Il Verdi Festival 2011 è stato inaugurato ieri sera con il Ballo in Maschera, protagonisti il debuttante Francesco Meli ed il soprano Kristin Lewis, sotto la guida di Gianluigi Gelmetti.
Spettacolo che ha sortito effetti del tutto diversi da quelli dell’anno passato, anche se nel merito della resa artistica non è stato tutto oro ciò che ha brillato. Anzi.
Cartina di tornasole: il successo pieno e meritato di Serena Gamberoni, la migliore del cast, Oscar dalla voce piena e non squittente. Non che non abbiamo percepito come la cantante tenda a sfuocare il suono nei piani mentre gli acuti estremi non suonino sempre timbrati, ma ha comunque avuto il merito di scontarci, finalmente, la voce puntuta e querula degli Oscar di routine, conferendo al personaggio una statura da prima cantante e non da comprimaria. E, guarda caso, il pubblico, che non so quanto sia effettivamente informato sulla storia interpretativa del ruolo, sulla volontà di Verdi di scrivere un‘opera per cinque prime parti, sui modelli desunti dal Gran-operà etc.., ha apprezzato la prova della signora Gamberoni, segno che la sintonia con la storia ( anche se casuale, come in questo caso ) produce sempre un riscontro positivo nei fatti.
In ordine di merito segue il signor V. Stoyanov, che ha offerto una prova migliore rispetto alla Forza del Destino della stagione scorsa. Di lui abbiamo già detto altre volte, e non è cambiato nel frattempo. Restano gli acuti indietro, la voce di certo non imponente ed una carriera non breve, trascorsa a cantare anche ruoli troppo pesanti per il suo mezzo. E’, però, un cantante vero, che sa amministrarsi bene e metter in primo piano le qualitàsoprattutto la compostezza ed un fraseggio senza volgarità, gigionate e porcherie assortite che i baritoni odierni ci dispensano. Ha iniziato non bene, ghermendo le prime frasi di “Alla vita che t’arride” ma eseguendo il resto dell’aria con bel porgere. In difficoltà come gli altri sulla scena con lui, al terzetto del campo, di scrittura acuta, ha amministrato bene la prima parte di “Eri tu” all’atto successivo. Sulla seconda sezione, “O dolcezze perdute o memorie”, dove il legato e il canto a fior di labbro la fanno da padroni, ha mostrato la corda, complice anche un tempo troppo lento che ha messo in primo piano durezze, limiti timbrici e certa difficoltà a salire legando, come prescritto da Verdi. Una prova comunque valida ed efficace.
Debuttava Riccardo il beniamino di casa, Francesco Meli, che ha riscosso grande, prevedibile successo. Si è presentato riposato, in condizioni diverse dalla brutta Bolena viennese e dalla faticosa Lucia torinese, cantando senza far sentire troppo i noti acuti strozzati, complice la parte centralizzante. Il suo canto non è mai stato né sguaiato né volgare, anche se l’emissione è evidentemente “naturale”, mai in maschera o sul fiato, gli acuti emessi senza eseguire il passaggio di registro. Il risultato è un tipo di canto a due binari, come sempre in questo modo non “artistico” di cantare, ossia o sul forte o sul piano, che è sempre in falsetto (falsetti stilisticamente fuori luogo, talora eseguiti anche dove i piani non hanno senso espressivo), aggravato dal fatto che la voce si è ridotta di volume e non è mai stata in primo piano di fianco ai colleghi. Il giovane tenore genovese se era inadatto prima al canto verdiano, lo è a maggior ragione oggi, con la voce sottoposta a quella consunzione e “spolpamenti” che affligge, come lui, anche gli Alvarez, i Villanzon etc, e che è figlia del canto lirico non correttamente impostato. Francesco Meli nel Ballo può destreggiarsi nel primo atto, di canto brillante e spavaldo, con la passione e il dramma ancora da venire, ma che la voce sia inadeguata è già chiarissimo: a soccombere gli bastano il confronto con Oscar, poi con Ulrica, l’impossibilità a svettare negli assiemi per assenza di libera risonanza nella sala. Quando poi la parte cambia passo, ed arrivano il duetto d’amore, il terzetto e l’aria, il gioco è fatto. Le grandi frasi di slancio lo vedono soccombente, il registro grave è sordo ( inopportuni anche in precedenza “Dì tu se fedele” i salti sotto il rigo, dato che è quasi inudibile), il fraseggio privo di varietà causa la voce senza ampiezza e volume; quindi l’aria, cantata, si certo, ma senza un vero legato, le frasi monotone, una dopo l’altra, senza espressione che non sia qualche tentativo di piano. La vera dinamica è altra, il fraseggio, quello sulla parola, la messe di forcelle e di segni di espressione che costellano la scrittura del canto, come pure la dimensione aristocratica del porgere, vengono da un uso del fiato sconosciuto al giovane tenore. Non basta sostare al proscenio per cantare le frasi travolgenti “Si rivederti Amelia…” che introducono la scena della festa se la voce è quella di Nemorino che canta “Dulcamara volo tosto a ricercar”, ci vuole l’espansione di Bergonzi. Il fraseggio poco vario lo si può perdonare alla voce squillante e “dolbysurround” di Pavarotti, non a quella di Meli, che non riesce mai a staccarsi la voce di dosso per proiettarla nella sala. Verdi risolve il problema tecnico del passaggio di registro (… si fa per dire ) ma ne pone altri e diversi al cantante naturale, come abbiamo ben visto al Trovatore di Alvarez l’anno passato. L’aggettivo per la sua prova è, in definitiva, inadeguato al ruolo.
Ulrica era la signora E. Fiorillo, che ha dato alla serata un contributo prezioso: segnare, con le poderosa sonorità delle sue note di petto con cui ha attaccato “Rrrrrrrrreeeeeeeeeeeee dell’abisso”, il target che una voce verdiana vera dovrebbe possedere. Da lì in poi, una voce spaccata in due tronchi ( molto grande il “buco “ al centro ), la parte centro alta priva del legato, della qualità timbrica e del volume di un tempo, i primi acuti indietro e urlati; quella grave, enorme, tutta di petto. Una Ulrica senescente (il suo debutto risale al 1983), non certo soddisfacente e che ha galleggiato solo in virtù del registro basso.
Quanto alla signora K. Lewis, oggetto principale del mio interesse, date le parole spese sulle sue prove recenti, è stata una totale delusione, oltre che la peggiore del cast. Annunciata come “grande voce”, da qualche sciagurato visionario addirittura indicata come “la nuova Price”, possiede semplicemente una comune voce lirica, assistita da un bagaglio tecnico degno di una principiante che, alle prese con una parte molto pesante, le consente solo di “vociare”. Cantanti giovani ( mica poi troppo! ) possessori di una certa dote ma privi del necessario corredo tecnico, se parcheggiati incautamente su parti come questa, che richiedono professioniste solidissime, e qualcosa di più della professionalità per imporsi sotto il profilo artistico, possono soltanto essere consegnati alla rovina precoce. Rispetto alla prova fiorentina del Trovatore, la parte acuta della voce mi è parsa ancor più sguaiata, le note alte berciate, talora anche stonate e fisse, fossero gli acuti tenuti del duettone o quelli accentati della scena della congiura o della festa. Del resto, all’apparire in scena, nell’antro di Ulrica, le sono bastate le prime frasi centralizzanti “ Segreta acerba cura…” per incespicare, e l’aereo “Consentimi o signore “ ( che a memoria direi non si spinga oltre il la acuto ) per “fischiare” le note. La grande voce, paradossalmente, è grande laddove urta le orecchie, ossia nel registro superiore, mentre il centro è composto da suoni di volume modesto, aperti, schiacciati, spesso abusati sulle E, spampanati, tipico cantare di quei soprani che non posseggono i fondamentali del fiato. Incommentabile poi l’esecuzione sguaiata del terzetto con Riccardo e Renato, come anche della scena della congiura. Parti come questa poi, che mettono alla corda ogni cantante, grande o mediocre, non possono che scoprire ed amplificare le lacune. Una topica della direzione artistica, perché se è vero che è quasi impossibile trovare un perfetto soprano da Ballo, è altrettanto vero che per Amelia non si può fare a meno di una voce dotata di acuti, dato che la parte ne è costellata. E che il tallone d’Achille della signora Lewis stia in quella parte della voce venne rimarcato da numerose recensioni all’epoca del Trovatore fiorentino oltre che da vox populi web. Una vera delusione che inspiegabilmente il pubblico, forse perché offeso ed umiliato dalle vicende politico giudiziarie cittadine, non si è sentito di stigmatizzare come avrebbe meritato: c’era desiderio di una serata serena e gioiosa, ma l’orgoglio di una città ha poco a che fare con il canto….anzi. Non sta alla cultura soccorrere le magagne della politica, ma sta alla politica servirla ed onorarla.
Male la direzione di G. Gelmetti, senza fascino e bandistica negli ensemble. Nessuna atmosfera, nessuna tensione drammatica, nessun accompagnare il canto commentando o cantando con l’orchestra, assenza di tensione drammatica ( la scena della congiura per tutti..), un magma indistinto ove ogni introduzione d’atto era uguale come clima e colore alla precedente, la congiura alle scene di corte del primo…etc Troppo poco per un direttore esperto e blasonato come lui, soprattutto perché il palco aveva bisogno che la buca supplisse certi limiti del canto.
Produzione affidata a Massimo Gasparon “da un’idea di Pierluigi Samaritani”, che alterna tratti piacevoli ad altri parrocchiali, come la scena della festa dell’ultimo atto, conditi da ingenuità ed incongruenze, prima tra tutti la presenza in scena, al primo atto, di cardinali cattolici, con tanto di talare e borromeo rossi, in un contesto anglossassone e protestante!! Siamo favorevolissimi a che non si costringano i cantanti ad assurdità registiche contrarie a ciò che serve al canto, a cominciare dalla postura in scena, ma anche un eccesso di banalità e completa assenza di idee paiono altrettanto inaccettabili.
15 pensieri su “Verdi Festival 2011: Un ballo in maschera”
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Non ho ascoltato la diretta di questo Ballo, ma l’esito della recita era prevedibile. Ascoltai Francesco Meli eseguire alcune arie del repertorio verdiano l’anno scorso, mi pare proprio a Parma, durante un concerto di beneficenza di cui veniva trasmessa la diretta streaming sul sito del teatro.
Giulia parla di “voce naturale” strozzata in alto e sorda in basso, incapace di fraseggiare e povera di colori, e a parer mio la ragione di ciò, dal ricordo che ho di Meli in quel concerto, è presto detta: la voce è tutt’altro che “naturale” (a meno che con “naturale” la Grisi intenda voce priva di educazione), ma anzi è tutta gonfia, ingolfata e allargata nel centro, forse per illudere il pubblico di possedere la cavata da vero verdiano (l’impressione mia però era quella di una voce senescente, dal timbro irriconoscibile), e la fisiologica conseguenza di questa ingolfatura è la sordità dei gravi e l’impossibilità di salire senza fatiche e stimbrature. Non parliamo poi del fraseggio e dei colori, che una simile organizzazione vocale impedisce completamente. Insomma, più che di “canto naturale”, parlerei di “canto caricatura”, la parodia del vero canto, ossequiante lo stereotipo del cantante lirico dotato di “vocione” da cartone animato.
completamemte d’accordo con la recensione,anche per me la migliore è stata la Gamberoni,per la Fiorillo sono d’accordo su una voce abbastanza consunta,ma è un vero mezzosoprano,un coltralto come richiede la parte tenebrosa che Verdi voleva,musica cupa scura,che sembra che debba venire dagli inferi,la Lewis non è da grande palcoscenico,eppure leggendo la biografia sembra che abbiano per lei in serbo grande cose..staremo a vedere
Ancora una volta, commentiamo i mediocri esiti artistici di un Festival Verdi la cui esistenza, a questo punto, non si capisce davvero che senso abbia. Una rassegna senza un progetto musicologico serio (non lo dico io, l’ ha affermato un artista parmigiano illustre come Michele Pertusi), con produzioni basate su regie routiniers, cantanti di second´ordine, orchestra e bacchette di terz’ ordine, ma a prezzi di primo ordine, rende un cattivo servizio a Verdi e costituisce un aggravio inutile per le casse pubbliche.
Se i signorotti locali vogliono continuare a organizzarla, per pavoneggiarsi nel foyer del Regio e davanti alle telecamere di Tele Parma, facendo il 7 dicembre al culatello, che caccino fuori loro i soldi e se la facciano da soli.
Saluti.
Salve signori.
Visti gli interpreti invece di un ballo in “maschera”, l’opera la chiamerei in un altro modo, visto che, le voci ballavano, ma non proprio in “maschera”. Comunque, che fine ha fatto la lunga tradizione degli spietatissimi loggionisti parmensi??
Un saluto
Niccolò della Ripa
i parmigiani vogliono bene al teatro alla loro città al campanile al sindaco al sovrintendente , dal sindaco scelto. Hanno quindi deciso per questo debordante amore di auto limitare le loro reazioni . Così hanno dimostrato al mondo intero che a parma restano solo salumi e formaggi. Del resto sia verdi che toscanini lo avevano capito. A parma non ci sono stati nemmeno da morti.
stavo leggendo la recensione di una certa Patrizia che vive e scrive in un altra parocchia, su Meli scrive “La serata registra l’atteso debutto di Francesco Meli come Riccardo. Il tenore affronta il ruolo puntando sulle eccellenze della sua vocalità, che sono il timbro solare ed accattivante, il canto sul fiato che consente grande libertà di fraseggio, il controllo delle dinamiche che risolve con morbidi “pianissimo” i momenti più intimi e trova accenti decisi nell’affrontare gli aspetti pubblici del personaggio.”
a me veramente all’ascolto questo canto sul fiato proprio non l’ho notato,i pianissimi ..si nel senso che cantasse dal fondo del palco
anche se eramo alla tv parma,poi il fraseggio di che fraseggio parla
sulla Fiorillo potrei essere abbastanza d’accordo quando scrive”Ulrica ha il colore scuro e drammatico di Elisabetta Fiorillo. Il suo “Silenzio”, profondo come l’inferno, è esaltante. Nel cambio di registro il suono tende talvolta a perdere fermezza ma il personaggio non ne risente affatto e ottiene grandi consensi.
come sono d’accordo sul giudizio della Gamberoni la migliore.
lasciando stare il resto,questa è la prova che ognuno ascolta l’opera con le sue orecchie,e punti di vista,ma su Meli doveva avere le orecchie ” distratte” forse pensava ad altro…
Scusa Pasquale, ma perchè queste osservazioni non le scrivi direttamente sull’altra parrocchia in modo che chi ha scritto la recensione possa risponderti?
davide non ho nessuna voglia di innescare polemiche la sopra,non ho voglia di passare tre giorni a battere,e ribattere,se vuole qui le porte sono aperte che io sappia,venga a qui..
Ma non eri tu quello che diceva che non bisogna essere cattivi perchè se no i teatri chiudono? O forse ho un vuoto di memoria?
ma io mozart non ho detto niente di cattivo….
Conosciamo bene la competenza della signora MOntever: ne ha dato prova preclara l’anno passato. Se Meli canta sul fiato, ci spieghi allora la signora come cantavano GIgli o Pertile dato che e’ incontrovertibile che non cantassero come meli. Impadronirsi del lessico tecnico per incensare a vanvera non la rende credibile di certo, ma sempre piu’ inatttendibile. Del resto mi pare si stia adoprando per premiare K Lewis a parmalirica, cosi’ oltre alle stagioni teatrali toglie ogni valore anche i premi dei circoli lirici.alla Lewis si puo’ dare un borsa di studio parmalirica per lo studio del canto.
Onde evitare il sorgere di polemiche. Saper. Cantare sul fiato implica saper eseguire il passaggio di registro, quindi fare gli acuti. Meli non sa passare e infatti si strozza salendo. Ecco dimostrata l’inadeguatezza della sign MOnteverdi all’attivita’ di critico.
Dico la mia:
Meli, dopo le prove non solo poco esaltanti, ma francamente brutte di “Maria Stuarda” (Scala), “Anna Bolena” (Vienna), “Lucia di Lammermoor” (Torino) arriva al “Ballo” con una voce in difficoltà, con meno ampiezza che in passato, secca direi.
Gonfia come un bimbo che imita il vocione del papà, non risolve bene il passaggio, si aiuta con portamenti vari (non è né il primo, né l’ultimo), ma ha di buono il timbro, ma non si canta solo col timbro o con la natura… non è voler fare la maestra di musica, è proprio attenersi ai fatti!
La Lewis, o “Crishtinn Leviss” come disse il conduttore, rispetto alla Leonora che vidi e ascoltai a Firenze (non 10 anni fa, praticamnete l’altro ieri) è solo l’ombra pallente di se stessa: stridula, querula e ingolfata oltre che con una intonazione che… lasciam perdere.
A Stoyanov restano buon timbro e un buon registro grave, una certa correttezza nel fraseggio, un certo gusto, ma in alto ormai…
La Gamberoni si disimpegna tutto sommato con decoro, la Fiorillo “recita” ormai la parte di Ulrica con quel che resta dello strumento (ampio nei gravi, ma oscillante oltre il limite del possibile al centro e soprattutto in alto).
La direzione praticamente non aveva alcun senso.
Il pubblico che deve accordarsi sull’applaudire PER FORZA uno spettacolo perchè altrimenti si chiude e bye bye Verdi festival, il pubblico che deve accordarsi per dire che tutto è bello, sublime, unico, il pubblico che deve GIUSTIFICARE tutto, perchè consapevole evidentemente della mediocrità, il pubblico che deve chiedere l’elemosina e fingere di darsi un tono di fronte alla politica riempiendosi la bocca di “cultura”, è uno spettacolo molto, molto patetico.
Marianne
L’ ultimo paragrafo del commento di Marianne andrebbe fotocopiato e distribuito all’ entrata di ogni rappresentazione operistica di oggi, non solo in Italia ma dappertutto!
Ieri sera a Parma ho visto il Ballo con due cantanti del secondo cast pur rimanendo il Riccardo di Meli, il Renato di Stoyanov e l’Oscar della Gamberoni. Inqualificabile l’Ulrica di Nicole Piccolomini mentre una piacevole sorpresa è stata l’Amelia di Alisa Zinovjeva, (avevo assistito alle nefandezze della K. Lewis nella diretta di Parma Tv ed ero preparata al peggio). La bella Zinovjeva, lungi dall’essere perfetta, dopo incertezze iniziali e tentativi di scurire la voce ha, complessivamente, cantato in maniera corretta . La sua Amelia contenuta ma trepidante ed amorosa, mi è parsa credibile benché troppo lirica ed anche il pubblico ha mostrato di apprezzare. Meli particolarmente fuori forma, si udito poco e ha spinto molto.