Riflettiamo sul Fidelio

Era logico che qui ed altrove la trasferta viennese offrisse spunti di polemica e, più ancora di riflessione in questo mese di settembre che per quantità di proposte sembra febbraio o marzo.
Alcune posizioni mi sono note e sapevo sarebbero state manifestate, talchè avrei potuto dire, anzi scrivere “felice notte a te venerabile Jorge”  frase divenuta paradigma del saluto per la visita non solo attesa, ma anche agognata, altre con l’ appunto  presunta o pretesa bontà nel recensire, mi hanno molto stupito . Lo confesso e per la provenienza e per la fama che a torto o a ragione circonda le osservazioni di quelli del corriere e che so suscita giudizi, che trascendono la musica per impingere al personale. Come se la mia persona contasse più di niente e la mia esperienza personale fosse in grado di influenzare il mio sentire.
Quanto alla bontà ed al “perdono di Assisi” che avrei applicato in parte ho già risposto e la critica non nasce  da una qualità assoluta dell’orchestra della capitale asburgica, ma dal raffronto con quanto in tempi recenti fa regolarmente sentire l’orchestra dell’ex capitale del Lombardo Veneto ormai, si sa allo sbando o quasi, e bisognosa ancor più che di grandi bacchette di onesti professionisti (che non ci sono più). Solo questo.
Quanto, invece, all’esecuzione. Fra il Fidelio di Walter con la Flagstad o quello di Knappertsbusch con la Nilsson  e quello di Abbado con Nina Stemme continuo a preferire, tenermi  ed ascoltare i primi due  mentre non so che farmene dell’altro e più recente perchè quando ascolto mi è ben chiaro di essere un melomane nella precipua declinazione del vociomane , declinazione, che trattandosi di opera cantata ha la sua rilevanza irrinunciabile. Il melomane, anzi, il vociomane è irrinunciabile chiarirlo non formula giudizi sulla qualità del titolo che ascolta, o meglio, quando ascolta li prescinde perché bella o brutta che sia la Saffo di Pacini o qualsivoglia titolo quella è e quella rimane e, in quanto melomane/vociomane si preoccupa soltanto che gli esecutori abbiano le qualità necessarie perché il titolo  possa essere egregiamente rappresentato.  Nel momento in cui si affida la propria opera d’arte all’esecutore questi, credo, debba avere la perfetta cognizione e possesso dei mezzi dell’arte propria. Ed è indubbio che la signora Nilsson o la signora Flagstad possedessero sotto questo profilo quello che, per contro manca alla signora Stemme.
E’ fisiologico che Fidelio sia “finito” in mano ai  censurati wagneriani perché i primi esecutori wagneriani, che so la Brandt, la Materna etc cantavano quello che, allora, era il repertorio drammatico  dove con Ugonotti, Ebrea, Profeta, Trovatore e magari Lucrezia Borgia ci stava anche Fidelio. Per il  pubblico del 1880, ossia chi ascoltò la prima generazione wagneriana Florestan come Eleazaro, cui si erano aggiunti Tristan, Siegmund, declinavano la vocalità drammatica e tragica. Non per nulla la più perfetta esecuzione, anzi INTERPRETAZIONE dell’aria di Leonora appartiene a Lilli Lehmann. L’ho ascoltata più volte ieri e nessun soprano in un secolo di registrazioni è più varia e sfumata di questa vecchia signora, insuperabile Norma e Donna Anna , ma anche Isotta e Brunilde. Ed il ragionamento cambia poco se utilizzo ad esempio Berta Morena, Melanie Kurt, Frida  Leider. Ancora il ragionamento  non muta se propongo le esecuzioni maschili dell’aria di Florestan ed i relativi interpreti che vantano una carriera pari alle sopracitate signore.   Il punto credo sia un altro ossia che in  punto cantanti wagneriani sia facile “fare di tutt’erbe un fascio” perché sarei disonesto e ignorante se pretendessi trovare nelle Modl o nelle Varnay le qualità tecniche e per conseguenza interpretative di una Flagstd, di una Morena o di una Leider. Erano voci brade e afflitte da pesanti  mende tecniche cui Wagner creava assai meno problemi di Verdi o  Puccini. Allora non è il cantante wagneriano il cantante ad essere inadatto a Leonore o Florestan è il cattivo cantante che non può superare talune difficoltà vocali.
Poi talune difficoltà dimostrano  la scarsa sapienza in fatto di voci di Beethoven e non solo nel Fidelio. Le frasi conclusive dell’aria di Florestano con  quell’insistere su  fa sol e la acuti nel canto sillabico richiamano le scritture di Rubini e di David e poco conta che l’aria non passi – se non ricordo male –  un si bem.
Nella documentazione fonografica sono cantanti come Bonci, Lauri-Volpi o Blake che reggono senza sforzo quelle tessitura, ma con Florestano……. Con l’esempio dei destinatari di quelle tessiture la peculiarità di Beethoven come scrittore per voci è detta anche se non è certo questa osservazione capace di sminuire il gigante. E’ solo un’osservazione di cui, però, si deve tenere conto quando si parla del Fidelio.
E poi c’è l’altro punto ossia la tradizione. Anche qui sono state fatte di tutt’erbe un fascio perchè la critica segue spesso la moda, o peggio ancora i diktat di chi dovrebbero recensire ed, invece, li nutre e sfama e, quindi, impone loro di non “sputare nel piatto dove si mangia” e vorrebbe ai lettori imporre  di prendere per buone i loro scritti. Credo e mi auspico che la rappresentazione milanese, la futura torinese e la recente registrazione abbadiana (brutta!) possano costituire lo stimolo per una riflessione sulle modalità esecutive di Beethoven. Per parte mia  per un Walter ho una assoluta venerazione proprio perché era solenne e non pesante, come pure le esecuzioni di Furtwangler saranno affette da gigantismo, ma hanno una perfezione di esecuzione ed una coerenza che si fatica a scalfire,  premettendo che loro -come Abbado- sono i figli del loro tempo e come tale principio consente al tempo stesso di tutto applaudire e di tutto opinare. I temi trattati in Fidelio, che costituì un altro modo dell’autore per  ribadire il proprio pensiero, già espresso nelle composizioni sinfoniche sono intimamente e profondamente romantici, e che altri e differenti la matura stagione romantica non aggiungerà. Certo la forma ha la sua rilevanza, come l’ha nella esperienza poetica di un Foscolo ad esempio (che, non per nulla, franò miseramente nel genere classico per eccellenza ossia la tragedia), ma i temi del romanticismo e quindi dell’esperienza umana dell’uomo, che nasce dalle ceneri del mondo classico ci sono già tutti e ci sono, per versare nella fase esecutiva, con quella necessità di ampiezza, magniloquenza, che dell’arte della rappresentazione romantica sono un elemento imprescindibile. Certo non disponiamo dell’esecuzione di Carl Maria von Weber o di Otto Nicolai della Leonore, che servirebbero per capire quali fossero intensità e sonorità, che gli artisti della generazione immediatamente successiva l’autore conferivano alle esecuzioni beethoveniane e, quindi, possiamo rimanere chi, come me, con l’idea della grandezza chi, come altri  con quella del classicismo  e dell’illuminismo.
Posso però chiedere a mia volta: “Ma siete propri sicuri che il suono classico fosse quello che oggi servono Abbado e sodali?”

 

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31 pensieri su “Riflettiamo sul Fidelio

  1. Potrei replicare, caro Domenico: sei proprio sicuro che il suono classico (o quello “adatto” a Beethoven) sia quello che ci hanno servito – 70 anni fa – Furtwaengler, Walter e sodali? E lo chiedo a prescindere dai gusti personali (evidentemente differenti). Giustamente parli di interpretazioni “figlie del tempo”, ora come allora: e dunque perché sostenere che Walter “avesse ragione” e Abbado no? In base a quale crisma, a quale parametro. E se Furtwaengler è legittimato a trasformare Fidelio in una specie di dramma musicale ante litteram (con dimensioni orchestrali gonfiate e solenni), perché mai Abbado (o altri) non sarebbero legittimati, invece, ad asciugarne l’apocrifa ipertrofia? In realtà, secondo me, il punto di partenza è sbagliato: e non c’entra la melomania o la vociomania (a parte che l’opera è fenomeno più complesso ed elaborato: non è un concerto di canto). Il fatto è che non si può pensare che la tradizione (quale poi) sia un dogma assoluto! Io non credo affatto che Beethoven sia un compositore romantico (e lo dicono innanzitutto le sinfonie, per non parlare dell’opera pianistica della maturità, o gli ultimi quartetti per archi, o le enigmatiche variazioni Diabelli), piuttosto se ne appropriò il romanticismo (più tardo) come proprio epigono. Come fece con Goethe (e mi chiedo dove il Faust o le Affinità elettive possano essere ricondotte ad un’estetica romantica) o con Leopardi. Ma il discorso sarebbe complesso e lungo. E ciascuno ha il suo legittimo convincimento. Una cosa sola ti contesto: non si può – per onestà intellettuale – definire “sbagliato” un Beethoven che non ricalchi le lezioni di Walter o Furtwaengler. Atteso che, oggi, trovo grottesca la riproduzione “sic et simpliciter” di modelli figli di un tempo passato…anche perché tra la fotocopia (per quanto precisa) di Furtwaengler e l’originale, non smetterò mai di preferire quest’ultimo.
    Ps: la questione del metronomo, però, non è contestabile. Che fossero assai più veloci è documentale. Questo OVVIAMENTE non vincola la libertà dell’interprete (che può fare quel che vuole), ma neppure autorizza a ritenere “sbagliato” il ripristino degli stessi.

  2. Io, secondo il mio personalissimo gusto, dò ragione a Donzelli. Il Beethoven alla candeggina dell´attuale Abbado e dei suoi epigoni non riesco proprio a farmelo piacere. Sarà un limite mio, lo ammetto. devo comunque aggiungere che Abbado, nello spettacolo che io ho visto a Baden Baden, ha dato del Fidelio una lettura molto più serrata e intensa di quella fissata su disco.
    Quello che però vorrei dire a Duprez è che non si possono accomunare interpreti dalla visione estetica totalmente opposta come Walter e Furtwängler e che Karajan, tanto per citarne un´altro, faceva un Beethoven ricco di colori e assolutamente scevro di pesantezze wagneriane.
    Sempre a mio avviso, la concezione che Duprez ha di Beethoven mi sembra alquanto limitativa. Beethoven era un compositore indubbiamente radicato nel solco della tradizione classica, ma la sua musica contiene innegabilmente intuizioni che anticipano il romanticismo.
    Poi, per quanto riguarda il Fidelio, l´interprete che ha meglio evidenziato tutti gli aspetti dell´opera rimane Bernstein, a tutt´oggi insuperato.

    • E aggiungerei un’altra cosa… ripristinare così, senza nessuna ponderata motivazione musicale, le indicazioni di metronomo postume di Beethoven, mi sembra un’operazione indegna di un vero musicista…

      • Se leggi un po’ sotto ti accorgerai che quella di Mozart2006 è un’inesattezza.

        Se leggi un po’ sopra ti accorgerai che ho scritto come non sia “obbligatorio” rispettare i metronomi originali, ma come neppure sia un delitto ricorrere ad essi.

        Poi se a voi piace sentire una IX che dura 2 ore…beh, fatti vostri: che però facciate passare il vostro personalissimo gusto per verità vera immutabile e scolpita nel marmo, mi sembra operazione sciocca, disonesta e profondamente arrogante (con tutto il rispetto chi siete per decidere cosa sia “giusto” o “sbagliato”? Vi ha dato la patente Beethoven stesso?).

        Mi sa che soffriate un po’ di culto della personalità….

        • No secondo me il problema è impostato proprio nel modo sbagliato. Poco mi importa che Beethoven abbia segnato un certo tempo in partitura, e che l’esecutore lo rispetti alla lettera, e allo stesso modo non mi importa proprio niente di risentire l’imitazione della tradizione. Vorrei solo sentire un’esecuzione che funziona (ed il tempo è IL fattore fondamentale, e non credo possa essere deciso a tavolino, anche perché, ad esempio, volessimo eseguire le sonate per pianoforte rispettando il metronomo di Beethoven, diventerebbero praticamente ineseguibili tanto il tempo sarebbe rapido). Il mio ovviamente è solo un inciso, di carattere generale, in quanto questo Fidelio non l’ho sentito e non ho niente da dire al riguardo. Fatta questa considerazione, esco subito dalla discussione e vi lascio proseguire.

          • Quando parlo delle sonate, mi riferisco alla Hammerklavier, che mi pare sia l’unica con l’indicazione di metronomo.

          • Ovviamente l’interprete deve avere la piena libertà: altrimenti basterebbe un programma per computer. Dico solo che così come è lecito dilatare i tempi (se non sbaglio apprezzi Celibidache) è altrettanto lecito accelerarli.

            Quanto a presunte “ineseguibilità”…è relativo: anche Liszt per taluni è ineseguibile. In genere i grigi burocrati della teoria hanno sempre bollato come “sbagliate” o “ineseguibili” le cose che non riuscivano a capire o a fare…

  3. Non vedo perchè sia “limitante” ricondurre Beethoven ad un’estetica sostanzialmente classica (con larghe anticipazioni post romantiche, direi…basterebbe sentire l’Opus 111, 120 o 135, ma anche l’ambigua 83 , ossia l’VIII sinfonia, per vedere come Beethoven anticipi tendenze di molto successive, che prescindono TOTALMENTE dall’esperienza romantica, e che rivelano una razionalità formale e ideale che nulla ha a che fare col gusto romantico). Questo è frutto di un pregiudizio per cui il “romanticismo” costituisca un quid pluris rispetto ad approcci estetici precedenti: una specie di progresso o miglioramento. Non è affatto vero! L’estetica classica (che si fonda su una certa introspezione illuminista e kantiana, su Mozart e sul magistero di Haydn) non è affatto limitante rispetta all’idea titanica e posticcia di un Beethoven “eroe romantico”.
    Qianto al metronomo è utile sapere che esso fu sì inventato nel ’16, ma Beethoven ne fu tanto ammirato da riprendere in mano i suoi precedenti lavori per apporre (di proprio pugno) le indicazioni metronomiche che riteneva opportune. E non penso avesse “sbagliato” anche lui a segnare il tempo delle SUE sinfonie… Quindi non si tratta AFFATTO di congetture: a meno di pensare (esponendosi, tuttavia, al ridicolo che tale affermazione comporta) che Beethoven sbagliasse e avesse ragione Klemperer..150 anni dopo!

  4. Duprez,

    copio e incollo la parte del commento di Daland che riguarda la questione del metronomo.

    Duprez, in più di un intervento, fa riferimento alle indicazioni metronomiche che, parole sue, Del Mar avrebbe “per la prima volta” reso note alla comunità musicale. Beh, questo è francamente scorretto. Ho sotto gli occhi il tomo dell’edizione Ricordi del 1981 (quando Jonathan ancora pendeva dalle labbra di papà Norman) che recano, in bella evidenza, accanto all’indicazione agogica, il metronomo prescritto. Viceversa, nell’edizione Bärenreiter di Del Mar, in chiaro sopra i righi c’è solo l’indicazione agogica, mentre il riferimento metronomico è messo in una piccola nota a piè di pagina, con l’aggiunta – fondamentale – che trattasi di indicazione apposta da Beethoven nel 1817. E questo per tutte le prime 8 sinfonie! La cosa si spiega facilmente: Mälzel inventò il metronomo nel 1816 e Beethoven se ne innamorò a tal punto da “retrofittare” (mi si perdonerà il linguaggio informatico) le indicazioni metronomiche sulle sue opere già composte in precedenza, pubblicando due opuscoletti (nel 1817 appunto, e poi nel 1819 per i quartetti) contenenti tali indicazioni. Benissimo ha fatto quindi Del Mar a “derubricarle” a noterella.

    Aggiunta mia personale: Beethoven scrisse le indicazioni metronomiche solo per 25 dei suoi circa 400 lavori.
    Il Fidelio non è compreso tra questi 25.

    • E quindi? Che avrei detto di diverso? Beethoven ha ripreso taluni suoi lavori e gli ha messo delle indicazioni metronomiche. Mi risulta l’abbia fatto liberamente, senza che un qualche “baroccaro” lo costringesse con l’archibugio puntato alla tempia… Dico solo – ed è un fatto incontestabile – che Beethoven diede certe indicazioni metronomiche (piaccia o non piaccia la cosa), molto più veloci di come certa tradizione ha eseguito le Sinfonie… Credo sia un fatto rilevante, NON NEL SENSO CHE CI SI DEVE ATTENERE AD ESSI (lo riscrivo dato che evidentemente non avete letto), ma nel senso per cui, ricorrere ad essi, non sia il delitto di cui tanto si ciancia… :)

  5. A parte tutto, queste indicazioni vanno prese con molta cautela in quanto la meccanica dei primi metronomi era, come saprai, poco affidabile. Tant´è che Del Mar mette le indicazioni suddette solo in nota a pie´di pagina.
    Ma poi la questione della lentezza o velocità presa da sola secondo me non significa nulla.
    Vuoi un esempio pratico? Il Parsifal di Gatti a Bayreuth ad ascoltarlo dava una terribile impressione di lentezza. Quando ho cronometrato la registrazione, mi sono accorto che invece il primo atto durava circa un quarto d´ora meno del solito.
    Ma poi, senza alzare la voce, è ovvio che la filologia mette a disposizione una scelta di indicazioni che l´interprete è libero di seguire o meno. E spesso l´interprete a certe cose ci arriva anche senza l´ausilio della filologia. Un esempio? Le interpretazioni beethoveniane di Carlos Kleiber.

    • Ma guarda che non discuto della legittimità di un’interpretazione, ma vale in un senso come nell’altro. Se non è sbagliato rallentare sino allo sfinimento (prendi l’ultima IX incisa da Boehm, che dura 1 ora e 20 minuti) non lo è neppure velocizzare.

      Circa l’affidabilità meccanica, come ben saprai il metronomo si basa su criteri oggettivi, non variabili dalla tecnica, ma frutto di operazioni aritmetiche: si misura in BPM, ossia Battiti Per Minuto, e dato che il minuto aveva 60 secondi anche nel 1816, 40 BPM di oggi sono identici ai 40 BPM di 2 secoli fa…

      Del Mar li mette tra parentesi per un criterio meramente metodologico, in quanto apposti successivamente alla composizione. Nella IX, invece, non mette tali indicazioni tra parentesi, proprio perché segnate in fase di composizione.

      Ribadisco come non ritengo affatto sia obbligatorio rispettarli, ma solo che si tratti di interessanti punti di partenza.

  6. @Duprez sul fatto che l’interprete debba avere piena libertà non sono d’accordo. Deve invece saper rendere al meglio il brano che esegue per il pubblico. E pertanto deve avere l’intelligenza di scegliere un tempo giusto, che non è sic et simpliciter quello segnato dal compositore. Quella è solo un’indicazione utile ad orientarsi.

  7. Comunque sono molto curioso di ascoltare la nuova integrale diretta da Chailly, il cui voler seguire i tempi segnati dall’autore, dipende da una precisa scelta interpretativa (immagino favorito da quello strumento eccezionale che è l’orchestra di Lipsia) e non da mero puntiglio burocratico…

  8. Cari amici, ritengo che il problema della discussione sia la visione del neoclassicismo che i musicologi hanno tratto in modo manicheo dalla “teoria degli stili” nell’arte. Come al solito sono riduttivi, e questo si riflette sulle concezioni musicali.
    Il neoclassicismo è qualcosa di assai più complesso, anche nella paludata e accademicissima Francia, di quanto normalmente si sia soliti intendere. Non è certo solo quello delle architetture classiche, con colonne ed architravi, archelogismi winckelmanniani di una grecia e romanità bianche e scintillanti, teoria delle proporzioni dogmatiche tra le parti. Il neoclassicismo è un mondo complesso nel quale gli artisti affiancano ad idee classiciste più o meno rigide anche neomedioevismi ( guardatevi bene Schinkel, che di fianco a Beethoven ci sta un gran bene), architetture estreme e capricciose ( dagli elefanti-architettura di Patte a Parigi alle pagode cinesi ed ai padiglioni neomediovali dei parchi inglesi), alle fantasie neoegizie, sino al neo greco archeologico francese, per non parlare degli architetti visionari alla Boullée, o ai neocinquecentismi di certo neoclassicimo milanese come Cantoni, sino alla scoperta del colore nel mondo antico con Hittorf e conseguenti revisioni del pensiero architettonico.
    Credere che Beethoven si possa definire classico ( romantico no di certo a mio avviso) è riduttivo, e bastano certi soggetti, da Egmont a Fidelio a darne prova. Lo Sturm und Drang tedesco fu una manifestazione molto accesa di qualcosa che era nell’aria da tanto tempo e che avrebbe portato al delirio del “sistema classico” in arte. Il neoclassicismo è un termine che assolutamaente non rende la questione delle tante facce, anche incoerenti, dell’arte tra la fine del XVIII secolo e gli inizi del XIX. Anche l’idea polliniano abbadiana, fortemente ideologica e di sinistra, del neoclassicismo è riduttiva, al pari di quella ancor più miope che certi baroccari oggi vogliono venderci. Certo il candeggiobeneconAce è ancor meno vario della concezione dei vecchioni della scuola storica, o di certe grandi bacchette più recenti. Il problema è quello di cogliere nei musicisti, nel divino Ludwig in questo caso, le mille facce che racchiude, il prima e il poi, i lati dogmatici e quelli innovativi, il genio e magari anche il meno genio…Neoclassicimi e romanticismi sono formule comode che fanno passare da un dogmatismo ad un altro, da una facile cifra unitaria ad un’altra. L’altra sera in Scala la sottoscritta, che è divina ma ignorantissima in materia, si è stupita, al di là della direzione del buon Most, dalla varietà, dalla fantasia, dalla creatività palpabili nel Fidelio, l’opera di un uomo che sa servirsi delle forme per romperle ed andare oltre di continuo…..ma io, ripeto, non sono un musicologo.
    Resto dell’idea che parlare di neoclassico nei termini solitamente usati per la musica di Beethoven sia riduttivo e porti a direzioni monotone e monocordi.

    • Il discorso sarebbe lungo e complesso, cara Giulia, ma – premessa la sostanziale inutilità di imprigionare concetti sfuggenti in categorie artificiali (classico, neoclassico, romantico) – trovo che nell’opera di Beethoven ci sia ben poco che possa ricollegarsi con quello che normalmente si considera Romanticismo. Concordo sul fatto che le mille facce della musica beethoveniana non possano essere rinchiuse in una semplice categoria. Ecco, il paragone con Schinkel lo trovo tra i più azzeccati.

    • Concordo con Donna Giulia. e credo che parte del problema derivi anche da questa mania di “etichettare” tutto a tutti i costi, comune a gran parte della critica non solo musicale, per cui ci sono epoche e stili che finiscono alla tal ora del tal giorno e ex abrupto lasciano spazio a un nuovo stile e a una nuova mentalità. Beethoven romantico è eccessivo, e frutto di una ideologicizzazione successiva, ma non è nemmeno “classico” né neoclassico. Beethoven in fondo visse in un periodo di transizione, non mi sento di poterlo assegnare a una precisa categoria. Perciò mi trovo sostanzialmente in linea anche con Duprez

  9. Ancora qualche considerazione. Secondo me aveva ragione Gavazzeni quandi diceva che il tempo giusto è semplicemente quando non piove. Parlando seriamente, i tempi presi in se stessi hanno scarso significato. Vanno rapportati al carattere generale dell´interpretazione.
    Quello che trovo riduttivo nella visione di Duprez è il suo affermare, se ho capito bene, che fino a pochi anni fa Beethoven si eseguiva sempre in modo pesante ed enfatico e poi sono arrivate le interpretazioni filologicamente aggiornate a rimettere le cose a posto.
    Secondo me, la concezione beethoveniana di un Abbado è solo il punto d´arrivo di una tradizione interpretativa assai lunga. Già più di mezzo secolo fa ci si poneva il problema di eseguire Beethoven con un tessuto orchestrale più leggero e tempi più mossi.
    A dimostrarlo esistono le incisioni di direttori come Scherchen, Clemens Krauss, Walter, Fricsay, Kleiber padre, Szell e Karajan, le cui esecuzioni beethoveniane prebelliche furono lodate dai critici dell´epoca come proprio per la trasparenza orchestrale e la vivacità dei tempi.
    A comprovare la verità di queste recensioni,ci sono le integrali incise da Karajan nel 1955 e nel 1963, perfetto esempio di un Beehoven letto in modo assolutamente antiretorico.
    Sono anch´io curioso di sentire la nuova integrale di Chailly, che ha già dimostrato, con le sue incisioni bachiane, che si può interpretare in modo validissimo la musica di Bach con un´orchestra tradizionale, anche al giorno d´oggi.

    • Premesso che trovo straordinaria la battuta di Gavazzeni (e molto vera), caro Mozart, non dico affatto che Beethoven è stato sempre eseguito in modo solenne e pesante e poi sarebbe arrivata la filologia a “correggere” gli errori. Mai detta o pensata una sciocchezza del genere. Come ben ricordi ci sono approcci differenti in quegli anni (come sempre ce ne saranno), citi giustamente le tre diverse integrali firmate da Karajan, e poi Krauss che è l’opposto di Furtwaengler o l’asciuttissimo Scherchen, o Fricsay (peraltro il suo Fidelio è straordinario). Io dico solo che oggi si tende a riscoprire la componente più vicina ad Haydn e Mozart del sinfonismo beethoveniano, con fonti più sicure, una diversa concezione degli organici (effettivamente più corrispondente alle orchestre dell’epoca, dove gli archi erano ridotti) e conseguentemente la scoperta di maggiori trasparenze. Questo lascia libertà a ciascun interprete di fare quel che vuole: infatti accanto ad Abbado o alle compagini specialistiche (trovo ottima l’integrale di Van Immerseel e quella di Gardiner), c’è Thielemann. Non esiste un Beethoven “giusto” e uno “sbagliato”: esistono le interpretazioni più o meno attuali, più o meno tradizionali, più o meno figlie del tempo. Però l’adesione ad una o ad un’altra visione, di per sé, non ci dice nulla. e alla fine non importa. Io penso che oggi sia in un certo senso “inutile” scimiottare Furtwaengler, ad esempio, ma non perché “superato” (i dischi rimangono e ci mancherebbe), ma perché l’originale è sempre meglio della fotocopia. Ciò che non posso accettare, però, è considerare la mancata aderenza ad un modello dato (in questo caso la scuola storica), come fatto in sé meritevole di condanna o biasimo: ecco questo per me è inaccettabile.

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