Caro Maestro Barenboim,
le scrive un semplice cantante, Manuel Garcia, umile testimone di quel mondo dell’opera che lei non ha finora saputo, ed umilmente ne ha preso atto, mettere in scena con la pazienza e sensibilità necessaria.
Ma oggi mi permetto di scarabocchiare due simboliche righe non riguardo al canto, anche se la tentazione è fortissima, pur consapevole di correre il rischio di annoiarla a morte, ma riguardo a un suo recentissimo concerto sinfonico nel Teatro di cui lei si è generosamente preso a cuore le sorti.
L’altra sera, il 6 novembre, lei ha aperto, dicono nei giornali con un vibrante e largo successo, il seminuovo ciclo Beethoven-Schonberg, riproponendo, almeno così mi è parso, una serie di composizioni degli stessi compositori con al centro i concerti per pianoforte del genio di Bonn. Ciclo, e spero non me ne voglia per questa poco cortese rimembranza, che non è passato agli annali scaligeri come il miglior Beethoven.
Sono altresì dolente di dover rimarcare come il Beethoven da lei proposto in questa occasione non si sia sensibilmente distaccato da quello di qualche anno fa. E oggi come ieri mi stupisce che un musicista come lei, discepolo di giganti della musica quali Furtwangler, Markevitch e Fischer, che erano anche, il primo soprattutto, grandi interpreti beethoveniani, non sia stato capace di ereditare queste caratteristiche, di assorbire (mi sia concessa questa metafora forse poco riguardosa) tutto il meglio del buon latte materno.
Un diletto frequentatore della Scala ha avuto modo di lodare nel massimo giornale meneghino questo concerto con parole che la carità cristiana, carburata dalla considerazione che merita il pulpito da cui sono state spese, spinge a ignorare.
A me, e lo dico francamente, con la stessa sincerità e spontaneità con cui lei affrontava le reazioni non esattamente entusiastiche di parte del pubblico in occasione del “suo” Boccanegra, le due sinfonie eseguite l’altra sera (ovvero la Prima e la Seconda) non sono piaciute affatto.
Affrontare queste composizioni non è certo facile: ben lo sapeva il suo Maestro Furtwangler a cui certo non mancarono le occasioni di esprimere apertamente il suo disprezzo per la Seconda che addirittura non inserì nell’integrale del 1950-54. E’ un Beethoven, quello dei primi anni romantici, in cui risulta sempre facile cadere nella tentazione del “mozartiano”, sicuri in questo modo di andare sempre incontro ai gusti del pubblico d’oggi. E certo, in un’ottica di comodità e successo (possiamo osare dire: di consumo?), sarebbe anche encomiabile un atteggiamento di siffatta natura, cui si sono allineati di recente molti suoi colleghi, di lei minori per età ed esperienze.
Mi piacerebbe, lo dico forse ingenuamente, comprendere le ragioni della sua limitata dimestichezza con questi spartiti, tendenza di cui già sovente ha dato mostra nel golfo mistico del suo e nostro teatro.
Forse ha avuto poco tempo tra il concerto inaugurale della stagione sinfonica, che, a quanto riferisce il quotidiano poc’anzi citato, ha riscosso uno scarso successo, e l’inizio di questo nuovo ciclo sinfonico?
O magari, e me lo auguro, ha concentrato tutte le sue forze sul nuovo ed ormai imminente Don Giovanni?
Saperlo non mi è concesso. Ma perlomeno mi sia data la possibilità di entrare nei particolari della serata in questione.
L’orchestra della Scala, ormai da qualche anno, e sono certo di ribadire cose note, è assai scaduta: la superficialità della lettura musicale, accompagnata da atteggiamenti, purtroppo assai diffusi fra i professori e più consoni a un dopolavoro ovvero a una compagine di amatori, ha raggiunto un limite insopportabile per chi ascolta e ahimè guarda questa orchestra, e immagino sia altrettanto irritante per chi li guida, o almeno ci prova.
Il suo gesto, credo lo sappia, caro Maestro, non è di particolare finezza, non trasmette equilibrio, eleganza, e soprattutto chiarezza e immediatezza. Ma se il brutto gesto di Furtwangler non coincideva con il suono che miracolosamente nasceva da quella disordinata bacchetta con una straordinaria perfezione, al gesto di Barenboim corrisponde esattamente la resa interpretativa, vi è totale compenetrazione di bacchetta e suono, intenzione e resa: ne risulta un suono assolutamente squilibrato fra le varie parti d’orchestra (violini fibrosi, metallici e assai fastidiosi, fiati pesanti e invadenti), una disomogeneità notevole e spesso anche impreciso (corni che spuntano all’improvviso con sviste difficili da non notare). Si ha quasi l’impressione di ascoltare tante sezioni totalmente scollegate fra loro, e non si percepisce una cooperazione sonora fra gli strumenti, che dovrebbero invece tendere a una sola meta interpretativa.
Tutto ciò mi porta a pensare, da un lato, ad una sua incapacità nel trasmettere la sua visione della musica, il suo modo di vivere le sinfonie di Beethoven (certamente soggettivo e personale) all’orchestra da lei seguita, dall’altro a una mancanza di una sensibilità esegetica e analitica, ad una assenza di percezione emotiva davanti a questa musica. Non saper dire nulla riguardo a delle pagine che rappresentano, citando George Grove, “la più alta cima che Beethoven potesse raggiungere prima di lanciarsi nelle regioni nuove e meravigliose dove nessuno prima di lui era penetrato”, è cosa che desta in primo luogo meraviglia, e in secondo luogo fondate perplessità.
Il Beethoven ascoltato l’altra sera è parso totalmente meccanico: tutti gli ingranaggi andavano anche se arrugginiti e bisognosi di un po’ di olio lubrificante. Il tempo c’era, l’orchestra andava insieme, certo: ma quando scrivendo delle umili osservazioni riguardo a un concerto sinfonico, ci si trova a dover inserire tra i pregi, o se meglio si preferisce, tra le conquiste direttoriali degne di lode la capacità di tenere insieme l’orchestra senza mai “perderla” nel corso del concerto… forse è il caso di chiedersi come mai simili precondizioni siano divenute mete tanto ambite!
Caro Maestro, mi duole rivolgerle queste parole forse troppo crude, ma mi auguro che vengano accettate come un messaggio benevolo, e un augurio di pronto ritorno alla buona e genuina tradizione sinfonica del nostro Teatro.
Manuel Garcia
Ho sentito la Filarmonica della Scala a settembre qui a Stoccarda, sotto la bacchetta di Harding. Non posso che sottoscrivere le impressioni di Garcia, il complesso ormai non vale neanche un’ orchestra tedesca di second’ ordine e soprattutto non ha suono.
Su Barenboim, da sempre dico che avrebbe potuto essere annoverato tra i grandi della storia del pianoforte, se non avesse deciso di perdere tempo diventando un mediocre direttore d’ orchestra.
Saluti.
Caro 2006, le ripropongo un mio post a un suo post sul Rosenkavalier, che forse lei non ha letto, ma è tuttora validissimo come risposta anche per questo suo intervento.
“mah che dire! Lei ogni tanto si muove da Stoccarda? o più lontano che vada è Baden Baden(dove fra l’altro io sono di casa)?. Viene ognitanto a Milano? Se si muovesse un pò di più, forse si accorgerebbe che in Germania(dove fra l’altro io sono di casa) non è tutto oro quello che luccica: sì certo la media di molte orchestre tedesche è molto,ma molto più alta delle nostre orchestre, ma qui a dire che le orchestre di Stoccarda,Francoforte e Amburgo(ignorando bellamente quella di Colonia,assai superiore) che conosco benissimo,siano superiori alla Scala sia nel sinfonico che nell’operistico, insieme a Monaco e Berlino mi sembra assai discutibile: si sentono delle schifezze anche là, caro 2006! In 10 anni di mia assidua frequentazione in tutti i teatri europei, mai mi è capitato di decidere di venire nella sua città, mai c’è stato qualcosa che mi invogliasse e poi Stoccarda è soprattutto famosa nel mondo per il German-Trash dei suoi allestimenti operistici.Le consiglio semmai di trasferirsi a Berlino con 3 teatri d’opera e innumerevoli orchestre fra cui l’impressionante Deutches Symphonie Orchester Berlin che a Baden Baden in Giugno, diretta da Sotesz(che meraviglia la loro Salome!), ha nettamente surclassato la Statkapelle Berlin diretta da Boulez e con Barenboim pianista.Mi sembra che i suoi innumerevoli interventi, siano spesso un pò precipitosi e con una certa dose di acredine verso tutto ciò che parla italiano.Ma Lei è Tedesco o è dovuto o voluto emigare là!Mi scusi per la mia impertinenza!
Cordialmente.Capriccio(ex Fabrizio).
P.S.
io ritengo che l’Orchestra della Scala sia un’eccellente compagine, quando è diretta da bravi direttori; alcuni esempi:in Walkuere l’orchestra funzionò meravigliosamente, fu perfetta perchè fu perfetta la direzione di Barenboim, l’unico vero prodigio di questo direttore da che è alla Scala,e perchè, probabilmente, il “turista direttore” ci teneva molto. Apprezzai molto l’orchestra e la direzione di Metha per il Tannhauser( che negli ultimi anni mi è sembrato assa i routinario, soprattutto a Firenze) e così dicasi per la Casa di Morti, ma qui c’era Salonen, attualmente il più grande direttore in circolazione e probabilmente nel futuro.E anche in Lulu l’orchestra fu grande.Fra l’altro ho citato opere non certo nel DNA di questa orchestra. Ci pensi bene! e ci pensino bene e ci riflettano anche gli altri intervenuti, contro questa “famigerata”orchestra!!
Caro Capriccio,
le dovevo una risposte e mi scuso per il ritardo.
Intanto, visto che ci tiene a saperlo, sono italiano e vivo all’ estero da 15 anni per scelta personale. Se lei gira i teatri di tutto il mondo da 10 anni, io ho cominciato ad andare all’ opera quando ne avevo 6, nell’ ormai lontano 1963, e ho avuto il privilegio di ascoltare dal vivo gentucola del calibro di Del Monaco, Corelli, Bergonzi, Tucker, Sutherland, Caballè, Leontyne Price, Horne, Ramey, Cuberli e Blake, tanto per citare a caso. Inoltre ho frequentato Salzburg negli anni Ottanta, quando i direttori si chiamavano Karajan e Bernstein. Questo per dirle che mi sento di poter parlare con una certa cognizione di causa.
Sulla Filarmonica della Scala, resto del mio parere. Poco tempo fa, ho ascoltato la Deutsche Rhein Philhamonie diretta da Axel Kober che suonava la Sinfonia “Dal nuovo mondo” di Dvorak, stesso brano eseguito dagli scaligeri qui a Stoccarda. Bene, le ribadisco che hanno suonato in un modo che il complesso milanese attualmente può solo sognarsi, come del resto non può essere paragonato alla nostra RSO Symphonie Orchester, formazione che, come lei certo saprà, ha avuto rapporti di stretta collaborazione con gente come Schuricht, Celibidache, Kleiber, Giulini, Solti e Pretre.
Per il resto, non so che dirle. Lei passa il tempo a seguire cose che semplicemente a me non interessano, e se è soddisfatto così, va benissimo. In un altro suo intervento, lei magnificava il Don Giovanni di questa estate a Baden Baden, che ho sentito anch’ io e a mio avviso era un’ accozzaglia di vociacce che nel mondo operistico della mia gioventù avrebbero fatto al massimo i comprimari.
Quindi, mi sembra che i nostri punti di vista siano totalmente divergenti e va bene così, ognuno ha diritto alle proprie opinioni, ci mancherebbe.
Ricambio le cordialità e, se viene a Baden Baden per l’ Ariadne (io ci sarò, lo Strauss di Thielemann è una delle poche cose odierne che valgono un viaggio) sarò lieto di offrirle da bere.
Saluti.
Beh, sì un viaggio comunque di pochi Km. Ribadisco il mio giudizio altamente positivo su quel Don Giovanni, il cui unico difetto era un pessimo Don Ottavio,da non inserire nemmeno tra i comprimari.Quello che non capisco di Lei è il suo modo un pò sbrigativo, sferzante e a volte incomprensibile di fare osservazioni critiche e di pontificare dalla sua torre d’avorio di Stoccarda. Lei è stato più fortunato di me ad avere avuto questa passione musicale molti anni prima e la invidio(nel senso buono del termine) molto. Ma mi sembra,comunque, un pò troppo precipitoso nei suoi interventi.
E poi Lei parla della Filarmonica diretta da Harding: ma chi è Harding? Solo un grande bluff! Ho parlato bene dell’orchestra in varie opere che forse non ha ascoltato, ma anche la filarmonica quando diretta da grandi direttori(quelli veri), fa la sua bella figura!
Cordialmente!
PS
a baden baden sono il 25-02 in 2.seitenbalkon links row1 seat16
Io porrei la domanda in maniera diversa:
quello che non capisco di te, Capriccio, è il tuo modo un po’ sbrigativo e sferzante a volte incomprensibile di fare osservazioni critiche solo positive (uso lo stesso metro di giudizio ovvero lo stereotipo, sempre con ironia certo) e pontificare su chi ha più esperienza di te in materia, dall’alto dei tuoi viaggi oltre l’infinito e oltre…
Se poi Harding è un grande bluff e la Walkure scaligera era un capolavoro a livello orchestrale, ci vogliono altri 10 anni di viaggi interstellari mi sa per approfondire meglio un po’ di cosette…
Il tutto detto con la solita ironia ovvio
Marianne
Vede, carissimo, io ho viaggiato molto in passato, come le ho detto. Attualmente mi muovo quasi esclusivamente per concerti. Quando vado a Berlino, e lo faccio abbastanza regolarmente, preferisco sempre una bella serata alla Philharmonie, dove posso godermi una delle migliori orchestre del mondo, piuttosto che perdere tempo alla Staatsoper o alla Deutsche Oper ad ascoltare cantanti di un livello simile, quando non addirittura inferiore, a quelli che posso sentire qui a Stoccarda.
In ogni caso, la mia città offre almeno due realtà di indiscutibile livello internazionale, la RSO Symphonieorchester che le ho citato e la Bachakademie il cui direttore, Helmut Rilling, mi risulta essere figura altamente apprezzata anche da voi in Italia. Potrei aggiungere la stagione sinfonica della SKS, dove spesso si esibiscono gli stessi complessi che vengono a Baden Baden.
Sono lieto comunque di vedere che almeno su Harding e sul Don Ottavio siamo d’ accordo.
Saluti.
No, Cara Marianne tu non sai minimamente cos’è l’ironia!
Harding lo seguo da quando è nato e l’ho sempre considerato un bluff e ti dirò l’ho ascoltato tante volte per vedere se trovavo qualcosa di buono in lui vista l’uniformità di giudizi positivi( perfino Giulia l’avrebbe visto bene come Direttore Scaligero! Sconcertante!!).
A casa ho 8 edizioni del Ring, le più importanti e per me la Walkuere di Baremboim alla Scala è stata una grandissima prova, direttoriale e orchestrale!! E qui non c’è NESSUNA IRONIA!! Cordialmente. Cap.
PS
da leggere dopo la risposta di Marianne dopo i miei 2 interventi.Grazie
Mi lascia perplesso leggere, ogni volta che si parla di Beethoven, il riferimento a Furtwaengler come “pietra di paragone”: come se l’unica lettura “consentita” o (parola orribile) “corretta”, sia sempre e solo quella del grande direttore tedesco, quasi che scostarsi da essa equivalga a “bestemmiare in chiesa” e sbagliare. Confesso che un tale dogmatismo – fedele ad una visione burocratica della musica e che rivela una grigia ortodossia – mi pare più che altro un preconcetto. Non ho ascoltato il concerto di Barenboim (né mi interessa ascoltarlo: è un direttore che non apprezzo, soprattutto nel repertorio sinfonico), tuttavia mi permetto di contestare alcune delle premesse, che vanno aldilà, ovviamente, di quella che credo essere stata l’ennesima cattiva esecuzione sinfonica scaligera:
1) l’op. 21 e l’op. 36 datano, rispettivamente, 1800 e 1802: a meno di credere che, suonata la mezzanotte del 31 dicembre 1799, tutto ciò che accade dopo possa essere inserito nella categoria (a tenuta stagna evidentemente) del “romanticismo musicale”, mi sembra piuttosto discutibile un loro inserimento in suddetta classificazione. Già con fatica riesco a considerare Beethoven un compositore “romantico”, men che mai mi riesce con i primi lavori sinfonici;
2) quella che viene definita (con un certo disprezzo, noto) “tentazione mozartiana” non è altro che una legittima chiave di lettura non certo campata per aria da qualche bislacco “imbroglione” o “ciarlatano” (colpevole di essersi discostato dalla lezione “intoccabile” di Furtwangler magari?): dato che non esistono categorie ferree nell’ambito dell’evoluzione musicale, ed essendo scontato che i mutamenti di linguaggio non avvengano dalla sera alla mattina, credo che non sia una “bestemmia” o un “errore” sottolineare la componente mozartiana (dell’ultimo Mozart: quello delle grandi sinfonie K 504, 543, 550 e 551 ovviamente) e l’influenza di Haydn (vero nume tutelare del sinfonismo europeo). Del resto se pare “scorretta” (rispetto a cosa però? Mi piacerebbe che, una buona volta, mi si spiegassero i requisiti necessari per ottenere la patente di “esecuzione corretta”) una lettura mozartiana/hadyniana, allo stesso modo dovrebbe apparire “scorretta” la lettura tardo romantica e wagnerizzata… A meno che il discrimine sia solo il tempo passato e il sillogismo pretestuoso per cui tutto ciò che è passato è, comunque, migliore (col corollario per cui oggi tutto fa schifo!);
3) il disprezzo di Furtwaengler per l’op. 36 mostra, invece, il fraintendimento di una lettura eccessivamente romantica: ovviamente in un’ottica titanica (il Beethoven da vulgata, trascendentale e genialmente incompreso) si fatica ad inserire i due primi lavori sinfonici…e da qui deriva il disagio per direttori legati ad una certa visione del compositore di Bonn, di interpretarne i primi lavori. Lo stesso fraintendimento avviene con Fidelio che, se trattato come una specie di preparazione al dramma musicale wagneriano (e quindi con una certa visione dei rapporti strumentali e vocali) diviene difficilmente eseguibile (da qui derivano i tanti Florestan che naufragano a metà dell’aria, i personaggi di Rocco, Jaquino e Marzelline trattati in modo farsesco, i Pizzarro nibelungici e le Leonore virago…);
4) neppure trovo gradevole il sospetto per cui la scelta interpretativa meno romantica sia uno squallido mezzuccio per attirare le preferenze del pubblico! E’ affermazione falsa e tendenziosa: a meno che Abbado, Zinman, Chailly siano dei cialtroni per il solo fatto di non replicare la lezione di Furtwaengler! Anzi, se proprio si vuole considerare la “cassetta” e il successo commerciale e facile, non posso non notare come raccolga più consenso il Beethoven di Thielemann (che programmaticamente fa un Beethoven di antica scuola), piuttosto di quello di Abbado. Ma poi, ad un certo punto – mettendo da parte i “furori ideologici” e i preconcetti (quelli che fan gridare “al baroccaro” ogni volta che nell’orchestra non risuona il vibrato bruckneriano) – bisognerebbe prendere in mano queste partiture e notare, ad esempio, come non sia scritto da nessuna parte che gli archi debbano essere numerosi come una legione romana e che nel loro vibrato (all’epoca considerato ancora un “abbellimento” e non il solo modo di emettere il suono) debba affogare tutto il resto… Andrebbe considerato, prima o poi, che l’orchestra per cui scriveva Beethoven (e che suonava in spazi del tutto analoghi a quelli odierni, intendiamoci) aveva una composizione più equilibrata nel rapporto tra archi e fiati. Non parlo poi del metronomo e del progressivo rallentamento che ha subito nei primi anni del secolo XX, ad opera delle forche caudine dei sedicenti custodi dell’ortodossia europea. Anche perché basta attraversare l’oceano o scavalcare l’ex cortina di ferro, per ascoltare interpretazioni più libere e meno preoccupate nel dover tener conto di una presunta correttezza ortodossa.
Tutto questo per dire – e concludo – che non si può pensare al proprio gusto come unico metro di giudizio e considerare ciò che se ne discosta come tradimento della Tradizione o errore…né come squallida scappatoia. Confesso di essere un po’ infastidito di leggere sempre che una qualche esecuzione faccia schifo per il sol fatto di non essere una replica o perché Mitropoulos, ad esempio, la faceva diversamente etc… Davvero si pensa che quelli avessero “sempre ragione” (un vero culto della personalità…roba da ventennio)? Davvero l’unica cosa che conta è il numero di orchestrali e la gara a chi fa più lento? E dove’è la libertà di far musica in tutto ciò?
Il problema del Beethoven di Barenboim non è il quello di non assomigliare a Furtwaengler (e per fortuna: siamo nel 2011 e sai che palle andare ad ascoltare un’esecuzione fotocopia di una degli anni ’50), ma quello di essere sgradevole.
Io invece interpreto l’articolo di Donzelli in un altro modo; Donzelli poi mi dirà se ho ragione. In realtà nell’articolo non si dice che al di fuori di Furtwaengler non ci sia salvezza. Si dice semmai che Barenboim si rfà all’ottica di Furtwaengler, un’ottica a mio parere perfettamente “giusta” anche se, e proprio per questo, non è l’unica possibile; e tuttavia non riesce a mantenersi a quel livello, per ragioni sia tecniche che intepretative. Per quanto poi riguarda il modo “mozartiano” di eseguire il primo Beethoven, in questo dissento da Donzelli; non si tratta di un’esigenza di cassetta o di consumo, ma di un modo assolutamente legittimo di procedere, con assolute dignità e nobiltà interpretative. Soltanto che non si tratta di una conquista degli ultimi anni, di Abbado o di Zinman. Questo modo, a quanto so, è sempre esistito, accanto alla scuola di impronta romantica e titanica. Accanto a Furtwaengler e Knappertsbusch brillano di luce intensissima di i nomi di Fricsay, di Krauss, del Karajan degli esordi.
Marco Ninci
Esatto: non è certo invenzione di Abbado o dei presunti “baroccari”…a meno di considerare con tale termine anche Fricsay o Krauss
Sottoscrivo appieno . Non ho avuto il coraggio di andare ad ascoltare il concerto in questione, dopo la sgangherata inaugurazione della Stagione Filarmonica di qualche giorno prima. Per rimanere in ambito scaligero, e in tempi più recenti, come non rimpiangere Giulini e Abbado? Certo che, considerando il pauroso declino verso il quale stanno scivolando l’orchestra e il coro scaligeri, come non rimpiangere anche Muti? Già ma i maestri dell’orchestra l’hanno cacciato …..non si saranno tirati la zappa sui piedi?
Caro Billy Budd…io Muti lo sto rimpiangendo già da un pezzo….ma avremo modo di parlarne!
Per me, la “Filarmonica della Scala” è sempre stata una beffa d’invenzione e un giocattolo dell’orchestra del Teatro per giocare con soldi e orari all’interno del teatro – per non parlare di mettere più soldi nella tasca del direttore di turno. Qualità sempre bassa, sin dagli inizi lontani…
Su questo non sono d’accordo: quando nacque – per volere di Abbado – e poi nell’era Muti, la Filarmonica della Scala, pur non arrivando alle eccellenze europee, ha degnamente svolto il suo compito. Ricordo che negli anni ’80 contribuì alla diffusione di Mahler (fino ad allora mai eseguito alla Scala, salvo la Seconda diretta da Mitropoulos 20 anni prima e un’altro paio di concerti sparsi). Grazie ad Abbado, poi, c’è stato un notevole svecchiamento di repertorio, mentre con Muti un rinnovato interesse ad una visione più classica.
Ninci e Duprez, quell’aggettivo “mozartiano” esprime un mio parere personale riguardo a questo modo di eseguire Beethoven che ovviamente non approvo. Il primo Beethoven è molto rischioso proprio perchè si situa costantemente tra il tardo neoclassicismo e il primo romanticismo tedesco senza stare né con uno né con l’altro.
Abbado, dal mio punto di vista, ha colto molto bene (e parlo non solo delle prime sinfonie, ma anche dei primi concerti per pf) questa complessità riuscendo a eseguire un Beethoven giovane in perfetto equilibrio tra le due epoche.
Io, com’è noto, contesto il presunto romanticismo di un compositore che ESPRESSAMENTE si dichiarava antiromantico, che riteneva degni d’ascolto – tra i suoi contemporanei – solo Cherubini e Clementi (e il classicissimo Schubert), che disprezzava l’opera italiana e che aveva come nume tutelare solo Handel (a cui si ispira direttamente per la Missa Solemnis, per la Nona, per le Diabelli, per le ultime Bagatelle e almeno la sonata n. 32). Proprio i rapporti – strettissimi – tra Beethoven e Handel (nel modo di armonizzare, nelle invenzioni melodiche e nelle strutture contrappuntistiche) dovrebbe togliere ogni dubbio in merito… Circa l’approccio “mozartiano” (legittimo e plausibilissimo), non si tratta di “approvarlo” o “non approvarlo”, ma di mero gusto personale. Comunque mi piacerebbe sapere dove e come Beethoven possa essere considerato un compositore “romantico”….come Schumann o Berlioz…
Qui nessuno sta considerando B. un compositore romanitco. Io per primo. Ma non si può neanche considerare un compositore vicino a Haydn & co.
C’è di buono, Duprez, che almeno le “rigonfiature” di Furtwangler erano inserite in uno schema interpretativo ferreo con esiti straordinari. Magari, si può criticare l’approccio eccessivamente “”””romantico”””” ma resta un B. tra i migliori di quelli testimoniati dal disco.
Beethoven è – anche cronologicamente – più vicino a Haydn e all’ultimo Mozart piuttosto che a Bruckner… Sul Beethoven di Furtwaengler, però, non concordo: tu lo ritieni tra i migliori testimoniati dal disco, per me non è così… Il fatto, però, non è quello che piace a me o a te, è il discorso per cui un certo approccio (come sappiamo frutto di scelte e visioni “di parte”) viene da certuni considerato “dogma”, mentre tutto ciò che se ne discosta è liquidato come eresia, squallido commercio o porcheria. Questo è inaccettabile.
Ps: il Beethoven di Barenboim è proprio figlio (magari illegittimo) di queste rigonfiature romantiche…
Due caratteristiche del Beethoven di Furtwaengler sono oggi improponibili : le orchestre “gonfiate” e i tempi esasperantemente lenti, ma non credo ( o spero) che Baremboim voglia seguire sempre questo tipo di interpretazione. Quello che gli manca e’, forse , un modo originale di proporre Beethoven, mi spiego con 2 esempi: spero che qualcuno di voi abbia udito al Regio di Torino l’ntegrale delle sinfonie beethoveniane dirette da Noseda, ora a parte le numerose osservazioni che si potrebbero fare, il direttore ha connotato la sua interpretazione sull’esaltazione del ritmo e la capacita’ di esaltare i vari gruppi strumentali .Opinabile? certo, ma agli antipodi dalle interpretazionei “romantiche”. Altro esempio che appartiene al passato: Scherchen il quale, anche se mai con orchestre all’altezza riesce sempre , nelle direzione delle sinfonie beethoveniane a dare una impronta inconfondibile (sentire la registraziione delle prove…).Quanto al Don Giovanni di Baremboim spero non perda cio’ che fece nell’incisione del 1990 , anche se l’interpretazione era “romantica” (ma in quegli anni era contro-corrente…)
Il problema di Barenboim è la riproposizione sterile – senza neppure saper ben padroneggiare i “ferri del mestiere” – del Beethoven com’era concepito a cavallo degli anni ’50! Paradossalmente – e a differenza di quanto è detto nella recensione (che per il resto è assolutamente condivisibile) – il problema di Barenboim è il rapporto a Furtwangler: le repliche sanno sempre di “minestra riscaldata”…a meno di mascherarle (come fa Thielemann) con esecuzioni perfette!
Caro Donzelli,
ho la sensazione che (omissis)
Caro Capriccio, Domenico Donzelli e Manuel Garcia sono persone differenti…ed entrambe hanno il pieno diritto di contestare Barenboim e il suo modo di dirigere (come tu, ugualmente, hai il diritto di gradire o contestare a tua volta).
Non pensavo che “delirio d’onnipotenza” fosse offensivo , in quanto scritto con molta,molta ironia. Ma certo l’ironia non è una peculiarità dei grisini, che gradiscono molto di più gli “yes men” piangenti e lamentosi e sempre inc..(come del resto,guarda caso, il delirante d’onnipotenza caduto iersera alle 21.05 dalle parti di un colle). Suvvia, era meglio il nome di un direttore. magari uno di quelli poco noti a me(e magari sono tanti) che dirigeva alla fine dell’ottocento o all’inizio del 900!
Con tanto affetto, caro Duprez.Cap.
Caro Capriccio…ho solo messo l’omissis perché il discorso si basava su un assunto errato: effettivamente si tratta di due persone differenti. Nessuna mancanza di ironia, credimi, volevo solo evitare che invece di parlare di Beethoven si trasformasse la discussione in uno sterile battibecco.
Io penso che “romantica” in Beethoven sia la sua visione cosmica della Natura come entità suprema che tutto placa e a cui tutto ritorna (la Patorale, ovviamente, ma anche il coro dei prigionieri nel Fidelio e la sublime ultima Sonata…)
Io nella Pastorale sento più che altro la rappresentazione di una natura in senso leopardiano, lontana sia dall’idillio settecentesco, sia dal gusto dell’orrido e del sublime tipico delle vertigini romantiche. Nel coro di Fidelio leggo, invece, la prosecuzione di quegli ideali illuministici e kantiani che hanno al centro del loro interesse la dignità degli uomini (oppresso dal sonno della ragione e dall’allontanamento dall’etica e dai valori della civiltà fondata sul Diritto): peraltro è evidente l’ispirazione handeliana nelle forme. Infine l’ultima sonata proprio di romantico e di sublime non ha nulla, piuttosto appare come un recupero del classicismo settecentesco, della razionalità bachiana slanciata – come un ponte – verso il futuro (Stravinskij, Bartok e persino il jazz).
Non sono d’accordo. E’ risaputo che, in modo quasi medianico, Beethoven anticipi nell’ultima Sonata alcune “follie” del Jazz. Ma non è quello il punto. Credo che in tutta la storia della musica a nessun compositore sia riuscito, come a Beethoven nel secondo movimento di quella Sonata, di evocare l’al di là (mi sia concessa l’enfasi) . Che poi questo ci consenta di definirlo romantico, illuminista o buddsita, forse non ha importanza. Fondamentalmente Beethoven è sopra a qualunque tentativo di catalogazione. Come Shakespeare, Leonardo e pochi altri…
*subilme era un mio modesto “giudizio di merito”
Ma allora perché costringerlo nelle catene del romanticismo?
Hai ragione Duprez , il problema è che quando un artista si accinge a interpretare deve pur scegliere un taglio esecutivo. Hai presente quali abissi (termine molto romantico) separano l’interpretzione della 111 di Backhaus da quella di Schnabel ? La soluzione sarebbe forse rigore classico unito a furori romantici. Circoscrivendo il discorso al melodramma:la Callas e Mitropoulos (due greci nel Fidelio!) La menata del Beethoven “mozartiano” è solo una trovata furbetta. Fricsay (che pure in Mozart amo molto) nel Fidelio è smorto, senza scatto e pare intimidito. Ovviamente, scivolare nel “dramma musicale” sarebbe comunque un errore.
Ma perché definisci “furbata” la lettura mozartiana? Sarebbe come definire “porcata” la lettura di Furtwangler. Entrambe idiozie. Che poi – a ben guardare – la vera “furbata” è la riproduzione del Beethoven romantico e gonfiato, che tanto piace ai pubblici (come le esecuzioni di Thielemann). A me il discorso “definitorio”, l’ansia di catalogare, non emoziona per niente: mi interessa il modo in cui si fa musica e il risultato finale. Io faccio fatica a comprendere certe intransigenze e certi intransigenti per cui ciò che risponde al proprio gusto (il Beethoven romanticizzato) è “giusto”, e ciò che non piace diventa “sbagliato” e “scorretto” o “furbo” (la lettura più mozartiana), invocando magari fantomatici “ascolti riparatorio” (ma riparazione di che???). Io rivendico la libertà di eseguire la musica aldilà di condizionamenti o culti della personalità, vuoti e fideistici! Ti faccio notare che il dogmatismo e l’attaccamento ad una presunta ortodossia è identico all’atteggiamento degli estremisti del barocco per i quali l’unico modo di suonare è il loro… Che a te non piaccia Fricsay o Krauss, che tu preferisca Furtwangler o Mitropoulos o Walter, rileva solo per il tuo gusto, non può e non deve essere requisito necessario e sufficiente per attribuire a questa o quella interpretazione il crisma della correttezza o l’ignominia dell’errore.
Non mi interessa farti cambiare opinione (tu preferirai sempre un certo Beethoven e io un altro), mi preme solo far notare che i tuoi gusti e i miei non hanno pretese di verità assolute.
Vorrei dire a Massimo Fazzari che i tempi lenti di Furtwaengler sono una caratteristica che appartiene soltanto agli ultimissimi tempi dell’attività del Maestro. Se si ascoltano invece le registrazioni effettuate durante le guerra, i tempi divengono strettissimi, forse i più stretti dell’intera storia dell’interpretazione beethoveniana. E le orchestre non sono affatto gonfiate; hanno invece un suono scabro, quasi povero, privo di qualsiasi belluria. E’ che ad una simile altezza interpretativa gli atteggiamenti possono trascolorare; è difficile imprigionare in un atteggiamento unico colui che è stato uno dei massimi geni della bacchetta, probabilmente il massimo genio della bacchetta. E’ come con Klemperer. Sempre si notano i suoi tempi lenti, quando invece prima dell’approdo londinese i tempi di Klemperer erano velocissimi.
Marco Ninci
Il problema, in effetti, è la generalizzazione: l’ansia di catalogare e definire. Forse una maggiore libertà nella fruizione della musica, senza fisime di correttezza o rispetto di illusorie ortodossie (di fronte al sacrosanto diritto di un interprete di “interpretare” e trasmettere la sua visione), sarebbe una buona regola. Per me un’interpretazione è scorretta quando ci sono stonature, errori tecnici, attacchi sbagliati etc… non certo quando il direttore sceglie una strada interpretativa: in caso contrario basterebbe un computer e non un’orchestra composta da esseri umani… Ripeto, poco mi interessa che un direttore abbia in Beethoven un approccio romantico o mozartiano (certo soddisferà o meno un gusto, tutto qui), mi importa che quel che fa sia convincente e coinvolgente.
non capisco perché si debba avere un approccio mozartiano o romantico… non capisco neanche cosa vogliano dire questi discorsi… se vado a sentire beethoven, gradirei semplicemente un approccio… beethoveniano… si può? l’interprete per me non ha il diritto di interpretare, ha invece il dovere di farmi sentire com’è quella musica, se ne è capace.
Fare musica significa interpretare, altrimenti basterebbe un programma del computer che si limitasse a “riprodurre” la pagina scritta. La musica, se non si esegue, non esiste, e per eseguirla è necessario fare alcune scelte. Come diceva Horowitz la musica si trova dietro le note…
fare scelte in base a criteri musicali obiettivi, questo è il lavoro di chi fa musica. altrimenti è il trionfo dell’arbitrio…
Credo che l’unico criterio oggettivo sia la correttezza tecnica…il resto è per forza relativo, a cominciare dalla scelta dei tempi. Mi meraviglia sentire da te, ammiratore di Celibidache, la difesa del rispetto di criteri oggettivi. Atteso che non possono essere individuati (e quali sarebbero? La prassi autentica? Gli strumenti antichi? I metronomi originali? L’auctoritas di tradizioni più o meno illustri?) sarebbero comunque relativi, dato che, per essere applicati, passano per la sensibilità di un musicista. L’interpretazione è necessariamente relativa.
Come diceva il grande Bach, il tempo di un brano è insito nelle note, nella scrittura del brano stesso. Il tempo si sceglie, poi, in base alle dimensioni dell’orchestra, e all’acustica del luogo in cui si fa musica (se l’acustica è lenta, il tempo dovrà adeguarsi ad essa, se è molto secca, il tempo dovrà essere più rapido… altrimenti l’ascolto sarà incomprensibile). Son questi i criteri per fare musica. Ma prima di tutto l’analisi del brano. La sensibilità è utile ma non si fa musica solo con il talento. Quanto alla correttezza tecnica, se dovessimo considerare questo l’unico parametro oggettivo, ce ne sarebbero davvero pochi di direttori che potrebbero salvarsi, attesa l’inconsistenza e l’approssimazione del loro gesticolare, senza contare che un’analisi tecnica, vuoi sull’emissione di un cantante o vuoi sul gesto di un direttore, è qualcosa che, per forza di cose, attiene solo agli addetti ai lavori (o perlomeno a chi pratica e possiede in prima persona quell’arte).
La questione delle dimensioni andrebbe assai “ridimensionata” (all’epoca gli spazi non erano diversi da quelli odierni: la Scala – ad esempio – era così anche nel XVIII secolo).
Non capisco, però, l’ansia di individuare – per l’ascoltatore – criteri oggettivi di interpretazione. L’estrema lentezza di Celibidache (prendi ad esempio il suo Requiem mozartiano) dipende esclusivamente da scelte interpretative “ideologiche”, non certo dal tipo di luogo o di orchestra. Scelte legittime che possono piacere o non piacere, ma che non sono “corrette” o “scorrette”. Con spazi analoghi e orchestre analoghe, Bernstein o Fricsay o Bohm operavano scelte opposte.
Ma infatti l’ascoltatore dovrebbe solo ascoltare e, se l’esecutore glielo permette, assaporare la musica. La critica musicale è nella migliore delle ipotesi un passatempo, più spesso è giornalismo, più spesso ancora è solo… servilismo… in ogni caso non ha niente a che vedere con la musica. Per il resto non ho mai ascoltato nessuno di questi direttori, eccetto nelle registrazioni… quindi non sono in grado di fare commenti, o comunque i miei giudizi avrebbero ben poco significato. Dico solo che affermare che Celibidache è “lento”, implica la domanda, “lento rispetto a cosa o a chi”? Chi dice che non siano gli altri ad essere troppo veloci?
Completamente d’accordo: “lento” e “veloce” rispetto a cosa o a chi? Ma così torni dalla mia parte e al legittimo relativismo di ogni interpretazione. Alla fine ogni discussione teorica – come sempre – si scontra con la realtà della fruizione e della comunicazione. Quando ascolto il Mozart della Pires (ad esempio), o le ultime interpretazioni mahleriane di Abbado, o certo Beethoven di Chailly o il Brahms di Zinman (di fresco pubblicato) o anche di Gardiner, non mi pongo problemi di individuazione di prassi “corretta” né faccio la contabilità dei minuti in più o in meno rispetto a Furtwangler o a Mitropoulos, cerco, semplicemente, di comprendere quello che il musicista mi vuole comunicare se è in grado di comunicarlo.
Ma il punto è che la correttezza di un tempo può esser valutata solo nell’ascolto dal vivo. Il tempo in ogni caso non deve essere scelto a caso… Il che non significa che ci sia solo un tempo corretto… Ma questi problemi di confronto, ce li possiamo porre solo perché esistono i dischi.
Io credo che il disco sia più che sufficiente: lo reputo uno strumento irrinunciabile. Non credo che è che per “accorgersi” che una certa interpretazione piaccia o non piaccia, sia necessario l’ascolto dal vivo. Non capisco – in tal senso – il rifiuto di Celibidache: la trovo una posizione esclusivamente ideologica. Una specie di presunzione snobistica e assai ben calibrata, per fare di sé stesso un oggetto di culto. Penso che la musica non abbia bisogno di “santoni” (e talvolta Celibidache si è presentato per tale), ma di musicisti veri .
la musica si fa e si ascolta sul momento… nasce e muore lì. il disco ne vìola l’essenza, una sinfonia non si può ascoltare in camera da letto o in sala da bagno… il disco non è musica.
Con rispetto parlando: queste sono le fisime di Celibidache…è solo filosofia.
non sono affatto d’accordo. Il disco è la riduzione della musica ad oggetto commerciabile, questo è. Ha valore documentario, divulgativo, sì… ma l’ascolto vero è quello dal vivo, che è unico ed irripetibile, e pertanto sempre diverso. Il disco ci ha abituati ad una ad una ripetitività che non ha niente di musicale. Andiamo a teatro e non riusciamo ad ascoltare senza avere nella testa il modello che ci viene dato dal disco. Certo siamo tutti figli del disco, ormai…
ti prego: evitiamo questa piega…è solo cattiva filosofia e letteratura. Peraltro chi sosteneva tali cose è diventato uno dei maggiori fenomeni discografici degli ultimi anni. E non sono certo che la sua ascetica intangibilità fosse così sincera (o piuttosto un veicolo per far aumentare le proprie quotazioni di mercato).
scusami, ma queste storie non mi interessano. sto dicendo che la musica si ascolta dal vivo, il disco non è un ascolto autentico. non ci trovo niente di filosofico o ascetico, è un discorso pratico.
Il disco è uno strumento esattamente come il libro o lo spartito…secondo il tuo ragionamento “leggere” un libro, quindi, è un’attività poco utile per comprendere il senso di quel che c’è scritto…?
eh no, Duprez… l’analogia non regge, e lo sai bene anche tu. ci serviamo tutti del disco, ha divulgato il repertorio, ci documenta il passato… ma la musica è fatta per essere ascoltata dal vivo, è sempre stato così. il paragone con il libro e lo spartito non c’entra niente.
L’analogia è un po’ forzata, ma il senso rimane: la riproduzione su disco non cambia un’esecuzione, né la percezione della stessa (fatti salvi i requisiti tecnici). Nell’ascolto dal vivo entrano in gioco determinati fattori (emotivi) differenti da quelli sollecitati da un ascolto più “casalingo”…ma si tratta pur sempre dello stesso ambito fruitivo. E’ come leggere l’Amleto o vederlo a teatro o vederlo in compact disc: sono azioni differenti (con diversi livelli di coinvolgimento), ma rendono fruibile ugualmente un certo dato artistico…non vedo gerarchie tra di loro.
scusami Duprez, ma questa è fisica. la percezione dal teatro al disco cambia completamente! cambia il luogo, cambia la sorgente! è come guardare una fotografia! può farti un’idea di cosa si tratta, ma non vedi davvero con i tuoi occhi l’oggetto in questione.
E quindi? Se io vedo una fotografia di una montagna o, quella montagna, la vedo dal vivo, sempre di quella montagna si tratta…
direi che ci siamo già chiariti abbastanza.
E abbiamo a che fare con un’orchestra certo non eccelsa…
http://www.youtube.com/watch?v=rIzK7RDPUtk
E’ una strana fissazione questa dell’interpretazione oggettiva. Naturalmente si tratta di un concetto privo di ogni fondamento. Le interpretazioni oggettive non esistono in nessun campo. Non nella critica letteraria, non in quella artistica, non nell’economia politica, non nella storia della filosofia. I fatti stessi, accertati, accertatissimi, cambiano completamente di significato a seconda che si vedano sotto una luce o sotto un’altra. Per tornare a ciò che ci circonda in questo momento. La scelta di un governo che prenda decisioni dolorose a questo punto è obbligata. Ma non c’è nulla di oggettivo in questo. A monte ci sono decisioni politiche, che sono quanto di meno oggettivo esista. La scelta di realizzare una globalizzazione priva di vincoli, in cui si consentiva lo spostamento e l’impiego dei capitali senza imporre loro alcuna tassa, ha portato a questi risultati; il che equivale a far passare in mani private enormi risorse, sottraendole ad ogni impegno di redistribuzione. Con questo risultato. L’amministratore delegato della Fiat negli anni Cinquanta guadagnava cinquanta volte più di un operaio, adesso guadagna mille volte di più. Che c’è di oggettivo in questo? Lo stessimo caso è quello dell’interpretazione musicale. Ci sono alcune cose fondamentali che devono essere rispettate. Ma poi? Che vuol dire l’analisi del brano? Lo si può analizzare in cento modi diversi, tutti legittimi. C’è un modo solo di leggere la “Commedia”? Via, Mancini, queste cose sono indegne di te…Ti trovo molto ferrato in tema di tecnica vocale, ma appena ne esci per trattare di temi generali zoppichi un po’.
Marco Ninci
No, Ninci, io non parlo di interpretazione oggettiva…. anzi, io respingo del tutto l’uso della parola “interpretazione”. Per me non c’è niente di interpretabile in musica, l’interpretazione è arbitraria per definizione, e quindi non ascolto la musica ma ascolto Muti, Abbado, ascolto Gould, ascolto Battistini… il che è solo feticismo. Lo studio della teoria musicale dovrebbe consentire ai musicisti di ancorarsi a qualcosa di più consistente della loro “sensibilità interpretativa”, delle loro “emozioni”… ma mi rendo conto, caro Ninci, che per te sentir parlare di oggettività e di verità, di perfezione dell’arte, è come sentir bestemmiare. Peraltro, o si parla di cose obiettive, oppure si parla di aria fritta.
L’arte non è oggettiva per definizione, suvvia… Permettimi di dire che la tua è una posizione ben grigia e triste: da burocrate. Se l’arte rispondesse a parametri, e non contemplasse l’individualità, allora neppure esisterebbe. E’ un approccio dogmatico e teorico volto a privilegiare il manuale del “come si fa” piuttosto che l’opera in sé. E’ come dire che un uomo esiste solo se è scritto nel certificato di nascita.
quale definizione?
Perché l’arte non risponde a principi manualistici oggettivi, ma allo sforzo creativo dell’individuo. Proprio perché non oggettiva non può essere definita, se non come “concetto aperto”…ma tutta questa nostra discussione non ha nessun senso rispetto alla mera fruizione e gradimento della musica: non è certo necessario interrogarsi sui massimi sistemi, su Celibidache, sul senso ultimo dell’arte per farmi gradire o meno un’interpretazione musicale.
Nell’arte non c’è solo il “mi piace/non mi piace”… nell’arte ci sono delle regole. Kaufmann, Villazon, la Bartoli, e tanti altri, a loro modo sono molto creativi, ma artisticamente sono il nulla.
Quella è tecnica, che è altro discorso.
Leggo con piacere questa discussione, sebbene molto complessa.
Personalmente credo in un giudizio generale basato su un giudizio emotivo o “soggettivo” (la libera espressione di giudizio personale dell’ascoltatore, ossia il suo “Mi piace” o “Non mi piace” di pancia) ed un giudizio tecnico o “il meno possibile soggettivo = oggettivo”.
Scusate se non vi cito (si senta compreso chi l’ha già detto) ma sono pienamente d’accordo che il giudizio tecnico si basi su un giudizio di correttezza, e vorrei aggiungere per quanto riguarda la musica vocale che la correttezza possa essere di tante cose: riassumo però in correttezza di stile e correttezza di espressione. Faccio subito esempi. Prendiamo il “O cessate di piagarmi” di Scarlatti cantato da Beniamino Gigli: http://www.youtube.com/watch?v=mG4GbW-2hW8 Scarlatti è un compositore operante a cavallo del ‘700, quindi un compositore barocco. Rispetto ad altri compositori fu fortunato in quanto molte arie/canzoni/canzonette etc delle sue opere furono tramandate attraverso le raccolte settecentesche e ottocentesche di arie antiche: “O cessate di piagarmi” viene dal suo Pompeo. Comunque, Gigli propone una interpretazione parca e contenuta del dolore, e a sua interpretazione molto intimistica e personale (un’altra interpretazione potrebbe essere immaginare di cantare il testo all’amata che lo disdegna – più scenico – quindi non sono assolutamente d’accordo con Mancini sul fatto che un cantante o musicista non possa interpretare) certamente in stile interpretativo corretto: sarebbe impensabile stilisticamente sbraitare oppure piagnucolare il testo. Se poi uno lo interpreta così, sono affari suoi, e può piacere di certo o meno, ma sicuramente non è in stile. Stilisticamente, Gigli omette la variazione della ripetizione, nella parte più “recitativa” (Luci ingrate dispietate) non esegue appoggiature sulle sillabe toniche (che in spartito non venivano segnate ma che il cantante eseguiva) però la parola è padrona del brano e da meraviglioso vocalista ed interprete quale è, ci sono dei rallentando o accelerando corretti. Quindi, in un giudizio generale, il brano è cantato vocalmente benissimo e stilisticamente con qualche incorrettezza, che tuttavia a mio vedere non toglie bellezza al brano stesso.
Prendiamo invece Bergonzi in “Danza Fanciulla” sempre di Scarlatti http://www.youtube.com/watch?v=tdOJY_E63ww
Interpretativamente Bergonzi scegli di marcare molto le parole e secondo me troppo perché in certi punti ogni sillaba ha la stessa importanza di sillabe toniche, oppure in zone un po’ più languide dove magari un legato renderebbe meglio. Stilisticamente, ho molte riserve: a parte il già detto ritmo strettissimo che diventa metronimico, in certi punti per motivi espressivi il testo non ha molto senso o io non sento che il testo viva attraverso la voce, allargando o stringendo alla bisogna come Gigli prima. Ci sono poi una serie di abbellimenti che Bergonzi non fa come i trilli segnati (che nel barocco sono con una appoggiatura iniziale, e quindi diventa un trillo sul tono o semitono discendente invece che ascendente – fonte Bach) e le solite appoggiature dette di prima.
Non una interpretazione che mi piaccia devo dire e ho molte remore sullo stile (vocalmente indiscutibile come sempre).
Questo per dire che avendo pur una paletta infinita di possibilità, ci sono a mio vedere dei motivi di correttezza che sono ben più importanti dei motivi personali di un interprete. Pur tuttavia, non esiste ovviamente UN solo modo ed unico di fare le cose corrette ma tanti, per esempio variare in punti diversi con variazioni comunque corrette ed in stile. Anche interpretare si può fare correttamente o meno (sbagliare per esempio una lettura) però all’interno di ogni interpretazione ogni cantante (in questo caso) ci mette le sue particolari sfumature, che saranno diverse da altri a meno di macchine ripetitrici.
Facendo un parallelo linguistico, a mio vedere dire che non esiste un modo corretto di fare musica vocale è come dire che date le 4 parole C’ERA UN SOLE BELLO, si possano scrivere C’ERA UN SOLE BELLO – C’ERA UN BELLO SOLE – C’ERA SOLE UN BELLO – C’ERA BELLO UN SOLE – C’ERA BELLO SOLE UN – SOLE UN BELLO C’ERA etc etc (in tutte le possibili combinazioni) e dire che non esista l’interpretazione personale significa non capire le sfumature tra le frasi C’ERA UN SOLE BELLO, C’ERA UN BEL SOLE, UN BEL SOLE C’ERA, UN SOLE BELLO C’ERA.
Però Papageno, qui non si parla di canto (grazie al cielo) né di tecnica, ma di interpretazione…
Infatti, parafraso sempre con la linguistica: la tecnica è saper creare un discorso coerente e logico; interpretare è dare la sfumatura a tale discorso ( riuscire a piegare le parole al proprio sentimento per renderlo manifesto).
Come diceva il mio carissimo e mai conosciuto, ma tanto letto e amato, Oswald Mathias Ungers (architetto e teorico): le regole non sono degli impedimenti ma dei filtri per giustificare le proprie tesi (parafrasando). Il linguaggio è un limite stesso perché dobbiamo piegare il nostro pensiero e sentimenti al linguaggio, ciò nonostante ha delle potenzialità infinite; non vedo perché l’interpretazione musicale non possa avere delle regole (di stile o di sentimento – azzeccare il carattere) pur mantenendo un ventaglio amplissimo di interpretazioni.
A meno che la musica sinfonica non sia discorso a parte da quel che faccio, ma non mi sembra si discosti molto: può essere che mi sbagli.
E quindi? Quando ascolti, Mancini, uno dei tuoi amati cantanti degli anni dieci e venti, ascolti un feticcio? Al modo in cui baci la pantofola di una persona che ami o al modo di quei ballettomani russi che, lo racconta Fedele D’Amico, ad un banchetto bollirono e mangiarono le scarpine di Maria Taglioni? L’obiettività è un concetto inesistente. Qualunque attività parte da un punto di vista soggettivo, che coinvolge l’oggetto e lo modifica. Se io studio un filosofo, ci vedrò sempre alcune cose che lui non sospettava nemmeno. L’oggetto come è in sé per noi è completamente irraggiungibile.
Marco Ninci
beh sì Ninci… non ho difficoltà ad ammetterlo. Sono solo cimeli, che io trovo affascinanti, interessanti… ma restano solo cimeli. Ci si può ragionare sopra, si può studiarli per capirne la tecnica… ma non li ascolto mai come ascolterei un vero concerto di canto in teatro…. questo non è possibile.
si parla di arte Ninci, non di studi universitari… è impossibile affermare che non ci sia niente di obiettivo ed universale, in un cantante che fa impazzire di applausi un intero teatro, o in un direttore che cattura e infiamma l’attenzione di tutto il suo pubblico. Esiste una soggettività universale, mettiamola così. Altrimenti non avrebbe alcun senso mettersi a discutere di musica, ci sarebbe solo incomunicabilità tra diversi pareri del tutto soggettivi.
Sono d’accordo con Ninci: l’oggetto in sé è per noi irraggiungibile. Io dico pure che neppure vale la pena sforzarsi di raggiungerlo, poiché credo – alla fine – che sia null’altro che un’astrazione metafisica…
Caro Mancini, io penso che ci sia un dialogo fra vari punti di vista, condivisi da una maggioranza più o meno grande. E poi, tornando al tuo discorso sulla sensibilità da una parte, lo studio della teoria musicale dall’altra, credi davvero che, nel momento in cui studi la teoria musicale, tu metta da parte la sensibilità? Non penso che tu lo creda. Un elemento affettivo c’è sempre, che ci condiziona nelle scelte e perfino nell’analisi. Lo vedo in quello che faccio. Mi rendo conto che le cose migliori che ho fatto erano quelle in cui certe tematiche rispondevano a interessi profondi, anche personali. Come un’affinità che fa andare più a fondo nella ricerca. La mia grande stima per il Maestro Muti, stima che tutti qui conoscete, si basa anche su rispondenze profonde, che ovviamente non possono essere condivise. Io credo che queste rispondenze facciano andare avanti nella comprensione e che senza di loro si finisca col non capire nulla, barcamenadosi in una distanza futile e in un’oggettività che non è nulla più di un miraggio.
Marco Ninci
ok… ma davanti, che so, ad una fuga di Bach, in cui non è presente nemmeno un’indicazione di tempo, un segno dinamico, espressivo…. niente, solo le note, davanti ad un brano simile, il musicista cosa deve fare? Scimmiottare l’esecuzione ascoltata sul disco? Ne converrete, no. Basarsi solo sull’intuito? E l’intuito su cosa si basa? Non è la musica stessa a contenere, dentro di sé, tutte le soluzioni? E allora, bisognerà conoscere la musica… solfeggio, armonia, composizione… l’analisi del brano serve a comprenderne la struttura, serve a capire perché il compositore ha scritto così e non in un altro modo. Solo allora l’esecutore potrà esplicitare il discorso musicale che lo spartito sottende. Questo si tratta di fare. E nella pratica, c’è pochissimo spazio per gli arbitrii. In genere l’arbitrio deriva solo dall’ignoranza.
Proprio di fronte ad una scrittura del genere l’interprete è più sollecitato a trovare una via interpretativa! Altrimenti non sarebbe più musica, ma funzioni matematiche. E non è accettabile. Ma assecondando il tuo assunto di fronte ad una fuga di Bach o a un concerto o a una sinfonia o a un aria tripartita, senza segni espressivi, senza dinamica o altre indicazioni…che dovrebbe fare l’interprete? Eseguire come un robot quel che c’è scritto oppure esprimere, attraverso l’esecuzione, quello che il brano gli comunica (e vuol comunicare a noi)? Io non credo che tu possa accontentarti della meccanica esecutiva, della mera tecnica che è nulla se non accompagnata ad un significato! Il limite di queste costruzioni teoriche è nella pratica. Ripeto è un modo triste di vivere la musica preoccuparsi unicamente di regole e teorie, di oggettività, di negazione dell’interpretazione. Anzi, è la morte della musica a favore di una sapienza da accademici: inutile e grigia.
L’ho detto cosa deve fare il musicista, trovare da sé nel brano tutte le soluzioni di fraseggio, le dinamiche, gli accenti, il tempo, studiando come si sviluppa quel brano, analizzandone le cellule tematiche, le modulazioni armoniche, la struttura nel complesso… Considero la storiella dell’interpretazione solo un inganno. In arte non esiste la soggettività. E non ho altro da dire, la penso così, voi la pensate diversamente. Amen.
Che equivale a dire è così perché è così…Amen te l’avrà detto il tuo dio…ne prendiamo atto.
No, equivale a dire che di quel che vogliono comunicarmi i direttori non me ne faccio niente. Della loro soggettività non mi interessa niente, ci sputo sopra. Voglio la musica, che fiorisce solo laddove vengano messe da parte queste pretese narcisistiche di comunicare al pubblico la propria soggettività (e che me frega della soggettività di questo o quel pallone gonfiato? niente! puh!).
Cioè la Patetica eseguita da Bernstein sarebbe equivalente a quella eseguita da qualunque routinier purchè corretto e fedele al segno scritto?
E la “Furtiva lacrima” di Schipa equivalente a quella di Gianni Raimondi ?
no… ogni esecuzione è unica, ho già detto. Non ho mai parlato di fedeltà al segno scritto… ho fatto anzi esempi di musica in cui di segni scritti non ce ne sono affatto, eccetto le note… sarebbe il caso di leggere e capire bene prima di intervenire…
Caro Mancini, piantiamola lì. Quello che non capisci è che, mentre invochi l’oggettività, la invochi da soggetto che ha un suo punto di vista. Invocandola, la neghi. Ma questo è ovvio. E non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. E’ come chi non capisce che teorizzare la fine delle ideologie non significa inaugurare il predominio dei fatti, ma costruire un’altra ideologia, per tanti aspetti ancora peggiore di quelle di cui si proclama la morte. Buon viaggio nel Medioevo.
Marco Ninci
Trovo anche io molto triste (parlo personalmente) la visione della musica di Mancini, che sembra più riferirsi ad una Musica personificata medievale piuttosto che ad una pratica umanissima di espressione di sentimenti (come si fa ad esprimere un sentimento attraverso la musica senza avere una soggettività che recepisca?) e sopratutto aggiungerei ad una prima lettura una ritratto di una musica che, più che sentita, viene pensata.
Concordo con l’estremo rigore che Mancini voglia dare alla lettura della musica e forse l’estremo rispetto che vuole comunicare in contrapposizione alla visione individualista e istrionica di CERTI direttori. Ma il mondo della musica non è tutto così ed anzi da strumentista o cantante infischiarsene di un direttore (se bravo sopratutto) è un gesto di poco rispetto non solo personale ma anche di gerarchie, a meno che uno non decida di fare il solista, ma anche in quel caso partecipare alla lettura di insieme aiuta solista e direttore.
Trovo senza nessun riscontro logico, come osserva Ninci, l’affermazione che l’arte esista senza soggettività, per il fatto che l’arte esiste per i soggetti ed è fatta da soggetti. Le interpretazioni operistiche di Bonynge possono differire dalle interpretazioni di Giulini: ciò non toglie che entrambi abbiano applicato alla loro estrema perizia tecnica anche la loro personale lettura che va chiaramente al di là di sterili e superficiali letture tecniche: come dice Duprez che centra in pieno la questione, interpretare è dare un significato.
Se non esistesse l’interpretazione, non avremmo per esempio queste tre versioni dell’Usignolo (Salabieva) di Aliabiev-Liszt (riscritto da Liszt per pianoforte, reinterpretando nella riduzione pianistica il lavoro orchestrale e di canto di Aliabiev)
– Howard http://www.youtube.com/watch?v=iifY5MWaXmg&feature=related
– Ginzburg http://www.youtube.com/watch?v=ofDM3k78Quw
– Spellnikoff http://www.youtube.com/watch?v=q_kx2kBzGjE
A me piace di più quella di Howard 😉
Il Prologo dell’Orfeo, musica in cui ci sono solo le note nella partitura del 1609 e 1615, per cui il direttore deve conoscere benissimo la storia strumentale dell’opera e degli usi del tempo, e grazie all’uso o meno di certi effetti o strumenti, da un sentimento diverso secondo la sua conoscenza tecnica e la sua personale visione dell’epoca
– Savall http://www.youtube.com/watch?v=mjpFi9bn1do&feature=related
– Heim http://www.youtube.com/watch?v=qwhETnxFQCQ
– Gardiner http://www.youtube.com/watch?v=Ac4HEs6cAvo
– Vartolo http://www.youtube.com/watch?v=jvAxWVTx8h4
A meno che, Mancini l’ha già teorizzato un’altra volta, la musica (e forse l’arte in genere) non sia un’espressione divina. Allora la posizione di Mancini diviene del tutto coerente. Se la musica è un’espressione di Dio, studiare la teoria musicale equivale ad avere la visione mistica di Dio. Ed allora scompare il concetto stesso di interpretazione. Dio non si può interpretare, si può solo abbandonare se stessi e riassorbirsi in lui. Certo, si possono avere opinioni differenti su Dio; senza queste opinioni differenti la storia della filosofia non esisterebbe. Ma sono tutte costruzioni dell’intelletto, che spariscono nella visione diretta. Tant’è che per qualunque pensatore medievale la visione di Dio che ha vecchietta equivale a quella raggiunta dal più grande filosofo.
Marco Ninci
Sono d’accordo con quello che dici, Marco: una visione assolutamente medievale, che però nasconde una curiosità pratica e musicale: per chi conosce un po’ di canto gregoriano, sa bene che a fronte di un solo testo, a seconda del periodo dell’anno in cui si cantava, aveva diversi modi di interpretazioni: per esempio cambiava l’accento di un dato passaggio se questo veniva cantato a Pasqua o a Natale.
Un’altra interessantissima curiosità, sempre contro una visione medievale di interpretazione unilaterlale che nella pratica non esisteva, vi è nella trasmissione dei canti gregoriani, che prima venivano trasmessi attraverso codici scritti con delle indicazioni interpretative (neumi) ma senza notazione musicale, e poi solo con notazione musicale senza i neumi e quindi senza indicazioni interpretative. Si nota peraltro l’utilizzo di neumi graficamente diversi a seconda delle diverse scholae cantorum (nel nuovo di stampa “Graduale Novum”, come già nel “Graduale Triplex”, sopra il testo ed il tetragramma sono riportati i neumi di Laon ed i neumi di St. Gallo) e facendo una comparazione degli effetti circa un 90% dei segni ha delle corrispondenze mentre il restante 10% è lasciato all’interpretazione del magister. Se si scandaglia ancora di più i neumi, si notano delle finezze interpretative che stridono assolutamente con l’immagine di un medioevo simile a quello descritto.
Questo per dire che chi conosce veramente la musica antica porta esempi ed argomenta con esempi pratici, e non con ipotesi che non stanno né in cielo né in terra.
ma cosa significa per te conoscere la musica? seguire col dito le note scritte su un pentagramma? leggere dei segni? pensi che questo faccia di te un musicista? la comprensione di un brano va ben oltre la superficiale lettura delle note….
Mi chiedo cosa tu stia dicendo (per non dire farneticando) in quest’ultima frase visto che è l’esatto contrario di tutto quello che ho finora detto e non hai fatto che scrivere quello che tu stai affermando da più post a questa parte.
Ho già detto che di fronte ad una selva di note e parole in uno spartito cinquecentesco, chi si appresta a studiare deve capire cosa ha davanti e sentire come lo renderebbe musicalmente. Ovviamente ciò suppone conoscere la musica, conoscere il musicista e conoscere l’effetto/sentimento che si vuole esprimere.
Conoscere la musica significa conoscere l’autore, conoscere lo stile, conoscere le regole insite in quel dato periodo.
L’interpretazione poi trasforma la dattilografia musicale (fare le note e applicare scontate regole stilistico-tecniche) in musica.
ma queste sono conoscenze accessorie, di storia della musica. Gli studi di armonia e contrappunto, di composizione, sono queste le conoscenze essenziali per leggere uno spartito. Le questioni sullo stile, sulla prassi, sono importanti ma restano accessorie. Anche se la moderna vulgata filologica vorrebbe farci credere che l’essenziale nella musica è il “suono antico”…
Sono conoscenze tanto accessorie (come dici tu) che danno la cifra di un bravo cantante o meno, vedi un po’ tu 😉
Torno a dire, dici ovvietà: è ovvio che uno debba sapere armonia e contrappunto e composizione se strumentista, e anche il cantante è tenuto a saperle!
Ho fatto l’esempio di un compositore, Bach, che non scrive quasi mai indicazioni di tempo, né scrive segni dinamici o espressivi. Solo le note. Questo per te significa che tutto è lasciato all’arbitrio dell’esecutore? Accenti, fraseggio, legature, piano, forte… tutto a caso, secondo quello che ti passa per la testa in quel momento? Eppure lo stesso Bach sentenziava che il tempo di un brano è insito nel materiale…. chi non lo capisce, lasci perdere piuttosto.
Il mio non è un discorso da strumentista, quindi per chi lo è, prego integrare.
Ma ovviamente se avessi un brano per clavicembalo, lo suonerei, vedrei come l’autore svolge il brano e darei una prima interpretazione. Constaterei poi se tale interpretazione è coerente con il linguaggio di Bach (in questo caso) e provando – perché la musica si capisce provando, sbagliando e correggendosi – cercherei di fornire una interpretazione coerente alla mia interpretazione nei limiti dei “filtri” stilistici. E qui si nota il vero studioso e musicista a mio vedere: perché se pur fai un brano interpretato da te, bellissimo, ma che non c’entra niente con Bach, dai una interpretazione individualistica e personale ma storicamente non importante.
Quindi come vedi, le regole tecniche sono importanti a mio vedere per dare una dimensione storica a quello che fai, oltreché essere coerente e rispettoso di Bach e del suo linguaggio.
ok comunque anche il cantante è un musicista. Per dire, Pavarotti le cose più belle le ha fatte quando c’era un direttore, musicista, che gli imponeva di rispettare la musica e di fraseggiare. Anche il cantante quindi deve essere musicista. Le dive ottocentesche studiavano composizione, e all’occasione sapevano mettere le mani su una parte per variarla o modificarla.
La posizione di Mancini è, purtroppo, la dimostrazione del “male” che hanno fatto alla musica l’estremizzazione delle teorie celibidachiane.
Potrei dire che le vostre posizioni sono la dimostrazione del male che alla musica hanno fatto le case discografiche e gli artisti da supermercato…
Beh, sai, visto che anche tu ti servi dallo stesso supermercato mi chiedo dove stia la coerenza… Ma non voglio certo convincerti. Mi spiace solo che le fesserie new age di un furbacchione che ha mischiato ingredienti pescati a casaccio da pseudomisticismi orientali (creando adepti e fedeli a lode, gloria e onore di sé stesso), e che hanno avuto come conseguenza solo l’esasperazione del culto della personalità, la gestione “divistica” dell’immagine del direttore romeno (e corrispondente schizzata alle stelle delle sue quotazioni e, probabilmente, dei suoi guadagni), e la mercificazione più squallida dell’arte attraverso una sapiente operazione di marketing. Ovviamente, il tutto, sopravvalutando le qualità di direttore d’orchestra. Celibidache come uno dei più grandi bluff della storia dell’interpretazione musicale? Comincio a pensarlo… E mi fa ridere di gusto il contrappasso per cui il direttore che fingeva di detestare il disco sia oggi al centro di una delle maggiori speculazioni discografiche…
Ps: anche io – tempo fa – subii la fascinazione del Santone…ma grazie al cielo sono rinsavito.
via via che questa polemica non mi interessa, non sono certo io a soffrire di culto della personalità, tanto meno poi nei confronti di un musicista che non mai sentito in vita mia, quale il rumeno. Però non mi avete ancora risposto… il pianista davanti al preludio di Bach cosa deve fare? Eseguire le note meccanicamente…? Beh no su questo mi pare siamo d’accordo… e allora, che deve fare? Esprimere la sua interiorità, le sue emozioni? Oh caspitina… e poi sarei io quello che subisce fascinazioni da santoni. 😉
non capisco poi perché tanto clamore a sentir parlare di oggettività. Ma se tutto è relativo con quale presunzione vi permettete di esprimere delle critiche? Sono soggettive, quindi abbiate il pudore di tenervele per voi!
non mi sembra poi di aver fatto della filosofia o del misticismo. Mi pare, al contrario, che in musica, quando si fantastica sulle emozioni e sulle interpretazioni, si disquisisca più che altro di aria fritta.
Certo Mancini, perché la musica si fa, non si seziona come fai tu. Se tu non sei avezzo a fare musica, ti perdi in tutte queste considerazioni che come ho già detto sono a mio parere considerazioni di uno che la musica non la sente ma la pensa e basta. Io non ho esperienza di musica strumentale, ma se prendo uno spartito cinquecentesco dove non c’è scritto che la linea del canto e il basso continuo, leggo il testo, cerco di capire cosa c’è scritto, cerco di capire il “sentimento”, canto la parte e vedo come il musicista rende musicalmente il testo e poi interpreto, ossia uso tutti i ricorsi tecnici (dinamiche, variazioni e sprezzatura) che mi sento di usare in coerenza con le regole musicali e tecniche del brano.
Non penso che lo strumentista faccio qualcosa di molto diverso, anche se ammetto che non avendo parole, il sentimento è più nascosto e per questo motivo più suscettibile a molte più interpretazioni.
La musica per essere eseguita va prima di tutto sezionata, scomposta… è necessario prima di tutto un approccio analitico, se no ci si affida solo al caso. La teoria musicale si studia per questo, mica per stilare dotte classifiche tra compositori più o meno evoluti… La musica è pensiero…. non è solo percezione di suoni…
Mi sembra che siamo entrambi d’accordo sull’analisi, con la differenza che per te l’analisi è un fine e non mezzo per arrivare al fine ultimo della musica: esprimere sentimenti.
Ripeto, personalmente a me mette molta tristezza leggere quel che scrivi perché dai l’idea che per te la musica sia solo un fenomeno fisico (suono) e tecnico (regole stilistiche), senza nessun trasporto umano e sentimentale.
Mi spiace ma non hai capito… La musica si fonda su delle precise regole fisiche…. Nel Medioevo la disciplina musicale era accostata all’aritmetica, alla geometria, all’astronomia (il c.d. quadrivium). Un architetto per costruire un edificio deve rispettare delle regole, altrimenti crolla tutto. Lo stesso vale per la musica… un discorso musicale per essere sviluppato con coerenza deve basarsi su dei parametri, altrimenti sono solo suoni disarticolati…
Nel medioevo così come nel mondo antico la Musica aveva una altissima considerazione qualora fosse di carattere speculativo: quindi se Platone parlava di Musica in parallelo alle idee matematiche, allora era un alto discorso. Se invece si parlava della pratica, ossia del suonatore di flauto o cetra, era un argomento vile perché entrava la pratica. Marco Ninci sarà sicuramente più capace di argomentare se ritiene.
A me sa comunque di parlare con un muro, scusa Mancini, perché cerchi scuse per sviare il discorso. E’ ovvio che uno che fa musica debba conoscere la musica. E’ OVVIO! Come è ovvio che senza queste basi non si vada avanti. E’ OVVIO!
Sviluppando coerentemente la posizione di Mancini tutti gli artisti, compreso Celibidache, sono da supermercato.
Marco Ninci
Mah, anch’io sento quei misticismi molto lontani. Tuttavia devo dire che l’unica volta in cui ho ascoltato Celibidache dal vivo con i suoi Filarmonici di Monaco (Morte e Trasfigurazione di Strauss, Quarta Sinfonia di Brahms), ne ho tratto un’impressione incancellabile. Il crescendo interminabile che concludeva il poema di Strauss è fra le grandi cose della mia vita di ascoltatore.
Marco Ninci
Ecco Ninci, tu almeno puoi parlarne per averlo sentito, cosa che a me non è stata data. Molto interessante, grazie.
Chebarbachenoiachenoiachebarba…questa sembra la disputa dei Cinque Ebrei nella Salome…
Hai ragione Mozart: tanto nessuno convincerà l’altro (nella teoria, giacché nella pratica d’ascolto nessuno di noi si pone questi sofismi…).
Beh non proprio Duprez… Mica io voglio convincere Mancini di quel che penso! Credo che ognuno porti la sua personale testimonianza pratica e attraverso questa rende semmai più forte la sua opinione.
Certe affermazioni di Mancini per me non stanno né in cielo né in terra (l’arte non è soggettiva – una affermazione di una terribile interferenza logica e storica), tuttavia mi danno modo di pensare a certi temi, e sviluppare e rafforzare certe cose di cui sono convinto! E poi si vede il peso delle idee dalle argomentazioni 😉
Beh, quando ho fatto il primo commento non era mia intenzione dare avvio ad una diatriba così accesa, ma mi sembrano questioni sulle quali ad un certo punto è inevitabile interrogarsi.
Mi spiace, Gianguido, ma porsi questi problemi è essenziale. Non sono affatto sofismi; sono il sale della vita.
Marco Ninci
Io vi dirò: mi sembra di sentire le dispute antiche e medievali tra i teorici ed i pratici della musica: i primi misuravano le corde di una cetra con le formule matematiche, i secondi con l’orecchio, e mentre i primi non sapevano maneggiare uno strumento, i secondi li facevano partecipi emotivamente, sebbene disprezzati 😉
Di solito è sempre così: la teoria è sempre un passo indietro e preferisce non abbandonare la comodità di formulette magiche e regoline. In genere la critica accademica, i soloni dei conservatori, quelli che conoscevano le regole oggettive e che pretendevano di dare patenti di correttezza, reputano tutto ciò che non capiscono come “sbagliato”: è successo a Monteverdi con Artusi, a Vivaldi con Marcello etc. etc. sino a Mussorgskij o Shostakovich…tutti accusati di “sbagliare”!
L’unico che forse ha avuto enorme rispetto è stato Guido d’Arezzo, che ha fatto pratica e teoria insieme XD
Non mi pare però che colui al quale si riconduce l’approfondimento di queste tematiche, ossia il Maestro Celibidache, fosse solo un teorico. Il punto è che nella musica, teoria e pratica devono stare assieme. Cos’è lo studio della teoria musicale, se non uno strumento per chi pratica l’arte? Il musicista che cos’è, una scimmia che suona le note lasciandosi trasportare dalle sue sensazioni, senza essere consapevole di come è strutturata, di come si sviluppa, di dove va a parare la composizione? Certo, ascoltando molti odierni sedicenti musicisti, l’impressione è proprio quella… strimpellano note, magari in modo piacevole, ma senza svolgere nessun discorso coerente… I conservatori diplomano pianisti che corrono come fulmini sulla tastiera, ma che messi davanti ad una pagina di musica, non sanno darne una lettura ragionata. Suonano note, pensano di interpretare sulla base di fantasmagoriche immagini mentali che non vogliono dire niente.
Tu stai descrivendo una parte ed ovviamente la parte negativa, e quello da cui è giusto distaccarsi, ma non tutti sono così, e fare come sempre fai di tutta un’erba un fascio non serve a niente, oltreché non rappresentare la realtà per come è!
Come sempre, vale la formula “pochi bravi ma buoni”; ci saranno anche quelli che non ne capiscono niente ma ci sono anche quelli che modestamente e umilmente fanno la loro piccola parte.
Secondo me alla “scimmia ammaestrata” si arriva proprio portando all’estrema conseguenza il dare valore assoluto a oggettive regole interpretative. Se si elimina il soggetto, con la sua sensibilità, rimane l’oggetto: e all’oggetto basta solo essere riprodotto meccanicamente. Se i parametri fossero oggettivi e il soggetto che agisce dovrebbe limitarsi a eseguire, allora non vi sarebbero differenze tra Gould e Horowitz e Michelangeli e Lang Lang. Da qui l’impossibilità di preferire l’uno all’altro se non con criteri di capriccio o per culto del nome. Capisci che è inaccettabile e tu sei il primo a smentire tale approccio.
Ma parliamo di Celibidache: a me innanzitutto piace distinguere il fastidioso parolaio dal musicista. Credi davvero che il suo approccio interpretativo sia la conseguenza dell’applicazione di certe elucubrazioni metamusicali? E non, piuttosto, il tentativo di dare una spiegazione ad un approccio estremamente soggettivo e personale? Anche perché – nei fatti – non vi è nulla di più arbitrario delle scelte musicali di Celibidache.
Cosa c’è di arbitrario nelle scelte di Celibidache? La riscrittura di una forcella? E se quella forcella avesse sbagliato il compositore a metterla?
Dall’ascolto di Celibidache, anche in disco, non si ha mai l’impressione che qualcosa avvenga per caso (e l’arbitrio è questo=un effetto senza causa). Tutto funziona, ha un suo senso, un suo sviluppo logico e coerente.
Mi fa tenerezza questa fede: Celibidache non sbaglia mai…semmai sbaglia Mozart o Beethoven! Splendido!
Mozart e Beethoven cosa sono, divinità scese dal cielo?
…ma che diavolo scrivi Mancini? Ma che divinità??? Tu sei un manicheo che vede solo contrapposizioni, bene e male e giusto e sbagliato (declinato a tua comodità ovviamente). Beethoven e Mozart non POSSONO “sbagliare” per il semplice fatto che scrivono quel che esattamente vogliono, secondo una precisa “volontà” e non il rispetto di regole inesistenti. Con il tuo triste atteggiamento il mondo sarebbe ancora all’età della pietra! Solo gli imbecilli ritengono “sbagliato” quello che non corrisponde a quattro stupide regoline… Si può sbagliare solo un’esecuzione, non una creazione che – in quanto tale – è libera da ogni vincolo.
La creazione è libera da ogni vincolo? Ah… avviene anche in sei giorni per caso? con il settimo dedicato al riposo?
ovviamente parlo della “creazione” artistica…nel senso che la volontà risponde solo a sé stessa! Una sinfonia potrà essere bella, brutta, lunga, corta, semplice, complessa…può far schifo, può essere banale o ingenua o quel che vuoi, ma non potrà MAI essere “sbagliata”.
Ps: per la “creazione” possono bastare anche 6 giorni…a Rossini ne bastavano meno per scrivere opere scopiazzando sé stesso e riciclando 1000 volte le stesse idee musicali 😉
ehehehehehe ok. non sono d’accordo che comporre musica funzioni in questo modo, ma non mi pare il caso di proseguire.
Ogni scelta è arbitraria Mancini: se il Confutatis del Requiem mozartiano Celibidache lo raddoppia rispetto a Bohm o a Kleiber o a chi vuoi tu…significa che dietro c’è una scelta personale e, appunto, arbitraria: a me il tempo di Celibidache in quel brano fa semplicemente schifo…a te piace. Amen… La prossima volta, però, che scrivi della Ganassi o della Bartoli, ti farò notare che forse è Rossini che sbaglia…
è un discorso che andrebbe affrontato con delle premesse…. qui si arriva solo a litigare, senza riuscire ad intendersi. La fedeltà al testo non è un principio inviolabile… semplicemente perché il testo scritto non è musica, ma è solo una traccia. Se Celibidache ha riscritto un passaggio, lo ha fatto con delle motivazioni di ordine musicale. Può anche aver sbagliato… ma questo non toglie valore al discorso generale.
Ma non dico che Celibidache “sbaglia”, ma che opera una “scelta” (in base a motivazioni di ordine musicali, certo, ma soggettivamente meditate): scelta legittima che può convincere o meno. Allo stesso modo non sbagliano Gardiner o Bohm. Però – per coerenza e serietà – non si può ritenere che le scelte di un artista che piace (per mille motivi) siano delle non-scelte, ma mere esemplificazioni di ragioni oggettive di scienza musicale perfettamente colte dal direttore e volte a “eseguire musica” senza interpretare, poiché corrette e giuste; mentre le scelte di un artista sgradito divengono arbitri da scimmia ammaestrata che nulla capisce. Se fosse come dici tu, a fronte dello stesso brano non esisterebbero esecuzioni differenti.
In tutto ciò, per cortesia, non si scriva che ha “sbagliato” Mozart (ad esempio) il quale ha scritto esattamente quel che voleva scrivere… Ripeto: Artusi diceva che Monteverdi sbagliava. Artusi è un nessuno e viene ricordato per le scemenze che ha scritto (come tutti i teorici frustrati), mentre Monteverdi resta Monteverdi.
Io detesto sempre più gli accademici, i teorici e i contabili delle regole e della tecnica.
Comunque, vista l’incomunicabilità di certe posizioni, non vedo come questa discussione possa proseguire. Pertanto la chiudo.
sì, partiamo da due concezioni della musica, e più in generale dell’arte, completamente opposte.
Non per sgarbo, naturalmente, ma per il semplice motivo che ciascuno, alla fine, si attorciglia alle proprie convinzioni: stiamo facendo variazioni sul tema (che se si trattasse di musica, e fossero le Goldberg, magari sarebbero anche piacevolissime….ma con la parola scritta funzione diversamente 😉 )
la cosa significativa è che partendo dal discorso sull’oggettività dell’esecuzione musicale, si è arrivati a parlare di tematiche fondamentali, quali il disco ed il cambiamento che ha operato sul mondo musicale, ed infine l’atto compositivo come creazione (domanda, non è una creazione anche l’atto esecutivo?). Non posso certo convincere o indottrinare nessuno, ma restano spunti di riflessione che reputo molto importanti, al di là delle polemiche, inevitabili quando si affrontano certe questioni.
state dando l’atteso annunzio che esausti da un pomeriggio di botta e risposta avevte deciso di interrompere o quanto meno di sospendere! non posso crederci.
siccome la benzina è un ottimo ignufugo per parte mia continuo a ritenere Wilhelm un grandissimo direttore, Celibidache pure con un po’ di difetti e vezzi nella fase finale di carriera (ma potremmo scrivere un poema sulle ultime registrazioni di tutti i grandi) mentre gli attuali mi scaldano pochino e sopratutto li trovo tutti molto molto uguali, mentre a me asino ed ignorante (me lo dico da solo per economizzare di qualche post) bastano poche battuta per capire se trattasi di walter piuttosto che di mitropoulos .
Ripeto sto utilizzando uno splendido ignifugo a nome benzina.
e devo anche dire che al di là dei compiacimenti è stato la vostra una spledida sticomitia
ciao dd
Beh allora aggiungo anch’ io un po’ di ignifugo…per me, gli ultimi direttori dell’ epoca moderna che possono essere paragonati ai nomi citati da Domenico sono Karajan, Bernstein e Carlos Kleiber. Dopo di loro, forse non il vuoto ma sicuramente una discesa di almeno tre gradini.
Nessuno nega la grandezza di Furtwangler…nego solo l’assunto per cui un Beethoven “diverso” da quello codificato da Furtwangler possa essere definito “sbagliato”: mi sembra un atteggiamento arrogante e, in ultima analisi ottusamente fideistico, ecco. Naturalmente sono fatti salvi i gusti di ciascuno che può ritenere “questo o quello” magnifico o insipido…
Come ha ricordato giustamente l’ amico Marco, un Beethoven caratterizzato da leggerezza e trasparenza orchestrale esisteva anche all’ epoca di Furtwängler. Pensate a Walter, Fricsay, Scherchen oppure al primo Karajan, quello dell’ integrale londinese. Del resto, quando Karajan diresse nel 1938 il Fidelio alla Staatsoper di Berlino, la sua lettura fu lodata dai critici dell’ epoca proprio per la inedita trasparenza e leggerezza del tessuto orchestrale.
Oltretutto, credo ci si debba riferire sempre ad un repertorio, dato che nessun direttore è stato interprete di tutto allo stesso livello. Mi sbilancio: a mio gusto il Beethoven dell’ultimo Abbado è oggi uno dei più interessanti (insieme a Zinman e Bernstein). Ritengo il Mahler di Karajan discontinuo e non trovo indispensabile Mitropoulos… E ancora: nonostante tutto trovo che le sinfonie di Mozart dirette da Bohm restino una pietra miliare (anche se adoro le versioni di Hogwood, Mackerras e altri più recenti) e un ascolto sempre fecondo, mentre il Mozart di Abbado per me è inutile. Ma “la passion predominante” è costituita dai grandi maestri sovietici: Barshai, Kondrashin, Mravinsky e appena più sotto Svetlanov e Rozhdestvenskij. Furtwangler è, per certi versi, l’antico testamento… Celibidache è un caso a parte.
Vorrei chiosare la discussione citando una delle opere più straordinarie del secolo XIX: quei Meistersinger von Nurnberg dedicati al rapporto tra la libertà creativa e il rispetto delle “regole”. Nel primo atto c’è una scena rivelatrice di tale problematica (trattata con insolita ironia e leggerezza): il giovane Walther, ansioso di diventare “maestro” per amore, sfidando convenzioni e procedure, chiede a David – studente molto ligio all’insegnamento ortodosso e accademico . come fare a diventare “maestro cantore”. Questi gli spiega dettagliatamente le tecniche, le regole, le procedure, le teorie, gli elenca i metri e le modalità espressive codificate, paragonando l’arte poetica al mestiere del calzolaio (e non può essere altrimenti se la si limita ad una sterile riproduzione di tecniche e dogmi) “se ho steso liscio il cuoio imparo a pronunciare vocali e consonanti; quando ho incerato e teso il filo, comprendo bene quel che rima; brandendo la lesina, nel punto il punteruolo, le sillabe tronche, quelle sonore, la prosodia, il metro, la forma sempre nel grembiule, quale è lunga, quale è breve, quale è forte, quale è debole, chiara o cieca, troncamenti, elisioni, sillabe appiccicate, pause e respiri, fiori e spini”…e alla fine dice “tutto ho imparato con cura e attenzione: e dove credete che sia arrivato?”. Walther, allora, gli risponde “certo a fare un ottimo paio di scarpe”. Ecco, se l’arte, la sua creazione e l’interpretazione vengono lasciata ai Beckmesser perfetti conoscitori delle “regole”, ansiosi di attribuire patenti di correttezza o a segnare gli “errori”…non si fa più musica: si producono scarpe… 😉
Il discorso non è il rispetto di una regola. Se un musicista che si accinge a fare musica, ha tra le mani uno spartito che presenta un passaggio per lui poco efficace, non c’è nessuna ragione, secondo la mia concezione della musica, perché l’esecutore non possa risistemare quel passaggio come meglio crede. Non credo che la creazione di un compositore debba essere per forza perfetta, non credo nemmeno che la volontà del creatore sia qualcosa di autoreferenziale. Un vero musicista che si accinge ad eseguire un pezzo di musica, essendo lui a dover dare vita sonora a quella pagina scritta, si deve porre sullo allo stesso piano del compositore, deve capire tutto quello che il compositore ha scritto, perché ha scritto così e non in un altro modo, e se lo ritiene necessario può anche rivederne le scelte. Il fine è produrre musica, non adempiere al volere di questo o quel compositore. Questo secondo il mio modo di intendere la musica.
chiaramente considero la musica una disciplina fondata su delle regole fisiche, su di una logica universale che ne permette la fruizione a tutti noi umani. la creazione è libera fino ad un certo punto, esistono sempre dei vincoli.
Mancini, voglio meglio specificare in che senso considero “perfetta” la creazione di un compositore: secondo me è “perfetta” perché è rispondente alla precisa volontà dell’autore (non è un giudizio estetico) che, come tale non può essere né giusta né sbagliata. E’ un dato fattuale non suscettibile di valutazioni di correttezza (semmai di mero gradimento). In questo senso dico che una data opera musicale è sempre “corretta”. Come conseguenza della libertà creativa (che per me è assoluta: o meglio, lo è nei fatti). Questo non significa “intangibilità”: un esecutore – proprio in virtù della soggettiva libertà di interprete – potrà ben fare quel che vuole (arrivando persino alla modifica di certi passaggi: non mi scandalizza), chiaramente il risultato sarà soggetto ad apprezzamento o critica (e fatta salva ogni considerazione in merito a stile e gusto: elementi da tenere, ovviamente, in considerazione). Certo, però, riconosco maggiori vincoli all’interprete (che deve confrontarsi con un dato esistente) rispetto alla totale libertà del compositore (che si confronta solo con la pagina bianca).
Sì ho capito, ma non concordo. Ritengo che la musica si concretizzi solo all’atto esecutivo, e purtroppo Mozart e Beethoven sono morti da un pezzo, quindi di musica non ne possono fare più. Chi deve dare vita alle loro composizioni per me non dovrebbe limitarsi a leggere fedelmente le note ed i segni dello spartito (questo è il compito della scimmia ammaestrata). No, l’esecutore deve lui stesso prendere coscienza, con gli strumenti dell’arte musicale, di come è scritto quel brano, come si sviluppano i temi, che significato ha una certa modulazione nell’arco del percorso totale, ecc… solo così il musicista può dare dello spartito una lettura consapevole, obiettiva, coerente, unitaria dall’inizio alla fine, mai meccanica e mai schizofrenica. Ecco perché concordo con l’idea che la musica stia “dietro le note”. Il vero musicista per fare vera musica deve capire cosa sta dietro alle note, deve capire il perché di ogni scelta fatta dal compositore, deve insomma farsi lui stesso compositore. E in linea di principio non escludo che un compositore possa aver scritto qualcosa di incomprensibile, qualcosa di sbagliato nel senso di incoerente con il discorso fin lì svolto. Io quando ascolto musica pretendo di riuscire a seguire, se ascolto qualcosa di disarticolato perdo attenzione e non riesco più ad ascoltare, sento solo dei suoni.
Ti rispondo, Duprez, con un’altra velocissima citazione: dal libro “The interpretation of the Music of the 17th and 18th Centuries” di Arnold Dolmetsch (1915) che per la cronaca è una esposizione in ca 500 pagine di espressione, tempo e ritmo, abbellimenti (una capitolo di circa 250 pagine) e pratica del basso continuo e diteggiatura di tastiera e di strumenti tutti riconducibili alla musica dal 1600 al 1750 ca basato completamente sulle fonti scritte. A parte i continui, reiterati e sempre vivi rimandi al “gusto” e coscienza dell’interprete, è un libro che nel suo aspetto più pratico è un libro di regole, che perà ha questa bellissima frase introduttiva: “The student should first try and prepare his mind by thoroughly understanding what the Old Masters FELT about their own music, what impressions they wished to convey and generally what was the SPIRIT OF THEIR ART, for on these points the ideas of modern musicians are by no means clear”.
[traduco per i non anglofili: “Lo studente dovrebbe prima provare e preparare la sua mente capendo pienamente cosa gli antichi Maestri SENTIVANO circa la loro musica, che impressioni volevano comunicare e in generale qual era lo SPIRITO DELLA LORO ARTE, in quanto le idee dei moderni musicisti sono oltremodo non chiare”]