Opera sul tempo e l’immortalità, sulla malinconia, sul teatro, sulla celebrazione della vita e sulla celebrazione della morte; opera sulla morte dell’ “opera”, sulla morte del canto; opera “espressionista”, opera sul vuoto esistenziale, opera senza amore; opera misogina; opera sulla donna e sul suo immortale mistero; opera “thriller”, opera mistery o giallo-operistico; opera sulla solitudine; per me “Il caso Makropulos” di Leóš Janáček è anche un’opera sull’invidia: l’invidia di un essere che si è fatto cinico, calcolatore, beffardo, spietato, egocentrico nel momento in cui si è reso perfettamente conto di non provare più alcun tipo di emozione se non la pietà verso se stesso e la rabbia nei confronti dell’altrui vita, ricca di ben altre sfumature pur nella naturale brevità.
E’ una donna sola Elina Makropulos/Emilia Marty, rabbiosamente sola e innaturalmente inumana, non solo in virtù dei troppi secoli che la pozione del padre le ha concesso, ma soprattutto perché non sa e non riesce più ad amare: forse l’ultima volta è stato il secolo precedente, quell’avo di Albert Gregor, suo nipote, a cui ha ceduto la formula pur di convincerlo, probabilmente, ad usarla per restargli accanto, per sempre, l’unico a cui ha parlato di se stessa e della sua condizione di immortale, l’unico uomo che ha cercato, della cui morte si sia davvero interessata e verso cui prova ancora un moto di trasporto.
Allora eccola irridere i mortali, sbeffeggiarli, irretirli con la consapevolezza del suo fascino, raggerarli col suo cinismo, disgustarli con la sua distaccata freddezza, ucciderli nell’indifferenza, ammaliarli col suo canto, quando ella stessa, e ne è ben conscia, vorrebbe essere esattamente come loro; lo ammetterà alla fine, quando il ghiaccio si spezzerà, quando otterrà di nuovo la formula tanto visceralmente cercata, ma ora francamente inutile, quando, a tempo scaduto, il senso della morte non le farà più paura, ma la renderà di nuovo umana, forse saggia, ma per un attimo libera.
L’opera a Firenze andava in scena per la terza volta e rappresentava l’esordio di Zubin Mehta, in vacanza dal repertorio italiano, verso cui non ha più granché da dire, nel mondo di Janáček.
Il Maestro ha parlato di una interpretazione straussiana della partitura: mi permetto di postdatare tale affermazione trasferendo la lettura di Mehta in pieno romanticismo tedesco quasi al limite col ‘900 di Strauss.
Via tutti i riferimenti agli “spigoli” ed alle asprezze espressioniste degli anni ’20; via il decadentismo ed il pessimismo; via la disgregazione della partitura nei microtemi di cui si compone come un contorto mosaico; ben venga, al contrario, un suono che insegue il fantasma della morbidezza e della rotondità, curatissimo nei dettagli, quasi calligrafico, ma che si deve scontrare con la poca coesione strumentale; ben venga la precisione superiore degli archi, davvero splendidi e pulitissimi in questa occasione, tutti protesi verso una tensione che non si risolve nella purezza edonistica delle note, ma nel sostegno del canto e dei chiaroscuri musicali; male, malissimo invece l’imprecisione dei corni e degli ottoni, già riscontrata in maniera ancora più evidente nella terribile “Forza del destino” e nell’ancora più inascoltabile “Tosca”; meno a fuoco l’ouverture rispetto alla resa più precisa e nervosa della prima trasmessa in radio, in cui la geniale alternanza di suoni della modernità, rumori del progresso e temi della classicità si assommano in maniera confusa e sbilanciata con sbandamenti temporali, poi ben poco riassorbiti nei due atti seguenti; magnifico infine il terzo atto, il migliore, a mio modesto parere dei tre, per il livello raggiunto dalla qualità della musica, dall’inventiva del compositore, per la felicità della resa teatrale, ma anche per la bacchetta di Mehta che lo immerge in un clima fosco, ironicamente tragico, ed esacerbato. Insomma, Mehta non ha la tavolozza di colori di un MacKerras o il rigore di Salonen, ed essendo questo il suo esordio deve molto approfondire questa sua personalissima visione.
Discorso a parte meritano i cantanti coinvolti in queste recite: prima di tutto scindiamo la protagonista dai suoi colleghi, i quali nel loro omogeneo grigiore si accontentano chi più, chi meno di vociferare il più possibile restando praticamente anonimi e sullo sfondo in concomitanza di intenti con la regia.
Nel dettaglio: sforzato, legnoso, tutto in forte l’Albert Gregor di Miro Dvorsky, godibile e “parlante” l’ Hauk-Šendorf del caratterista Karl Michael Ebner, solo sgradevolmente “parlante” il Dr. Kolenatý di Rolf Haunstein, sgraziato e sbrigativo, ma dalla voce sonora lo Jeroslav Prus di Andrzej Dobber, di bella presenza e gradevoli pur nella loro fragilità tecnica lo Janek di Mirko Guadagnini e la Kristina di Jolana Fogašová, gustoso, ma perennemente a rischio rottura/stecca il Vitek di Jan Vacik, buoni i brevi interventi di Roberto Abbondanza (Strojnik), di Stefanie Iranyi (Poklizecka) e di Cristina Sogmaister (Komorna).
Tre erano i motivi per cui trovavo questo “Makropulos” sulla carta imperdibile:
la direzione di Zubin Mehta, la regia dell’immenso William Friedkin e poter vedere e ascoltare dal vivo il soprano Angela Denoke, conosciuta grazie a registrazioni private e DVD, di cui avevo letto meraviglie oltre ogni umana idea.
La Denoke-cantante è un soprano lirico, con la voce che parte piccola, ma che riscaldandosi diventa più corposa e sonora soprattutto al centro, la cui estensione equivale ai due estremi del pentagramma: vuota nel registro grave, non appena la tessitura giunge al passaggio ecco comparire qualche nota fissa, oppure malferma o presa da sotto, o a scivolo anche se nel secondo atto un acuto riesce anche a farlo girare bene; l’emissione è tutta in bocca, tuttavia ha un timbro chiaro e a suo modo fascinoso.
Problemi che ho riscontrato in ogni sua incarnazione.
Lo so, stiamo parlando di Janáček non di Bellini o Donizetti e gli intenti stilistici del compositore erano e sono ben chiari: ovvero modulare la voce seguendo la melodia insita nella parola, nella musicalità della vocale e della sillaba, del tono del discorso, per questo il suo stile di canto, improntato ad un recitativo continuo, è quasi al confine con lo “sprechgesang”, una sorta di recitazione intonata con accompagnamento musicale, soprattutto nell’asprezza del “Makropulos” improntato com’è sull’importanza drammaturgica e rivelatrice dei dialoghi, meno interessato quindi al dato tecnico.
La Denoke, che canta come sopra, sarebbe di conseguenza “perfetta” per la parte…
Poi però scopri che il giovane e carismatico soprano Alexandra Cvanovà, quasi trentenne all’epoca creatrice della Marty e deceduta nel ’39 a causa di un tragico incidente stradale, cantava si Janáček (Jenufa e Marty), ma anche Butterfly, Rusalka, Principe Igor (Yaroslavna), Libuše (Krasava), Carmen (Micaela), Onegin e Dama di picche, ruoli insomma in cui non servono solo una pronuncia e una dizione perfetta: poi ascolti quella somma ed eclettica artista che è sempre stata Elisabeth Söderström nello stesso ruolo; la quale canta, fraseggia, interpreta, scandisce ogni suono, penetra ogni piega delle note e dell’animo della Marty con voce piena, non perfetta, ma robusta e sfacciatamente espressiva. Lacera l’anima, ad esempio, il monologo finale ascoltato con la sua voce!
Per queste ragioni mi aspettavo di più dalla Denoke, il cui fraseggio, curato certo, approfondisce soprattutto il disegno del lato più beffardo, freddo e cinico, con sicura naturalezza; al contrario, quello più intensamente intimo, fragile, femminile è circoscritto alle frasi finali.
La Denoke-attrice sopravanza di varie spanne la cantante: innegabile come il carisma di questa artista, al suo apparire fasciata in un abito nero con pellicciotto e strascico che le lascia scoperte le gambe inchiodi alla sedia. Non c’è gesto che non sia esatto, sinuoso, elegante, ogni movimento effettuato con la maestria e la leggerezza di una ballerina di danza moderna o una agile pantera e che nella recitazione esprime molto, ma molto di più del canto; come la mimica facciale variegatissima e di intensità bruciante, che lascia trasparire quella indecisione, quel dubbio nascosto e che si vorrebbe fossero più presenti nel fraseggio. Splendidi, da questo punto di vista, i dialoghi con Prus o tutto il terzo atto in cui prosciuga i gesti rendendoli piccoli ed essenziali, fino al finale in cui trasformata essa stessa nella pergamena della formula e investita da una fiamma soprannaturale e catartica, brucia accartocciandosi proprio come un foglio di carta fino a spegnersi nell’indifferenza degli uomini, ma non di Kristina che ha rifiutato l’immortalità.
Insomma la personalità c’è, ma non si canta solo con quella.
William Friedkin, regista che ha riscritto le nuove regole del linguaggio cinematografico partendo da film realmente innovatori e dalla concezione estrema e disturbante come “Il braccio violento della legge”, “L’esorcista”, “Cruising”, “Vivere e morire a Los Angeles” fino ai più recenti “Bug” e “Killer Joe” si è sempre dichiarato appassionato del teatro d’opera firmando dal ’99 gli allestimenti di “Wozzeck”, “Tannhauser”, “Ariadne auf Naxos”, “Il castello del duca Barbablù”, “Gianni Schicchi”, “Aida”; “Salome”.
Per questo “Makropulos” gioca per sottrazione con immagini dal sapore vagamente espressionista a partire dalle suggestive foto iniziali di Rocky Schenk, proiettate su uno schermo le quali attraversano la mente di Elina Makropulos come ricordi del passato a cui aggrapparsi, fino allo studio dell’avvocato, tutto trasparenze geometriche, spigoli, e carta accumulata nei decenni; funzionale il colpo di teatro (abusatissimo) del II° atto in cui il palco è sospeso tra la finzione e la realtà delle quinte nude mostrate a vista o il terzo atto i cui unici elementi sono un divano rosso dove avverrà l’interrogatorio ed un muro scorciato sullo sfondo (scene di Michael Curry, costumi appropriati di Andrea Schmidt-Futterer e le luci fredde di Mark Jonathan).
Credo che tutta la regia si sia concentrata nell’esaltazione delle doti della Denoke, perché gli altri erano solo un pallido, sbiadito contorno; una regia “narrativa” che si lasciava seguire senza alcun problema, ma senza essere graffiante o particolarmente originale come ci si sarebbe potuti e dovuti aspettare da un regista così personale; in pratica poteva metterla in scena chiunque in queste condizioni, vuoi anche per il taglio ai fondi che ha dovuto subire.
Cinque i minuti di applausi al termine della serata, buon calore nei confronti di Mehta e della Denoke, da parte di un teatro pieno nel II° ordine, con molti posti vuoti nel I° e decisamente vuoto per metà in platea.
Insomma Janáček fa ancora un po’ di paura… e sonnolenza.
P.S. Circola da un anno per vari Blog e Forum esteri la notizia, che aspetta solo conferme o smentite, secondo cui la signora Denoke sia la candidata per interpretare Brunnhilde nel nuovo “Ring” prodotto a Bayreuth nel 2013 con la nuova regia di Frank Castorf: è scherzo od è follia siffatta profezia?
Bella recensione, Marianne, soprattutto nella parte generale esplicativa dei temi dell’opera. (Suggerisco per il futuro che, soprattutto per i titoli più desueti, si prepari all’ascolto gli utenti del sito pubblicando degli articoli esplicativi sulle opere in cartellone…. se non è chiedere troppo )
Sono stato anch’io a Firenze, mi incuriosiva il titolo e la Denoke, artista che non avevo mai ascoltato dal vivo.
L’opera è molto interessante, si vede che nasce da un lavoro teatrale: la storia si sviluppa come in un giallo in cui gli indizi sono svelati a poco a poco sino alla sorpresa finale.
Per poter comprendere l’opera, non nascondo che necessiterebbe almeno un secondo ascolto, in quanto la mia attenzione è stata rapita, più che altro, dalla comprensione dell’intreccio, piuttosto complicato trattandosi del racconto di una disputa legale che dura da “solo” 100 anni….
Sull’esecuzione dell’opera concordo, sostanzialmente, con la Signora Brandt. Devo dire che mi aspettavo la Denoke vocalmente più usurata, invece ha mantenuto un buon colore e una buona proiezione di voce (molto migliore, ad esempio, della recente Nylund alla Scala come Marescialla, ruolo che la Denoke canterà a Firenze la prossima stagione). Certo, i difetti ci sono tutti, soprattutto non appena la cantante debba salire sopra al rigo.
Però, però….. al suo apparire in scena, all’interno dello studio legale (scena che, secondo me, è stata la migliore della regia) ha catalizzato l’attenzione, oltre che per l’avvenente presenza, anche per la recitazione raffinata accompagnata da uno stile appropriato. In particolare, la Denoke mi è piaciuta nei primi due atti, dove risalta il lato freddo, cinico, nonchè misterioso della protagonista, mentre – secondo me – nel terzo atto (pur sempre ben eseguito) non è emerso in pieno il lato malinconico e tragico della sua condizione di donna destinata a non amare a causa della sua longevità.
Confesso un piccolissimo cedimento alla sonnolenza anche da parte mia durante il primo atto dovuto, non alla noia per l’opera, ma alla stanchezza accumulatasi la sera precedente per la trasferta allo stadio di San Siro e per i festeggiamenti successivi vista la vittoria della mia squadra del cuore… 😀
Anche io mi aspettavo molto, molto peggio dalla Denoke, ed anche che mi stupisse molto, molto di più, cosa che non è avvenuta nemmeno ascoltandola nelle incisioni, nelle registrazioni e nei DVD, ma a parer mio è da considerarsi più una bravissima attrice che “canta”… magari nell’edizione in prosa avrebbe brillato ancora meglio 😀
Immagino allora che i primi due atti abbiano causato sonnolenza e attacchi di narcolessia diffusi a teatro perchè erano tutti con te a festeggiare a San Siro la sera precendente e non perchè i più “tosti” da digerire 😀 (si scherza!)
Marianne
Grazie, Marianne, perche’ la tua recenzione mi ha finalmente invogliato a vedere il DVD, che tenevo gelosamente vergine, del caso Makropulos registrato a Glyndebourne nel 1995 con la eccezionale Anja Silja . La difficolta’ dell’ascolto e’ stata ripagata dalla scena finale (grande Brian Large !)
Figurati Massimo!
Averti incuriosito mi fa solo piacere, anche se fonderei molto volentieri l’audio dell’edizione MacKerras con la Soderstrom alle immagini di quel DVD, mal sopportando la voce della Silja ;).
Ma la regia di Lehnhoff, il montaggio di Large e la direzione di Davis sono a parer mio molto suggestivi.
Marianne
Senti, Marianne, io non ho visto la prima, ma la terza e la quarta. Che mi sono piaciute molto, soprattutto l’ultima, che purtroppo aveva per cornice un teatro semivuoto; hanno perfino chiuso la seconda galleria e mandato tutti nella prima. A Firenze a teatro non va più nessuno, per motivi che non capisco bene; pensa che durante l’ultimo Maggio il teatro aveva vistosi posti vuoti addirittura per il meraviglioso concerto di Esa Pekka-Salonen con la Philharmonia. Se penso a quello che succedeva a Firenze alla fine degli anni Sessanta e per tutti gli anni Settanta…Per tornare al Makropoulos, mi hanno detto che l’esecuzione è cresciuta molto durante le repliche. All’ultima anche gli ottoni erano perfettamente a fuoco. Per quanto riguarda l’interpretazione, è vero che era un po’ tardoromantica e mancante di quell’asciuttezza ed asprezza che la matrice contadina di Janacek sembra pretendere per ragioni idiomatiche.Tuttavia non mi dispiace cogliere alcune assonanze di Janacek con la grande musica europea coeva, assonanze che lo tolgono da quell’isolamento in cui l’avrebbe voluto confinare certo nazionalismo cèco, che non gli rende pienamente giustizia. Eccellente anche la prova della Denoke, che vocalmente non è né la Soederstroem né la Kniplova, ma che riscatta certe asprezze con una voce ben proiettata; anche se un po’ di commozione manca, e questo non mi fa presagire nulla di buono per il prossimo Rosenkavalier, che è cosa ben diversa dal Makropoulos. Lo spettacolo visivo infine non mi è dispiaciuto, scabro, essenziale e curato nella recitazione; magari questa essenzialità èun po’ dovuta alla scarsità di fondi, dato che mi è stato detto che il regista all’inizio aveva ben altri progetti. Resta che questa nudità visiva un po’ confligge con la morbidezza che viene dalla buca; ma non è assolutamente detto che le immagini e le note debbano sempre raccontare la stessa storia.
Ciao
Marco Ninci
Marco, l’unico spettacolo che ho visto al MMF è stata la “Poppea” alla Pergola e li per fortuna il teatro era pieno, malgrado qualche posto vuoto, ma non troppi, ed il pubblico molto freddo e dormiente.
Ci si sta disaffezionando al MMF?
Può darsi, soprattutto a causa di serate mediocri come “Adriana Lecouvreur”, “Forza del destino”, “Tosca”, “Aida” (in cui però a salvarsi c’era la Hui He, mentre nella “Poppea” la Graham brillava da sola), ma senza dimenticare l’eccellenza de “Frau ohne Schatten”, “Salome” (malgrado la direzione noiosa, ma due cantanti a fuoco), “Elektra”, “Volpe astuta”, “Ring”…. Quest’anno si concluderà con due riprese francamente inutili (Bohème, Barbiere) che spero rimpinguino le casse, ma….
Hai visto la nuova stagione?
Si poteva osare di più invece delle solite Tosca, Traviata, Schicchi e Turandot (anche se i titoli di punta sono altri: Bolena, Viaggio a Reims, Barbablù, Rosenkavalier, il ritorno per me gradito della Wilson).
Ogni anno da dieci anni va avanti la tiritera che sarà l’ultima stagione… magari il pubblico è stanco anche di questo e lo capisco.
Tornando al Makropulos, mi auguro che la lettura tardoromantica di Mehta abbia un approfondimento in futuro, perchè personalmente l’ho trovata originale e di grande pertinenza; occorre rodarla però per farla diventare ancora più originale e personale e c’è bisogno di una orchestra dal suono più solido e pulito che fino a due-tre anni fa possedeva, ora… ma ben vengano queste letture non solo aspre, o colorate, o asciutte, è il bello dell’interpretazione ed è ciò che mi piace ricercare e che più mi incuriosisce.
La Denoke, che purtroppo non è la Kniplova né tantomeno la Soderstrom o quanto meno non sfiora il livello di nessuna di loro, ha i pregi di essere carismatica, di avere personalità e di avere la voce sonora, eppure non mi basta. Le fantasmagorie che avevo letto in giro non le ho viste in lei e come Marescialla occorre “cantare” e non solo dialogare.
Anche per me le il conflitto tra scena e musica può creare nuovi appassionanti orizzonti e soluzioni narrative accattivanti… certo occorrerebbe che il teatro mettesse a disposizione i fondi promessi all’autore, perchè, come in questo caso, altrimenti si fa di necessità virtù, anche se dal gran nome una zampata più graffiante si vorrebbe.
Ciao
Marianne