Così mi scrive il nostro Manuel Garcia:
“L’esecuzione e l’interpretazione della musica barocca, negli ultimi tempi, ha preso una brutta piega. Diverse compagini “specializzate”, italiane e non, si sono prodigate nel diffondere e nel divulgare, con risposte talvolta assai positive da parte del pubblico, un’immagine del barocco, dal mio punto di vista alquanto discutibile. Tale musica, si sa, dà grande libertà all’esecutore sia esso violino solista sia esso un basso continuo, libertà che però talvolta può risultare una pericolosa arma a doppio taglio: il grande rischio è che qualcuno se ne possa prendere troppa portando quindi ad una alterazione eccessiva dello spartito attraverso una modificazione, diciamo così, di tempo e ritmica o attraverso l’accentuazione smisurata di determinati segni d’agogica e d’abbellimento, per citare qualche caso. Il tutto secondo criteri che al sottoscritto non sono mai stati del tutto chiari, forse perché in fondo neanche a loro…
In questo panorama così variegato in forme e contenuti, l’Accademia Bizantina continua a rappresentare una rara avis: è il grande rispetto che il gruppo ravennate ha nei confronti dello spartito in quanto tale ha marcare una profonda differenza rispetto a tante e tante altre compagini barocche.
A ciò si aggiungano altre qualità che altro non fanno che allargare sempre più questa diversità: grande raffinatezza di suono, sempre pulito, rotondo e concreto, mai spigoloso e aggressivo, e una grande energia nell’esecuzione mai squilibrata nell’accentare, negli attacchi e negli accompagnamenti allo strumento solista, e soprattutto mai noiosa, mai soporifera.
Di tutto ciò, o quasi, ha dato mostra Ottavio Dantone e il suo gruppo davanti al pubblico milanese presso il Conservatorio in occasione del concerto inaugurale della stagione 147° della Società del Quartetto, fondata nel 1864 da Arrigo Boito e Tito Ricordi per “Incoraggiare e diffondere il culto della buona musica con pubblici e privati concerti, particolarmente nel genere del Quartetto e della Sinfonia”.
Il programma comprendeva i quattro concerti per clavicembalo (precisamente il BWV 1052 in re minore, il BWV 1053 in mi maggiore, il BWV1055 in la maggiore e il BWV 1056 in fa minore), incisi per la Decca tre anni fa, composti da Johann Sebastian Bach principalmente a Kothen (1717-1723) dove, in qualità di Kappelmeister, avendo a disposizione musicisti di grande qualità, poté affrontare nuovi orizzonti musicali tra cui appunto quello concertistico; altri invece vennero scritti nell’arco dei primi anni della sua ultima, lunga e intensa fase di Lipsia (dove appunto morirà nel luglio del 1750), sotto il forte impulso del Collegium Musicum guidato e fondato dall’acuto spirito musicale di Telemann. La celebre compagine di Lipsia, che tanto peso avrà nella vita musicale del Bach maturo e di cui prenderà la direzione alla morte del suo celebre predecessore, teneva concerti con frequenza settimanale in un Caffè della città, il cosiddetto “Caffè Zimmermann”. E fu proprio in queste circostanze, in questi luoghi al chiuso e “borghesi”, che ebbero luogo le “prime” dei concerti in questione.
Ma veniamo al concerto milanese: ho detto prima che molte delle qualità dell’Accademia Bizantina sono emerse apertamente nei vari momenti della serata. Tutti o quasi. Rispetto ad altri concerti e alle numerose incisioni, l’altra sera sono emerse delle ombre, non scurissime, ma tali tuttavia da inficiare parzialmente l’esecuzione e di conseguenza il godimento da parte dell’ascoltatore. E mi riferisco a piccole sbavature, piccole macchie di inchiostro che, scusate l’ovvietà, non possono, non devono esserci, in una pagina da concerto.
Andiamo con ordine.
I bassi, ossia il violoncello, il contrabbasso e la viola, hanno costruito un accompagnamento assolutamente chiaro e ben delineato, mai invadente nelle parti soliste, mai assente nelle parti orchestrali, con un suono rotondo, concreto, e capaci di eseguire sfumature inaspettate e piacevolissime all’ascolto.
Tra i violini pesante, dal mio personale punto di vista, è stata l’assenza del primo violino “ufficiale” dell’Accademia, Stefano Montanari, per la cui sostituzione è stata fatta una scelta poco felice. Il primo violino ha infatti mostrato da un lato una certa reticenza all’intonazione in alcuni passaggi e, vizio doloroso di certi violinisti barocchi, la tendenza alla nota fissa.
Veniamo ora al vero protagonista: Ottavio Dantone, solista e “direttore” del gruppo. In entrambi i ruoli ha dato mostra di grande sensibilità musicale, talvolta di buon fraseggio, soprattutto negli splendidi adagi, e di gusto corretto ed equilibrato, sempre adeguato ad ogni circostanza, sia, ad esempio, al fuoco del terzo movimento di squisito gusto italiano e, in un certo qual modo, vivaldiano/corelliano del BWV 1052, sia all’adagio imponente e severo del BWV 1053 (di fatto una trascrizione dalla Cantata 169) più vicino al gusto musicale della sua Germania profondamente intrisa di protestantesimo. Anche qui, e me ne dispiaccio per la grande stima che nutro verso il clavicembalista in questione, non ho potuto non notare alcune, seppur lievi, imprecisioni e distrazioni: note sbagliate, talvolta accordi, che hanno offuscato, anche se in maniera assai leggera, una serata assolutamente piacevole, di buona e sincera musica barocca lontano dalle fisime e dalle ossessioni filologiche odierne.”
Premettendo che concordo con il giudizio positivo dato su Dantone e la sua compagine, vorrei fare una domanda: cosa ne pensi invece di Rinaldo Alessandrini e dei suoi “Concerto Italiano”? Hai mai sentito la sua incisione dei Gloria di Vivaldi RV 588 e 589?
Mi trovo quasi completamente d’accordo con questa recensione. Accademia Bizantina è il complesso che più si distingue dagli altri ensemble “barocchi” per la cura del suono e dell’espressività, senza cadere in interpretazioni schizofreniche o tachicardiche (penso a un signore belga…)
Per quanto riguarda gli errori esecutivi di Dantone ritengo che la perfezione non sia di questo mondo (probabilmente esiste solo nel platonico Iperuranio) perciò qualche piccola svista può accadere, anche ai più grandi, non trattandosi di errori madornali. E’ probabile che Dantone ci abbia parecchio riflettuto, perché ho notato che in moltissimi musicisti l’atteggiamento è sempre lo stesso: anche io (nel mio piccolo), dopo un concerto, mi mordo le mani per un giorno intero se ho commesso anche solamente un piccolissimo errore (magari percepito solo da poche persone), ed è un atteggiamento che mi è stato raccontato anche da grandi esecutori, che rimangono di cattivo umore ma senza minimamente darlo a vedere
Rinaldo Alessandrini è un altro che inserirei a pieno merito tra i bravi barocchisti odierni: le sue incisioni di Vivaldi (Gloria, Concerti per Archi, Olimpiade, Vespri dell’Annunciazione- sulle ultime ovviamente sorvolo riguardo al cast vocale…) sono tra le migliori al giorno d’oggi. Ma ha ottenuto validissimi risultati anche in Handel ad esempio.
Megacle, l’imperfezione ci può stare, ma è meglio evitarla: anche le piccole sbavature, per quanto mi riguarda, possono danneggiare un quadro nel complesso molto bello e ben costruito.
Certo, si perdona soprattutto quando si capisce che è semplice diastrazione. Ma per la stima che nutro verso Dantone ho ritenuto necessario esprimere il mio parere a riguardo. Mi avrebbe dato fastidio tacere.
Io credo che l’esecuzione della musica barocca in questi ultimi tempi non abbia affatto preso una brutta piega…tutt’altro, visto che è sempre più frequentata e presente nelle sale da concerto e gli spazi ad essa dedicata aumentano esponenzialmente. Anzi, proprio negli ultimi anni si è abbandonata l’intransigenza dei pionieri della ricoperta della prassi autentica (a volta perseguita in modo meccanico e irragionevole, più da professori che da musicisti). Proprio il resoconto che fai del concerto dimostra il contrario: ci sono moltissime compagini interessanti di musica barocca (Accademia Bizantina, Concerto Italiano, Collegium Japan, Le Concert des Nations, Boston Baroque, Anima Eterna, Les Musiciens du Louvre, I Barocchisti, Le Concert Spirituel, Il Contrasto Armonico, La Cetra, La Risonanza, La Venexiana, Ensemble Elyma, Modo Antiquo, l’Academia Montis Regalis….per non parlare dei “classici” complessi di Gardiner, Hogwood, Pinnock, Herreweghe) per nulla riconducibili all’idea stereotipata del barocchismo secco e sgradevole. Senza contare le contaminazioni: sempre di più si assiste ad un proficuo ripensamento delle proprie sonorità da parte di compagini moderne, sulla base del rinnovato interesse alla musica barocca (attraverso l’analisi delle prassi d’epoca), penso agli stessi Berliner, ai complessi di Lipsia o alla Tonhalle di Zurigo. Una vitalità – nella musica strumentale e sinfonica – che non si riscontra, purtroppo, in ambito operistico, dove ci si barcamena tra routine, noia e approssimazione.
Mi piace Dantone (e mi spiace non aver potuto assistere al concerto) anche se più come solista solista: le sue Goldberg e il suo Clavicembalo ben temperato (eseguiti al cembalo) sono tra le migliori incisioni della discografia.
Il fatto che ci sia un pubblico sempre maggiore e sempre più appassionato di musica barocca non vuol dire che questa stia vivendo un momento di rinascita qualitativa.
Certo, la diffusione quantitativa è innegabile: è la cosa certo, mi fa anche piacere. La mentalità di approccio verso il barocco dal mio punto di vista è però spesso discutibile, sia da parte del pubblico sia e soprattutto da parte di chi lo suona.
Io trovo, invece, che ci sia molta varietà nell’affrontare il barocco, senza inutili tributi ad un passato certamente glorioso (anche se fino a 20 anni fa questo repertorio era relegato ai margini), ma naturalmente superato. Trovo che la qualità sia in genere molto buona, i musicisti seri e preparati, e soprattutto non c’è traccia di dogmatismo… Del resto oggi riproporre l’Handel di Klemperer (con orchestre da Ottava di Mahler) sarebbe un esercizio inutile. C’è una freschezza, oggi, nella riscoperta della musica barocca che non si riscontra nel teatro d’opera (dove ancora non si sono superati certi estremismi “baroccari”). Credo che l’interprete possa e debba essere libero di approcciare la musica eseguita senza condizionamenti di una ortodossia tradizionale. Senza contare che molte delle conquiste dello studio sulla prassi d’epoca (in termine di timbro, rapporto tra strumenti, diapason e, soprattutto, uso del vibrato che – è bene ricordarlo – all’epoca era elemento d’ornamentazione e non prassi d’emissione) vengono ormai reinterpretate anche da compagini moderne: Chailly, Zinman, Abbado…
Alla fine, come sempre, la differenza la fa l’interprete: il Bach di Gould sarà sempre un punto di riferimento, ma che non impedisce di apprezzare approcci diversi. L’attaccamento a dogmi (siano essi barocchisti o passatisti) è sempre un atteggiamento di chiusura. Oggi noto che certi schematismi sono finalmente superati.
Penso, infine, che la diffusione del barocco sia estremamente positiva: un ulteriore passo per scardinare, FINALMENTE, il blocco del repertorio sinfonico al solo ’800 (con qualche concessione mozartiana)… Prima con Schonberg, Berg e Mahler (scandalosamente si sono dovuti aspettare gli anni ’70 per un integrale mahleriana in Italia) e ora con salutari iniezioni di musica barocca, i programmi concertistici non vengono più costruiti sull’asse romanticismo, pre romanticismo e tardo romanticismo.