Teatro alla Scala e Staatsoper Wien hanno organizzato ed offerto ai loro pubblici il risultato di una permuta. L’opera è ricca di permute, basti pensare alla cena ferrarese che donna Lucrezia Borgia rende in cambio di un ballo in Venezia ai convitati di casa Negroni.
Si può anche provare a valutare chi abbia guadagnato da questa operazione per concludere che ne hanno lucrato, e non poco, gli ambrosiani. Possiamo affermarlo e sostenerlo senza tema di smentite dato che il Requiem diretto da Barenboim lo abbiamo sentito l’anno passato e con i miracoli la cautela è d’obbligo.
Abbiamo sentito in primo luogo un’orchestra che suona precisamente, esemplificando quella che dovrebbe essere coesione e coordinamento della massa orchestrale, nonostante alcune spernacchiate clamorose dei fiati ad inizio primo atto e durante la stretta dell’aria di Leonore. Un coro con le medesime caratteristiche di coordinamento ed unitarietà, indispensabili in un titolo, che affida alla massa corale la pagine più famosa e pregnante dell’opera ed il finale. Quello dove Rossini avrebbe, invece, inserito il rondo’di Isabella Colbran.In questo senso Beethoven era immensamente più chiaroveggente di Rossini con riferimento a quello che sarebbe accaduto 200 anni dopo, ossia irreperibilità di cantanti. Questa facezia ci porta a valutare la protagonista, Nina Stemme,oggi ritenuto il miglior hochdramatische Sopran, tanto da essere chiamata a coprire il ruolo di Brunnhilde nella eseguenda tetralogia scaligera, previo rodaggio americano e con una sonorità ed ampiezza pari a circa la metà di quelle delle nostrane Freni e Chiara, celebri dive pucciniane. Qualcuno nei giorni scorsi mi ha fatto osservare come la vocalità di Leonore e quella di Florestan, nonostante la lunga tradizione interpretativa nulla abbiano a che condividere con la vocalità wagneriana, assimilabili invece a quelle delle opere serie mozartiane o
gluckiane, che costituiscono i precedenti dell’unicum beethoveniano. Osservazione astrattamente esatta, a condizione però di rifarsi per quei titoli non già alle voci candeggiate, spoggiate ed oggi baroccare che imperversano oggi, ma a modelli ben differenti ed a cui taluni grandi wagneriani non furono affatto estranei. Ritornando alla protagonista milanese, è palesemente inidonea come Brunnhilde, ma lo è anche quale Donna Anna, Contessa ed Agathe per i soliti abusati motivi, e cioè la misconoscenza del canto sul fiato. Nella parte marcatamente centrale di Leonore, la voce, di esiguo volume e poco proiettata, è vuota e sorda in basso ( vedi quartetto atto I), incapace di legare al centro ( vedi sezione centrale dell’aria ) e di una qualsivoglia pur parsimoniosa dinamica, ed allorchè compaiono i pochi acuti scritti ( come i si nat dell’adagio e del successivo allegro ) siamo in presenza di urla fisse e ghermite. Spesso la cantante ha mostrato problemi di intonazione (duetto con Florestan ). Insomma, un disastro pur applaudito dal pubblico che,
all’intervallo ed all’uscita, storceva il naso e si domandava le reali possibilità di Frau Stemme di adempiere onorevolmente i prossimi onerosi impegni scaligeri. Sotto silenzio, invece, è passata la scena di Florestan ad inizio atto secondo. Ruolo affidato a Peter Seiffert, cui, dopo un trentennio di carriera, la brevissima parte conviene assai più di quelle wagneriane. L’unico pregio rilevato è l’ampiezza ed il volume della voce, che inesorabilmente esibisce suoni ballanti ( ad ex: messa di voce sull’attacco “Gott” ), senescenti ( l’intera aria), legnosi e fissi, invece, nei pochi acuti a malapena toccati. La sola attenuante che gli si può riconoscere è che la stretta dell’aria è scritta su una tessitura che solo chi non era abituato a scrivere per le voci poteva imporre. Peraltro l’ascolto dei soliti Roswaenge,
Patzak e Urlus dimostra che con una grande tecnica si può ovviare a tutto o quasi.
Quanto agli altri, fortuna per la Marcelline di Anita Hartig, assai applaudita , che la parte sia assolutamente centrale perché basta
un fa4 per mettere in rilievo stridori, durezze e cigolii; Albert Dohmen non canta, latra; Hans Peter Koenig nel ruolo di Rocco, a parte la autentica voce di basso ed il fisico da oste di Grinzing emette suoni in zona grave, che rammentano gli effetti perniciosi della
commistione di vino e birra.
E veniamo al punto essenziale, ossia alla direzione d’orchestra affidata al maestro Franz Welser-Moest. Per la suprema gioia del pubblico, per far tornare la permuta a vantaggio dei milanesi e per lucrare il successo è stata inserita, come da tradizione,che risale ad Otto von Nicolai, la Leonore 3. Applauditissima e che ha consentito alla compagine orchestrale di dare la prova più esaustiva delle
proprie qualità professionali. Sappiamo che tutti i grandi della bacchetta, almeno di scuola tedesca, hanno affrontato Fidelio e vi hanno anche inserito l’esecuzione della Leonore 3. Sappiamo, pure, come oggi si debba dire che le esecuzioni di Kleiber padre, Walter e
Furtwaengler siano sbagliate ed antistoriche. Così se da un lato abbiamo eliminato ogni clangore romantico a favore di Illuminismo, Neoclassicismo dall’altro abbiamo suoni, tempi e ritmi che evocano “Così fan tutte”, vedi in questa esecuzione la marcia, divenuta marcetta, che introduce don Pizarro e, più ancora, il coro dei prigionieri, staccato ad un tempo veloce e con scarsa dinamica, che viene
ridotto ad una pagina di colore. Mi pare al di la degli ideologismi che il coro dei prigionieri sia ben altro. In questo il direttore è figlio del proprio tempo. Poi non essendo un grande direttore, ma un Kapellmeister ne ha messo del proprio con un’ esecuzione, la cui peculiarità può essere ravvisata nell’incoerenza, intesa come un’oscillazione ingiustificata di tempo e di sonorità all’interno della
stessa pagina. E se questo può essere una dolorosa e doverosa necessità per le sezioni conclusive delle arie dei protagonisti non la si
comprende nella sezione centrale della Leonore, spenta e moscia, salvo il turbinoso finale o nella scena del carcere dopo l’aria di Florestan. Insomma si può anche condividere o almeno accettare un certo alleggerimento del peso orchestrale e vocale (ma l’aria di Pizarro è scritta per essere un macigno), ma questa scelta non deve avere come conseguenza la mancanza di ampiezza, solennità e vigore, che sono componenti significanti ed irrinunciabili di quel periodo.
Gli ascolti
Beethoven – Fidelio
Atto I
Komm, Hoffnung – Lotte Lehmann (1927)
Atto II
Gott! Welch’ Dunkel hier – Jacques Urlus (1915)
Dico la mia nonostante condivida quasi tutti i punti elencati nella perfetta cronaca di Donzelli.
Il direttore Welser-Moest è semplicemente un tizio che da gli attacchi ai cantanti ed all’orchestra, la maggiorparte dei quali fuori tempo con vistosissimi scollamenti tra stumenti e voci e permette ai wiener di fare ciò che vogliono, perchè tutto sommato sono convinti che del direttore d’orchestra loro non ne abbiano granchè bisogno… poi con Welser-Moest c’è davvero poco da fare…
Non c’è personalità esecutiva, il primo atto è grigio e secco, un poco meglio il secondo, ma solo perchè l’orchestra ci da dentro.
Trovo superbi gli archi, suono davvero omogeneo e brillante, pessimi e stonati i corni, buono davvero il coro.
Le voci:
la Stemme canta un primo atto in difesa e tutta circonfusa di mestizia, con la voce emessa tra gola e bocca e dunque più sforzata che sfogata, infatti gli acuti dopo il sol-La sono stecche o urla; meglio, ma di poco, il secondo atto in cui anche col fraseggio “cerca” di lasciarsi andare, ma i difetti restano tutti.
Dovrebbe ripensare il suo repertorio concentrandosi su ruoli vocalmente più “corti” e meno drammatici.
Seiffert, artista che seguo da anni, che ho ascoltato e visto con interesse e che stimo, ha la voce sicuramente anziana e si sente, ma è l’unico ad avere proiezione ed è l’unico a cantare tutte le note della parte con stile ed il giusto accento; certo, qualche nota è ballante, e scrocchia l’attacco dell’aria, ma dopo ben 33 anni di carriera sempre ad un livello artistico alto è già tantissimo e manda a casa altri tenori ben più blasonati.
Konig è il solito Rocco bonaccione e amicone con la voce da vero basso, con acuti fissi e tendenti a calare, ma con centri solidi e timbrati.
Dohmen, confermo, latra rabbiosamente per tutta l’opera e insignificanti sono sia Norbert Ernst (Jaquino), Anita Hartig (Marzelline applaudita inspiegabilmente perchè simpatica, carina, vezzosetta e sfigata nell’ambito della trama) e il tremebondo Marquandt (don Fernando), tutti con la voce poggiata saldamente alla carta velina.
Marianne Brandt
Davvero strana la scelta dei tempi, il coro staccato a ritmo velocissimo non emoziona come dovrebbe così il duetto tra Florestan e Leonora staccato molto lento. Però l’orchestra ha impressionato molto nelle due sinfonie…non condivido i toni della critica ma il giudizio sui cantanti sì, specie per Dohlmen il peggiore della serata
Scusa, caro Marco, non voglio sembrare polemico, è solo una domanda: quando un cantante urla che parola si può (o è permesso di) usare per esprimere questo suo difetto?
Due appunti voglio muovere all’ottimo Donzelli:
1) che la vocalità beethoveniana nulla abbia a che vedere con quella wagneriana (semmai richiama Mozart e Haydn), non è idea solo astrattamente esatta…e basta dare un’occhiata alla cronologia (se non alla storia musicale): Fidelio è stato scritto dal 1803/4 (nei panni, ancora, di Leonore) sino al 1814…ossia un anno dopo la nascita di Wagner. Che poi certa tradizione successiva se ne sia appropriato e ne abbia fatto un feticcio nibelungico (con orchestre pesanti, dinamiche dilatate e voci da Walhalla, è tutta un’altra questione). Però, per quanto possa piacere o meno tale rilettura (legittima o meno, non interessa e non conta nulla), tale “falsificazione” comporta grossi problemi: affidare Florestan e Leonore (ma anche Pizzarro e Rocco) a gente che poco ha a che fare con l’agilità e la trasparenza di una vocalità tardo settecentesca, significa condannarle allo strillo. Poi accade (e accade sistematicamente) che il soprano (che ha macinato Bruhnildi o Isotte) si strozza nel grande episodio solistico e che il tenore (scelto, magari, tra i più truci heldentenor) si impicca con la seconda parte dell’aria dell’atto II e si aggroviglia nelle agilità. La colpa, qui, non è di Beethoven che non saprebbe scrivere per le voci (vulgata tanto sciocca quanto priva di reale riscontro: come tutti i compositori dell’epoca, aveva ricevuto un’istruzione completa…semplicemente in Austria e Germania si componeva diversamente, e Beethoven ha scritto messe, lieder, scene tragiche, cantate e pure un oratorio), ma di chi insiste in rinverdire una visione superata per mero puntiglio. 60 anni fa riuscivano ad ovviare al problema solo in virtù di cantanti tecnicamente superdotati che supplivano a voci inadatte con un magistero incrollabile. Ma, anche allora, risulta più convincente una Jurinac (eccelsa mozartiana) che una Flagstad o una Modl, o un Nelepp, un Dermota e un Patzak (che non erano certo wagneriani di ferro). E’ una vocalità che deve richiamare Fiordiligi o Donn’Anna, Tamino o Idomeneo. Questo non significa NATURALMENTE voci sbiancate e asettiche (come da tradizione mozartiana anglosassone), ma è un altro discorso.
2) Non è che Furtwaengler, Walter e Kleiber (peraltro sono l’uno l’opposto dell’altro) siano antistorici e da buttare! Neppure è una moda…ma semplicemente OGGI non è più interessante rifare un Beethoven wagnerizzato, che potrà piacere tanto ai gusti più nostalgici (e che comunque ha prodotto capolavori), ma che è frutto di mode o di ideologie esattamente come quello barocchizzato. A me, in Beethoven, piace sentire il passaggio da illuminismo a pre-romanticismo: Beethoven è un compositore saldamente ancorato al classicismo ideale e formale, viene dopo Mozart e si sente tale influenza. Per me si deve sentire più Haydn e meno Wagner. E poi non è che tempi larghi e sonorità impastate assicurano chissà quale partecipazione, si può inchiodare l’ascoltatore alla sedia anche con una maggior trasparenza e agilità. Quanto ai tempi: la lentezza esasperante può essere anche mortifera per un’opera come Fidelio. Non è vero che con tempi più vivi si arriva a Così fan tutte…e poi che male ci sarebbe? Velocità non è leggerezza, Così fan tutte non è opera così leggera e una marcia è una marcia, non deve essere per forza la colonna sonora dell’invasione della Polonia del ’39! C’è poi da dire che se si controllasero le indicazioni metronomiche scritte dallo stesso Beethoven ci si accorgerebbe che sono molto più veloci di quelle tradizionalmente eseguite. Non è che si debba per forza seguire quelle indicazioni (un direttore deve essere libero di scegliere secondo la propria sensibilità), ma neppure è una bestemmia o un delitto tornare ad esse. Alla fine è solo abitudine, che non andrebbe mai scambiata per dogma o per verità assoluta. Anche le sinfonie hanno metronomi assai più veloci, tanto che nessuno mai li ha eseguiti (salvo Chailly, di cui uscirà a breve l’integrale). Il problema della cosiddetta “scuola storica” è che restituisce un immagine monolitica e dogmatica che non è reale e che ha condizionato (ed evidentemente condiziona) il modus esecutivo della tradizione europea. Un grande direttore, ossia Lenny Bernstein, senza queste “fisime”, svincolato da ortodossie e condizionamenti (non ha subito, infatti, l’imposizione di modelli sinfonici tradizionali a cui “rendere conto”), ha potuto dare una lettura travolgente e umanissima di questo capolavoro…autentica/non autentica, filologica/non filologica? “Chissenefrega” non è certo l’appartenenza ad una tradizione (sia pure gloriosa) che distingue il giusto dallo sbagliato o la grande esecuzione dalla mediocrità.
Sono sostanzialmente d’accordo con Duprez e, una tantum, mi sembra che l’amica Marianne sia troppo clemente nei confronti di Seiffert: pur’io lo seguo da tanti, tantissimi anni e con affetto e simpatia. Ma l’altra sera, alla Scala, a me è sembrato d’ascoltare il vociare traballante del tipico venditore ambulante. Che pena!
Certo è che reduce dal concerto Caballé – Al Bano dello scorso 17 luglio a Peralada, ormai posso ascoltare di tutto e di più.
Buon lavoro e complimenti per il nuovo sito, assai più bello e leggibile.
Ciao Andrea.
Benvenuto e grazie.
Seiffert? era quello con piu’ suono in sourplesse al centro, ma…..E’ ora di fare basta o quasi anche per lui, dopo tanta carriera. Certo si sarebbe voluto che i più giovani fossero più adeguati alle parti con minor fatica, Stemme soprattutto.
Resto dell’idea che il tema chiave del nostro tempo sia riprendere il modo di cantare che ha garantito sino alla generazione di Maria Chiara di durare e declinare semplicemente…ballando ed accorciandosi in alto. Oggi le voci si consumano come torsoli di mela, tra i registri arrivano i ” buchi”, sotto si parla, in alto si urla al centro la voce si asciuga, il legato sparisce.
Il tema centrale deve diventare questo.
a presto
Cara Grisi, il “più suono” te lo concedo. Il buon Peter era sicuramente l’unico ad avere una proiezione degna di tal nome, ancora tenuta sul fiato, sebbene traballante. Il fatto è che anche il resto era desolante.
L’orchestra ed il coro non meritano, a parer mio, il generoso giudizio del troppo buono, in questo caso, Donzelli. Il direttore mi ha fatto rimpiangere il Maeshhtro e la Stemme, infine, la si può salvare per un pelo in quanto, comunque, ha la stoffa dell’artista, però condivido il parere generale, qui già esposto a chiare lettere: è evidente che cantare tante Valchirie le passa ora una cara fattura.
Maria Chiara, piuttosto, è stata una mia passione giovanile: donna bella, affascinante e bel temperamento in scena. Rimane un esempio di salda vocalità, duttilità d’interprete e artista di alto livello. E ciò in tempi in cui di soprano ce n’era da farne indigestione. Ho avuto la fortuna di ascoltarla, tra l’altro, in Traviata (a Trieste, con Garaventa e D’Orazi, credo nel 1969), quindi sempre al Teatro Verdi quale Manon di Massenet (rigorosamente in italiano e con un certo Alfredo Kraus come partner!). Poi, nel 1975, indimenticabile Elsa, con Giacomini, Carroli, la Berini, Lorenzo Gaetani e il compianto Antonio Salvadori pressocché debuttante, quale Araldo) diretta da Patanè in un Lohengrin, ovviamente in italiano, di cui conservo gelosamente la registrazione che prima o poi mi devo decidere a passare in CD, come ho già fatto con la sua altrettanto memorabile Adriana Lecouvreur di Bergamo. Che bei ricordi!
Saluti cari
caro andrea sottoscrivo tutto quello che hai detto su Maria Chiara, anche io ne serbo un ricordo grato e mi spiace che non abbia avuto, in corso di carriera, tutto quello che meritava.
credo, poi, sia la prima volta che qualcuno mi dice che sono stato clemente. Ti assicuro che l’orchestra della scala dopo Attila mi ha ricordto certe orchestre italiane anni ’80 bandistiche ed imprecise e quindi quella di Vienna mi è risultata un sollievo.
Caro Andrea, a volte si parla per confronto. Dopo quella Turandot e quell’Attila Fidelio pareva chissà cosa? può essere.
certo è che la signora stemme non possiede certo la quantità e la proiezione di voce di una freni o di una chiara appunto che mai pensarono al repertorio che la stemme pratica. diciamoci la verità, la stemme in ogni cimento dell’opera italiana impegnatovo ha malcantato sempre, dalla Forza al Ballo, dove il fatto che non sia tecnicamente preparata si sente con chiarezza. e si è sempre sentito, come in quel suo concertop di canto ove sottolineammo le magagne ma fummo, come al solito, assaliti per quanto detto, ma si sa che ognuno ha il suo tempo di reazione.
ripeto: o torniamo ad occuparci del canto, a recensirlo ( se si è in grado di farlo…) oppure il capolinea è vicino.
non parlo degli uomini: potrei dire cose pesanti…
Uff!!! Argg!!! Dell’Attila non mi sono ancor ripreso (anche lì: arridatece il Maeshhtro!!) urlato e suonato da spaccare i timpani. La Turandot l’ho quasi rimossa, perchè fortunatamente le cose sgradevoli le cancello e resetto quasi subito.
Di Maria Chiara -in buona compagnia di tante/tanti altre/altri tra cui la sopra citata Bianca Berini, che al Liceo riuscì quasi ad offuscare il trionfo della Diva locale in Maria Stuarda- anch’io penso che non ebbe una carriera pari al suo valore e dalla critica quello che si sarebbe meritata. Però, noi almeno, la ricordiamo ancora e con grande nostalgia.
E non solo perchè eravamo giovani.
Pace e gioia.
vedo che questo sito ti piace per scrivere…hehehe…sarà la grafica nuova…!
Oggi mi sento in vena e sì … la nuova grafica è invitante!
😉
In realtà sono in “lotta” per far funzionare il mio nuovo Blog (ma da pessimo informatico qual sono è una fatica immane) e così faccio pratica qui da voi … Ahahahaha.
Passo e chiudo (per ora)