tenori di cui i teatri potevano disporre.
Parlare del personaggio di Giacomo V significa pertanto celebrare quei soli cantanti, due o tre in tutta la storia del canto, che dalla data della creazione del ruolo sino ai nostri giorni ne abbiano saputo offrire una lettura attendibile. Innanzitutto Giovanni David, il leggendario creatore della parte, tenore contraltino “di grazia”, tipologia vocale che Rossini introdusse nell’opera seria per incarnare i personaggi amorosi, in alternativa alla voce del tenore centrale, generalmente antagonista. Molto è stato scritto sulla figura di questo cantante, di cui le fonti, talora discordanti nell’elogiarlo o nell’osteggiarlo, ci hanno tramandato un ritratto enigmatico. La voce, pur sonora e brillante, non doveva avere grande peso, trovandosi più a suo agio nelle sale medie e piccole; il carattere pigro e negligente – tipico dei grandi talenti – lo portava ad eccedere nei falsetti e nelle leziosità, mentre il veloce declino vocale ne accentuò la disomogeneità di suono e la discontinuità nei risultati. La sua estensione doveva essere eccezionale, e non è difficile credere che la sua voce di contraltino potesse abbracciare una gamma di circa tre ottave (sib1-sib4), grazie all’uso sapiente del registro di testa (che ovviamente non è falsetto, ma è voce, voce PIENA). La caratteristica del tenore contraltino è quella di poter cantare, sillabare e fraseggiare là dove un normale tenore solitamente sfoga i suoi acuti, in tessiture praticamente contraltili, grazie alla facilità nel sostenere il registro acuto. Le note sopracute di testa, invece, non erano certamente note cantabili, ma potevano essere impiegate attraverso il canto vocalizzato o in qualche fulminea puntatura. David poteva servirsene per esibire la sua abilità come acrobata ed improvvisatore, abilità che gli valse il soprannome di “Paganini del canto”. Fu un artista estroverso, vario ed originale, capace di esprimere ad un tempo l’audace esuberanza dell’eroe, e la soave dolcezza dell’amoroso.
Il personaggio di Giacomo V è un ricco compendio di questa varietà di sfaccettature, dovendo passare dall’ansia febbrile (poiché trattenuta) di un sentimento che non può essere corrisposto nel duetto del prim’atto, alla follia trasognata dell’amoroso dimentico del proprio status nell’aria di sortita del second’atto, sino alla temerarietà e all’orgoglio del sovrano duellante, nel terzetto.
L’alternativa a David, fin dalle prime riprese napoletane e nelle riprese parigine della Donna del lago, era l’altro leggendario e acutissimo tenore del primo Ottocento, Giovanni Battista Rubini, che in un’occasione cantò anche la parte di Rodrigo, con David che vestiva contemporaneamente i panni di Giacomo. Con Rubini la parte di Giacomo subì alcune rilevanti modifiche strutturali, la più importante delle quali fu l’aggiunta, all’inizio della scena della reggia nel secondo atto, della cavatina di Oreste dall’Ermione. Ben pochi furono in seguito i tenori che contribuirono alla sopravvivenza del titolo, uno di questi fu il celebre Mario, ma si trattava ormai di riprese che non rispecchiavano più la versione originale dell’opera.
Dopo la metà del secolo l’opera scomparve completamente per riapparire solo nel 1958, a Firenze, sotto la direzione di Tullio Serafin, con voci ancora tecnicamente inadeguate alla scrittura rossiniana, mentre poco dopo si segnala, nel personaggio di Giacomo, la presenza in discografia di un Bonisolli dall’acuto facile, sì, ma stilisticamente estraneo al linguaggio e all’estetica del belcanto. Per poter davvero riascoltare come debba essere cantato il personaggio di Giacomo si deve attendere l’arrivo di colui che ad oggi, a mio giudizio, resta il solo tenore, in età discografica, ad aver impersonato con proprietà vocale e stilistica questi ruoli del Rossini serio: Rockwell Blake, che debuttò la parte a Houston nel 1981, tenendola poi in repertorio fino al termine della carriera.
La ripresa dell’opera in questi giorni alla Scala di Milano, con il divo Juan Diego Florez impegnato nella parte di Giacomo/Uberto, ci ha fornito lo spunto per un confronto, sollecitato inoltre da alcuni incauti sostenitori del tenore peruviano, che alle critiche avanzate su questo sito nei confronti del loro beniamino hanno replicato ricordando come neppure Blake, nell’edizione del ’92, fosse immune da difetti e giudizi negativi da parte della critica ufficiale. Abbiamo pensato di soffermare la nostra analisi sull’aria di sortita che apre il secondo atto, “Oh fiamma soave”, proponendo una carrellata di ascolti live che documentano le diverse letture che prima Blake, nel corso della sua trentennale carriera, e Florez in seguito, hanno dato del personaggio ed in particolare di quest’aria. Come ho scritto sopra, parlare del personaggio di Giacomo V significa fare riferimento a quei pochissimi interpreti, fuoriclasse della storia del canto, che ne hanno saputo offrire letture storicamente significative. Oggi si parla di Florez come di un eccelso belcantista rossiniano, reincarnazione dei Rubini e dei David, fulgido esempio di “canto sul fiato” e “voce in maschera”. Non è possibile pertanto esimerlo dal confronto con i grandi che lo hanno preceduto (in questo caso con l’unico documentato dalle registrazioni).
Giacomo V, re di Scozia, si trova nel bosco ancora celato sotto l’identità del Cavaliere Uberto di Snowdon, e canta il suo amore per Elena: incurante del pericolo derivante dai suoi nemici, vuole placare la fiamma che lo brucia andando incontro all’oggetto dei suoi desideri. Il brano è strutturato in un unico tempo “andantino”, nel quale ad una prima sezione in cui viene introdotto l’intero materiale tematico, segue una seconda sezione che riprende musicalmente e testualmente il materiale della prima, con alcune variazioni. Lo stile è a metà tra il cantabile ed il vocalizzato, pertanto sono richiesti canto legato ed espressiva facilità nel canto di coloratura, dovendosi dipanare veloci quartine, sestine, e gruppi ulteriori di biscrome che, assieme ai salti d’ottava, alle volate e alle cadenze (da variare ad libitum), costituiscono ben più di una meccanica esibizione di ghirigori vocali, ma idealizzano astrattamente la psicologia ed i sentimenti del personaggio. Non si tratta solo di sterili abbellimenti giacché questa è una musica che nasce fiorita, e richiede pertanto un canto d’agilità scolpito e accentato, eloquente, espressivo, mai meccanico e scivoloso. L’interprete che esegue una pagina come questa, inoltre, non può non disporre di una adeguata varietà di colori e dinamiche con cui differenziare le continue ripetizioni, esprimendo con il fraseggio ora la baldanza dell’eroe, ora la dolcezza dell’innamorato (indispensabile è la mezza voce).
Già nell’81 il Giacomo V del giovane Blake si segnala per le eccezionali doti vocali, la saldezza dei fiati, la forza del settore acuto, la facilità con cui sostiene le lunghe progressioni di quartine anche ad un tempo non rapido, la capacità di cantare a mezza voce e di sfoggiare impressionanti messe di voce sugli estremi acuti, come nella cadenza finale in cui sale a piena voce al do# per poi smorzarlo. Tuttavia alcuni errori nelle parole ed una certa piattezza e scolasticità nel fraseggio lasciano intendere che la parte doveva ancora essere assimilata del tutto. La grandezza di un artista si vede anche dai miglioramenti. A New York nell’82 il cantante ripete le stesse prodezze, con in più una maggiore sicurezza e velocità di vocalizzazione. Le mezze voci su cui riesce a sostenere anche lunghi passi d’agilità sono già ottime, ma il dosaggio di colori e dinamiche nell’arco dell’intero brano è ancora migliorabile. Le due esecuzione dell’86, a Parigi e Nizza, mostrano non solo una eccezionale tenuta di rendimento nel corso degli anni, ma soprattutto un crescente approfondimento musicale, con sempre maggiore attenzione nei fraseggi e nel differenziare le ripetizioni. Splendida in particolare la delicata mezza voce su cui viene tenuta tutta la ripresa del tema iniziale a metà del brano, e spettacolari come sempre le salite al do# nelle cadenze, che evidenziano una ancora intatta capacità di modulare il suono a qualsiasi altezza. Eccezionale poi è la scolpitura dell’agilità, la sicurezza con cui viene ribadita ogni nota, la facilità nel gestire i terribili salti si2-si3, in un vero e proprio fuoco d’artificio vocale. Con le esecuzioni di Bonn e di Parma del ’90 si rileva la solita costanza di rendimento, e solo una minore spavalderia nell’esibizione dei sopracuti. Arriviamo quindi al video dell’edizione scaligera del ’92, che a dispetto di una ripresa sonora che accentua le asprezze e le durezze del timbro, mostra la solita facilità nel canto vocalizzato, e scelte di fraseggio musicalmente molto appropriate: non ci sono due frasi che si susseguano identiche nella dinamica e nel colore. Sono le prerogative del vero rossiniano: esattezza e fluidità nella vocalizzazione, precisione d’intonazione, varietà d’accento, colori. Soluzioni alle quali Blake non avrebbe rinunciato neppure negli anni dell’estrema maturità, nel 2002 e nel 2005, quando della sua voce, ormai bianca e senile, non rimaneva che la sola, portentosa impalcatura: il fiato.
Di Florez abbiamo raccolto sei esecuzioni diverse, Pesaro nel 2001, Salisburgo e Montpellier nel 2002, Genova nel 2004, oltre a Parigi e Milano nel 2010 e 2011. La voce è sempre la stessa, di un timbro chiaro e monocromatico che la registrazione fa apparire più uniforme e garbato rispetto alle ruvidità di Blake, ma anche decisamente più povero e limitato. Non è necessario stare qui a fare radiografie vocali per andare ad evidenziare le mende che compromettono tutte le esecuzioni di Florez, quali un’intonazione a dir poco imprecisa nelle successioni veloci delle quartine di biscrome (con miglioramenti però alla Scala e a Parigi rispetto agli inizi), agilità scivolose, ritmicamente traballanti e affannose, fiati corti, suoni sistematicamente schiacciati e nasali ogniqualvolta si superi il fa#, cadenze poco elaborate, con puntature scoperte buttate lì senza alcun criterio musicale e stilistico, buone solo a sottolineare l’approssimazione tecnica di un simile settore acuto. Si consideri invece quanto c’è di rossiniano in un cantante che nell’arco di un decennio non ha mai fatto sentire una sola messa di voce, una vera mezza voce, un colore, un’agilità accentata con espressione e vigore; quanto c’è di rossiniano in questa grigia e piatta monotonia esecutiva, che non permette di distinguere una versione dall’altra se non dai diversi errori che esse presentano. Come già scrissi, non si tratta affatto di freddezza interpretativa, giacché Florez al contrario si sforza ovunque di cantare sulla parola, di differenziare i colori, di variare l’accento, riuscendo soltanto però a risultare ancora più manierato, lezioso ed artefatto. Gli ascolti parlano da soli, e non ci pare il caso di proseguire ulteriormente in questa disanima. Invitiamo i lettori all’ascolto e al dibattito.
G.B. Mancini
Rossini – La Donna del Lago
Atto II
O fiamma soave
Rockwell Blake – Houston 1981, New York 1982, Nizza 1986, Parigi 1986, Bonn 1990, Lisbona 2005
Juan Diego Flórez – Pesaro 2001, Montpellier 2002, Salisburgo 2002, Genova 2004, Parigi 2010, Milano 2011
Ho avuto modo di vedere Blake dal vivo in Donna del lago (Nizza) ed era emozionante, la voce dal vivo pareva piu’ bella di quello che in realta’ era…grande cantante ed interprete davvero…Complimenti alla S.ra Grisi per il bell’articolo…..
Sarebbe meglio dire che il disco fa apparire la voce più brutta di quanto fosse nella realtà. L’ascolto dal vivo è l’unico ascolto veritiero.
merci ( per la recensione, mentre qui scrive Mancini) e…. benvenuto!
Ho sentito Florez dal vivio alla Scala e Blake (purtroppo) solo in disco. La versione del 1992, malgrado gli ostacoli di una pessima direzione, raggiunge vette di raffinatezza molto lontane dalle ben più modeste doti mostrate dal tenore peruviano, ormai idolo di un pubblico massificato.
Trovo anche io che la direzione di Muti non sia propriamente esemplare, perlomeno sotto il profilo del servizio reso alle voci. Per esempio l’aria di Giacomo mi è sempre sembrata troppo rigida nel tempo…
Articolo interessantissimo: faccio i miei complimenti a Mancini per la ricerca storica e la comparazione tecnica di Blake e Florez.
Vorrei fare una domanda tecnica: vorrei infatti chiedere a Mancini come lui pensa fosse “amministrata” tecnicamente l’estensione di David figlio perché dando una mia personale lettura a quanto scritto trovo problemi interpretativi alla frase “registro di testa (che ovviamente non è falsetto, ma è voce, voce PIENA)” alla luce dello scientifico Garcia (la voce del contraltino che al LAb3 passa in registro di falsetto – oggi io lo interpreto come registro di testa – e dal RE4 passa in registro di testa – che io interpreto in falsetto; ricordo peraltro una bellissima ed azzecatissima deduzione che Mancini fece tempo fa, ossia che mentre oggi si tende nel registro di testa a mischiare il registro di petto con quello di falsetto, prima si mischiava il registro di falsetto a quello di petto) e della prassi che viene generalmente riportata dai critici come Celletti ossia acuti e sovracuti fatti in falsettone/falsetto.
Sulla questione dei registri si è sempre fatta molta confusione… I registri nell’ordine sono: un registro grave e centrale detto “petto”, un successivo registro medio-acuto (che Garcia chiama “falsetto”), ed il registro acuto e sopracuto di testa (registro quest’ultimo proprio delle voci femminili quando cantano nell’ottava superiore, ed in qualche caso delle voci maschili più acute). Un cantante nel quale è molto evidente, all’ascolto, la diversa meccanica dei registri, è Chris Merritt (che saliva ad altezze vertiginose con irrisoria facilità, servendosi del registro di testa). E’ voce piena, non falsetto come lo intendiamo noi oggi! Blake invece possedeva un falsetto (uso qui il termine di Garcia) molto facile e molto forte, con cui arrivava ad emettere dei do# pieni e squillanti, ma non era solito sfogare la voce nel successivo registro di testa. Infatti – faccio un esempio – nel terzetto della Donna del lago, dove Rossini in un paio di volate fa salire la voce di David fino al re4 (da emettere di testa), Blake deve fermarsi al do (come del resto anche Florez).
E’ indubbio un argomento ostico, sia non tanto per la confusione tecnica dei registri, quanto quella terminologica, che ovviamente si porta dietro tutta una questione storica a monte.
Credo che tu intenda i sovracuti a voce piena in registro di testa fatti in questo modo (video Lo Forese, giusto ?http://www.youtube.com/watch?v=ywirgWci82o
mentre intendi come falsetto per esempio il Fa cantato da Pavarotti nel “Credeasi misera” giusto? http://www.youtube.com/watch?v=kCIAplvjUKs
Avevamo già sentito Merritt una volta, e secondo me non ha una falsetto ma sicuramente un falsettone rinforzato che riusce poi a sfogare nella voce di testa.
Peccato che Blake si fermi al do perché di suo vocalizzava sino anche al Mi4 (vai al minuto 4:29 http://www.youtube.com/watch?v=2oZ2AcaPb7o) e infatti si nota come il do#4 e re#4 (il Mi è un po’ stirato) hanno un colore leggermente diverso rispetto alle note del passaggio.
L’argomento è ostico sì… eppure basta leggere quello che scrive il Garcia. Sui registri lui ha detto tutto quello che c’era da dire. Blake in quella lezione dice delle cose strane che non condivido. Anche se lui lo nega, si sentono benissimo tutti e due i passaggi, sia il primo, sia il secondo, quando arriva alle ultime note sopracute, inevitabilmente con la voce di testa. Nel secondo esempio che fa, però, l’eccessivo oscuramento rende la salita al mi naturale un po’ forzata, a mio parere.
Sai benissimo che leggere un trattato non basta per capirlo appieno e ancora meno per mettere in pratica quello che c’è scritto. Eppoi un trattato non è mai un qualcosa di isolato: bisogna sempre contestualizzarlo, e di acqua sotto i ponti (anche se preferirei dire incrostazioni) ne è passata molte, ahimè
Blake in quel video pone la questione da un punto di vista prettamente didattico, peraltro contraddicendosi nel corso della stessa ma tutto per far chiarire al ragazzo i suoi dubbi (che non canta molto bene – ci sono diversi video su YouTube). E’ strano quello che fa la seconda volta come dici tu, ossia lui propone la scala in color chiaro ed in color scuro, sebbene il Garcia stesso dica che dal passaggio in poi esiste solo un colore, ossia quello scuro (che poi è quello che Blake stesso poi dice quando parla di oscurare nel passaggio) quindi il secondo gli viene un po’ forzato e spinto in sovracuto.
Qui si parla di un argomento strettamente meccanico, fisiologico, ossia i registri, che sono sempre gli stessi in qualsiasi tempo e contesto. La spiegazione che ne fa il Garcia è quella che io ritengo più corretta e definitiva. Per sentire cos’è il registro di testa, ho già detto, basta sentire come sale Merritt a voce piena, sentendosi benissimo il passaggio prima dal petto al “falsetto” (uso il termine nell’accezione di Garcia), e poi oltre il do4 lo sfogo nel registro di testa (che poi è la continuazione del falsetto). E’ inequavocabilmente voce: voce piena. Falsetto è un termine convenzionale.
Blake sembra negare l’esistenza del passaggio e afferma che, arrivati ad altezza del presunto passaggio, bisogna salire solo con il colore scuro. Quindi nel secondo esempio lui illustra come sarebbe la corretta procedura per accedere al settore acuto. Comunque anche in Blake talvolta sulle note più acute si sente il passaggio in testa, per esempio in questo video, nella cadenza al min. 2:37 e nei successivi re4 della cabaletta, usa inequivocabilmente il registro di testa.
http://www.youtube.com/watch?v=dhW3xAkOF10
Penso che Blake neghi didatticamente l’esistenza del passaggio per spingere lo studente a pensare il suono uguale ed in continuità, e per evitare per esempio che venga influenzato psicologicamente dall’idea di andare in acuto e per esempio alzare la laringe.
Molto bello il video comunque, e Blake si attesta come splendido vocalista!
Sarebbe bello però basarsi anche sui cantanti di inizio secolo, dove questo stacco di registri era meno evidente.
Nei cantanti antichi talvolta è evidentissimo il passaggio al “falsetto” (o se preferisci “falsettone”). Senza fare necessariamente esempi con i tenori, basta sentire un baritono come Battistini, i cui acuti sono sempre in falsettone (essendo un baritono non arriva mai alle note acutissime del registro di testa, che ripeto è proprio delle voci femminili e di qualche tenore particolarmente acuto). Senti ad esempio qui: http://www.youtube.com/watch?v=JAP2UCuVflk
al min. 0:58 il fa# di “in tal guisA” è in falsetto, 1:41 “che l’essEre indìa”, 2:07 “sul mio senO”, 2:34 lab di “brillAva”, sempre in falsetto o falsettone che dir si voglia. Ovviamente è voce piena, integrale. Falsetto è solo il nome che convenzionalmente si è dato a questo registro, intermedio tra il petto e la testa. Per sentire invece la testa, prova con qualche video di Lauri Volpi, negli duetto degli Ugonotti ad esempio emette uno splendido re sopracuto, ovviamente di testa.
Da quello che ho capito, soprattutto dall’esempio di Battistini, per falsetto si intende quello che oggi tra gli addetti ai lavori si chiama acuto “girato”, che nei bassi si ha dopo il do diesis, nei baritoni dopo il mib e nei tenori dopo il fa.
@Enrico
è un registro, che convenzionalmente, storicamente, viene chiamato “falsetto”.
Noto (con una punta di ironica predestinazione) che sia David sia Florez hanno la voce piccolina 😉
Anche Blake eh non è che avesse chissà quale voce: non era una vocina ma neanche una voce particolarmente ricca. Il punto non è avere voce grande o piccola (avevano forse grandi voci la Dolukanova, la Berganza, la Horne?), il punto è l’uso che se ne fa.
Mai sentito in pubblico ahimè.. Quando becco mozart, glielo chiedo!
Bellissimo articolo veramente. Senza dimenticare che, in un improbabile match far Florez e Balke quest’ultimo uscirebbe vincitore anche sotto l’aspetto scenico , non fosse altro che per la sua capacità di differenziare recitativamente i tanti ruoli affrontati (mentre l’altro sembra sempre cantare Tonio della “Figlia del reggimento”) Una curiosità: chi ha ritoccato la foto di Blake (la dentatura), neanche fosse una velina senza cervello…..
….il suo dentista????? hahaha
Verissimo, l’arte di Blake non è solo vocale ma anche scenica. Per Florez una recitazione disinvolta, giocata sui gesti e le espressioni del viso, sarebbe credo impossibile, considerata la fatica che gli costa quel suo modo di cantare. E’ sempre tutto rigido e contratto, tanto da non riuscire nemmeno a girare il colllo…. io lo trovo molto buffo.
Nel ruolo di Giacomo V vidi,anni fa, Dalmacio Gonzales (che non ho mai amato) ma, se la memoria non mi inganna ( e l’orecchio) mi parve meglio di Florez se non altro piu’ sfumato……anche se la voce era proprio piccolina, Blake “suonava” di piu’. Grazie S.ra Grisi per il benvenuto.
bellissimo articolo… con una piccola mancanza: dano raffanti… cari saluti,
p. la spina
Ma Raffanti ha interpretato anche il ruolo di Giacomo V? Io lo conoscevo solo come Rodrigo…
Grazie davvero. Interessante e utile, fortunatamente leggo “prima puntata”, quindi dopo gli ascolti attendo con ansia la seconda e la terza ecc ecc.
Questa, secondo me, è informazione.
dano raffanti cantò solo rodrigo. Devo dire splendidamente almeno a new york ormai 29 anni or Sono!
Ma anche a Pesaro e a Trieste
Scusate se mi inserisco… Volevo chiedere per cortesia a mr papageno o a Mancini se esiste ancora in commercio il trattato di Garcia di cui tanto parlate… Grazie!
Si trova qualche cosa in inglese su IMSLP, mentre Ricordi mi pare che abbia ancora in catalogo solo la prima parte del trattato.
Forse la cosa migliore sarebbe cercarlo in qualche biblioteca universitaria o di conservatorio!
A seconda dell’edizione che hanno 😉
Consiglio vivamente l’edizione di “Hints on singing” su IMSLP, tradotta da una nipote (se non erro) di Garcia figlio, Beata Garcia.
(segue) che è un sunto del trattato completo, comunque ben fatto ed esaustivo (ha meno esercizi rispetto al trattato completo, e le voce con i loro registri vengono descritte in maniera più sbrigativa rispetto al trattato).
Si, Filippo, esiste. La Ricordi pubblica solo la prima parte e per me personalmente è una scelta totalmente aberrante in quanto la seconda parte è la più importante, dove si parla dei colori, delle espressioni, oltre contenere delle variazioni alle opere rossiniane che sono una conoscenza base per chi affronta Rossini (oltreché di prima mano – vedere la variazione di “Ecco ridente in cielo” di Garcia padre stesso.
Oggigiorno, entrambe le due parti sono pubblicate dall’editore Zedde, che oltre a fornire interessantissime note esplicative, lo stampa bilingue, italiano-francese. Esiste il sito, quindi è di facile reperibilità.
prova a guardare qui, qualcosa dovresti trovare!
http://www.sbn.it/opacsbn/opaclib
un grazie a tutti! L’ho trovato: “Traité complet de l’art de chante en deux parties” con traduzione in italiano, a cura di Stefano Ginevra, Giancarlo Zedde editore.
Figurati! 😉 Buona lettura!
più che variazione di ecc ridente in cielo ne è la riscrittura. e il dubbio quotidiano è : ma le riscrivevano tutte cosi?
ciao dd
Non sono d’accordo. A parte l’ultima cadenza sull’ultimo “che mi ferì”, trovo tutto il resto una variazione della melodia originale.
Bella domanda, caro Donzelli: a vedere anche le variazioni storiche contenute nel Ricci e le molto più affidabili variazioni della seconda parte del trattato del Garcia, pare fosse la prassi accettata. Figurati se queste erano le variazioni cosa si combinava prima (per cui poi Rossini le scrisse di pugno).
Ma ripeto, non sono uno studioso specialista di variazioni rossiniane, vado a naso.
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due variazioni: Garcia riconosce la 2 come troppo languida per il carattere brillante di Almaviva.