Quest’anno il Festival di Pesaro nello spettacolo inaugurale sembra averne azzeccata una ovvero la protagonista Jessica Pratt, che il pubblico del teatro Rossini ha salutato con autentiche ovazioni dopo la grande aria del secondo atto.
Con i tempi che corrono e con le costumanze del Festival non è poco. Anzi.
Ma secondo la consolidata tradizione festivaliera c’erano anche parecchi aspetti che confliggevano con Rossini e con la sua specifica poetica. In primo luogo la direzione d’orchestra o meglio la concertazione. Da tempo (vedi il Sigismondo dell’anno passato) si cade nell’equivoco che la drammaticità di Rossini sia differente da quelle successive e l’eccesso pota a sonorità alleggerite addolcite e soprattutto la di qualsivoglia aulicità, solennità, estasi, epica e magniloquenza, che del dramma serio rossininano sono la peculiarità. Basta ascoltare come affrontasse le scene più apertamente drammatiche Alberto Zedda, che non è certo mai stato un grande direttore d’orchestra per cogliere l’inadeguatezza delle scelte corrente e di cui , quale direttore artistico del festival il medesimo Zedda sembra essere sodale. Ne hanno risentito di questa “farsettizzazione” i pezzi d’assieme ossia il quartetto della scena prima, il finale primo ed il quartetto del secondo atto, quando fra i contendenti irrompe Adelaide. Mi permetto di aggiungere che si tratta di una delle pagine più originali ed ispirate dell’opera, ma che richiede guida sicura, scansione e quattro cantanti. Sono risultati scentrati anche i duetti fra gli amorosi e quelli di sfida fra Ottone ed Adelberto al primo atto e quello del secondo fra tenore e soprano. Non hanno avuto il primo la cifra estatica degli incontri fra gli idealizzati amanti rossiniani ( non dimentichiamo che trattasi di due donne) ed i secondi il colore da cupa congiura medioevale ( vista con gli occhi dell’uomo dell’800). Oltre tutte e siamo alla seconda scivolata del festival l’allestimento affidato a Pier’Alli, che il pubblico ha salutarmente fischiato. Battaglia degli ombrelli, proiezioni da sponsor della regione Toscana, fango e soldati marcianti che avrebbero dovuto intonare la canzone del Piave, cameriere con crestina da musical hanno contribuito sviato il pubblico da quella che dovrebbe essere la cifra dell’opera. Opera che di suo come tutta la drammaturgia rossiniana si poggia su valori differenti da quelli della produzione melodrammatica successiva.
E se a questa aggiungiamo la diffusa latitanza del canto di scuola , di quel canto immascherato che è il solo ed unico presupposto della congrua esecuzione dei titoli belcantistici si comprende perché una signora della Pesaro bene, per dovere di rango sociale in teatro abbia commentato che l’opera è brutta, cantano male salvo al ragazza bionda (leggi Pratt). Vox populi!!!
E le scivolate sono proseguite con la compagnia di canto. Comprimariato da spedizione punitiva quello delle signore Jeannette Fischer e Francesca Pierpaoli nei ruoli di Eurice e quello in travesti di Iroldo. Patetiche e velleitarie le varianti inserite nei loro momenti solistici. Con siffatte disponibilità di cantanti la scure della vituperata scuola di Serafin ha quanto meno il pregio di risparmiare figuracce a cantanti, strazi all’ascoltatore, oltraggi all’autore.
Le cose non sono certo andate meglio con i “cattivi” ossia Nicola Ulivieri, che ha raschiato e urlato i due acuti della parte e senza la voce di basso. Il peggio era costruito dal giovane tenore Bogdan Mihai, che nella parte di Adelberto ha esibito una voce fra gola e adenoidi, agilità scivolate e spappolate assoluta incapacità di approdare alla zona acuta o almeno medio alta della gamma vocale. L’attacco dell’aria “grida natura” era un tragico involontario comico. Un simile elemento si deve avere il decoro di non presentarlo in scena, in generale e massime in un luogo deputato a Rossini e con la presunzione di offrire al pubblico uno dei prodotti di punta della scuola di perfezionamento della Scala, che andrebbe chiusa. Confesso ed esterno la assoluta difficoltà a raccapezzarmi e a comprendere questa situazione e queste scelte.
E arriviamo alla diva del festival Daniela Barcellona, che alcune frange del pubblico hanno, alle uscite singole, contestato dopo fiacchi applausi al rondò, che conclude l’opera e che per ubicazione è il momento del tributo all’esecutore. Siccome da tempo ritengo che il mezzo triestino non sia una cantante rossiniana condivido le riprovazioni del pubblico. In breve la parte di Ottone è troppo acuta, oggi come nel 2006, per la Barcellona e, quindi, le frasi sia dei cantabili che degli allegri (rondò finale e duetto con Adelaide) che investono la zona medio alta sono state aggiustate, sicchè la parte sembrava quegli abbozzi di parte riservati da Rossini alla Marcolini ed alla Malanotte, che poi provvedevano di loro a diminuire. Solo che non posso in questo caso aggiungere il tradizionale avverbio “opportunamente” perché il risultato è stato una frammentazione della linea musicale non più riconoscibile. Oltre tutto a differenza di una Horne, ultima fase della carriera, la Barcellona non è in grado di diminuire e fiorire le parti in modo da occultare le mende vocali perché con l’agilità di forza una cantante della limitata capacità tecnica della Barcellona ha, per forza di cose, rapporti molto problematici. Il problema di partenza è sempre e solo quello di una cantante dotatissima in natura, che non sa da che parte si respiri professionalmente, si distribuisca il fiato e si immascheri il suono ed esibisce l’impietoso “scalino” dei mezzosoprani a fine carriera. Suoni di petto in basso, suoni opachi al centro, grida incontrollate in alto. Se poi si vuole si può anche prendere lo spartito e proseguire in questa impietosa selezione di vizi e dei difetti me ne domando il senso. Ma urge segnalare certi parlati come il “basta vederla io voglio” del duetto con Adelberto, i suoni di petto aperti e stimbrati al recitativo che introduce il finale primo, suoni opachi al centro nell’andante del duetto d’amore “vieni al tempio” e nella stretta “tu che nei cori” dove il suono galleggiante sul fiato di Jessica Pratt copriva la grana grossa e comune della voce di Daniela Barcellona.
Perché poi il segreto del successo di Jessica Pratt sta solo e semplicemente nel cantare sul fiato con un controllo della voce. Questo le consente di cantare sempre, anche nel quartetto di sortita di scrittura bassa, che non conviene alla giovane cantante che ha il meglio della voce nell’ottava superiore, di essere varia nel fraseggio, regale e dolce al tempo stesso, di essere preziosa e raffinata , magari a scapito di un poco di slancio nell’aria di sortita e di dare il brivido alla grande aria “cingi la benda candida” dove Jessica Pratt ha sfoggiato tutto quello che la grande esecutrice, anzi interprete di Rossini deve possedere ovvero estensione, legato e smorzature anche ad altissima quota, capacità di cantare piano e forte, fluidità di esecuzione dei passi di coloratura. La grande esecuzione rossiniana passa in primis da brivido che le difficoltà vocali rese con facilità danno e non già dallo sforzo di una voce che prova a fare. Invito a riflettere sulla differente impressione che hanno suscitato i due rondò ossia quello di Adelaide e quello di Ottone, brani di eguale peso vocale ed interpretativo, che ieri sera sono emersi solo in quello di Adelaide, passato, invece, come una cosa di limitata difficoltà e valore espressivo quello del deuteragonista en travesti. E di qui il meritato trionfo che altro fondamento non se non il canto e la tecnica del canto. E’ stato dopo anni una luce nei cast del festival.
Con i tempi che corrono e con le costumanze del Festival non è poco. Anzi.
Ma secondo la consolidata tradizione festivaliera c’erano anche parecchi aspetti che confliggevano con Rossini e con la sua specifica poetica. In primo luogo la direzione d’orchestra o meglio la concertazione. Da tempo (vedi il Sigismondo dell’anno passato) si cade nell’equivoco che la drammaticità di Rossini sia differente da quelle successive e l’eccesso pota a sonorità alleggerite addolcite e soprattutto la di qualsivoglia aulicità, solennità, estasi, epica e magniloquenza, che del dramma serio rossininano sono la peculiarità. Basta ascoltare come affrontasse le scene più apertamente drammatiche Alberto Zedda, che non è certo mai stato un grande direttore d’orchestra per cogliere l’inadeguatezza delle scelte corrente e di cui , quale direttore artistico del festival il medesimo Zedda sembra essere sodale. Ne hanno risentito di questa “farsettizzazione” i pezzi d’assieme ossia il quartetto della scena prima, il finale primo ed il quartetto del secondo atto, quando fra i contendenti irrompe Adelaide. Mi permetto di aggiungere che si tratta di una delle pagine più originali ed ispirate dell’opera, ma che richiede guida sicura, scansione e quattro cantanti. Sono risultati scentrati anche i duetti fra gli amorosi e quelli di sfida fra Ottone ed Adelberto al primo atto e quello del secondo fra tenore e soprano. Non hanno avuto il primo la cifra estatica degli incontri fra gli idealizzati amanti rossiniani ( non dimentichiamo che trattasi di due donne) ed i secondi il colore da cupa congiura medioevale ( vista con gli occhi dell’uomo dell’800). Oltre tutte e siamo alla seconda scivolata del festival l’allestimento affidato a Pier’Alli, che il pubblico ha salutarmente fischiato. Battaglia degli ombrelli, proiezioni da sponsor della regione Toscana, fango e soldati marcianti che avrebbero dovuto intonare la canzone del Piave, cameriere con crestina da musical hanno contribuito sviato il pubblico da quella che dovrebbe essere la cifra dell’opera. Opera che di suo come tutta la drammaturgia rossiniana si poggia su valori differenti da quelli della produzione melodrammatica successiva.
E se a questa aggiungiamo la diffusa latitanza del canto di scuola , di quel canto immascherato che è il solo ed unico presupposto della congrua esecuzione dei titoli belcantistici si comprende perché una signora della Pesaro bene, per dovere di rango sociale in teatro abbia commentato che l’opera è brutta, cantano male salvo al ragazza bionda (leggi Pratt). Vox populi!!!
E le scivolate sono proseguite con la compagnia di canto. Comprimariato da spedizione punitiva quello delle signore Jeannette Fischer e Francesca Pierpaoli nei ruoli di Eurice e quello in travesti di Iroldo. Patetiche e velleitarie le varianti inserite nei loro momenti solistici. Con siffatte disponibilità di cantanti la scure della vituperata scuola di Serafin ha quanto meno il pregio di risparmiare figuracce a cantanti, strazi all’ascoltatore, oltraggi all’autore.
Le cose non sono certo andate meglio con i “cattivi” ossia Nicola Ulivieri, che ha raschiato e urlato i due acuti della parte e senza la voce di basso. Il peggio era costruito dal giovane tenore Bogdan Mihai, che nella parte di Adelberto ha esibito una voce fra gola e adenoidi, agilità scivolate e spappolate assoluta incapacità di approdare alla zona acuta o almeno medio alta della gamma vocale. L’attacco dell’aria “grida natura” era un tragico involontario comico. Un simile elemento si deve avere il decoro di non presentarlo in scena, in generale e massime in un luogo deputato a Rossini e con la presunzione di offrire al pubblico uno dei prodotti di punta della scuola di perfezionamento della Scala, che andrebbe chiusa. Confesso ed esterno la assoluta difficoltà a raccapezzarmi e a comprendere questa situazione e queste scelte.
E arriviamo alla diva del festival Daniela Barcellona, che alcune frange del pubblico hanno, alle uscite singole, contestato dopo fiacchi applausi al rondò, che conclude l’opera e che per ubicazione è il momento del tributo all’esecutore. Siccome da tempo ritengo che il mezzo triestino non sia una cantante rossiniana condivido le riprovazioni del pubblico. In breve la parte di Ottone è troppo acuta, oggi come nel 2006, per la Barcellona e, quindi, le frasi sia dei cantabili che degli allegri (rondò finale e duetto con Adelaide) che investono la zona medio alta sono state aggiustate, sicchè la parte sembrava quegli abbozzi di parte riservati da Rossini alla Marcolini ed alla Malanotte, che poi provvedevano di loro a diminuire. Solo che non posso in questo caso aggiungere il tradizionale avverbio “opportunamente” perché il risultato è stato una frammentazione della linea musicale non più riconoscibile. Oltre tutto a differenza di una Horne, ultima fase della carriera, la Barcellona non è in grado di diminuire e fiorire le parti in modo da occultare le mende vocali perché con l’agilità di forza una cantante della limitata capacità tecnica della Barcellona ha, per forza di cose, rapporti molto problematici. Il problema di partenza è sempre e solo quello di una cantante dotatissima in natura, che non sa da che parte si respiri professionalmente, si distribuisca il fiato e si immascheri il suono ed esibisce l’impietoso “scalino” dei mezzosoprani a fine carriera. Suoni di petto in basso, suoni opachi al centro, grida incontrollate in alto. Se poi si vuole si può anche prendere lo spartito e proseguire in questa impietosa selezione di vizi e dei difetti me ne domando il senso. Ma urge segnalare certi parlati come il “basta vederla io voglio” del duetto con Adelberto, i suoni di petto aperti e stimbrati al recitativo che introduce il finale primo, suoni opachi al centro nell’andante del duetto d’amore “vieni al tempio” e nella stretta “tu che nei cori” dove il suono galleggiante sul fiato di Jessica Pratt copriva la grana grossa e comune della voce di Daniela Barcellona.
Perché poi il segreto del successo di Jessica Pratt sta solo e semplicemente nel cantare sul fiato con un controllo della voce. Questo le consente di cantare sempre, anche nel quartetto di sortita di scrittura bassa, che non conviene alla giovane cantante che ha il meglio della voce nell’ottava superiore, di essere varia nel fraseggio, regale e dolce al tempo stesso, di essere preziosa e raffinata , magari a scapito di un poco di slancio nell’aria di sortita e di dare il brivido alla grande aria “cingi la benda candida” dove Jessica Pratt ha sfoggiato tutto quello che la grande esecutrice, anzi interprete di Rossini deve possedere ovvero estensione, legato e smorzature anche ad altissima quota, capacità di cantare piano e forte, fluidità di esecuzione dei passi di coloratura. La grande esecuzione rossiniana passa in primis da brivido che le difficoltà vocali rese con facilità danno e non già dallo sforzo di una voce che prova a fare. Invito a riflettere sulla differente impressione che hanno suscitato i due rondò ossia quello di Adelaide e quello di Ottone, brani di eguale peso vocale ed interpretativo, che ieri sera sono emersi solo in quello di Adelaide, passato, invece, come una cosa di limitata difficoltà e valore espressivo quello del deuteragonista en travesti. E di qui il meritato trionfo che altro fondamento non se non il canto e la tecnica del canto. E’ stato dopo anni una luce nei cast del festival.
Gli ascolti
Rossini – Adelaide di Borgogna
Atto I
O sacra alla virtù…Soffri la tua sventura – Daniela Barcellona (2006)
Atto II
Questi, che a me presenta…Vieni, tuo sposo e amante – Daniela Barcellona (2006)
Meyerbeer – Le Prophète
Atto V
O prêtres de Baal – Sigrid Onégin (1929)
Perfettamente in linea con la recensione di Donzelli. Jessica Pratt è stata la stella della serata, la cui esecuzione ha ricompensato le brutture degli altri interpreti. Preciso controllo e gestione del fiato, ha esibito un bel legato, buona accentazione e delle vere mezzevoci. Forse qualche piccola sbavatura d'intonazione, ma nulla di grave. Interessanti e brillantemente eseguite le variazioni. Brava, brava, brava!
Deludente la Barcellona, un grande talento naturale che presenta però una voce indisciplinata, con un registo grave volgare e acuti urlati, con sensibili variazioni nel timbro. Un vero peccato per una voce tanto bella.
Un vero disastro il tenore dall'accento volgare e pronuncia incerta, stonato, con agilità gorgoglianti e tutte di gola, come nella peggiore Genaux, a ragione contestato da un pubblico che del tutto sordo ieri sera non era.
Allo sbaraglio il coro, soprattutto nelle sezioni maschili.
in base a quali elementi giudica allo sbaraglio la sezione maschile del coro?
forse perché una delle tenutarie si è espressa con aggettivi del tipo: orrendo, terribile, o è una sua convinzione personale?
In questo caso le sarei grato di elencarmi il dove, come quando e perché, in modo da tentare di porvi rimedio nelle prossime recite.
Caro luc,
nella trasmissione radiofonica ieri sera il coro e, come ha notato megacle, soprattutto la sezione maschile era spesso lontano dalla perfezione. Il suono era poco morbido e pulito. Spesso il coro andava fuori tempo, ma questo è anche colpa del direttore che nella gestione dei pezzi d'assieme non ha dimostrato molta sicurezza.
Ascoltata la registrazione nottetempo, il coro è perfettamente a tempo, e l'andare a tempo è questione oggettiva, quindi o si è a tempo o si è fuori, in questo caso si era a tempo.
Concordo con il suono poco morbido e pulito e, vorrei aggiungere, della piattezza delle dinamiche.
A questo punto una domanda:
da frequentatori di esecuzioni dal vivo vi è mai capitato di sentire il fortepiano dei recitativi risultare più voluminoso di un coro che canta in fortissimo?
Non vi viene il leggerissimo dubbio che i radiomicrofoni che usa la rai abbiano falsato quello che realmente si ascolta in sala almeno per ciò che riguarda dinamiche, armonici e riverberi?
Qui la gente non vuol capire che ciò che trasmette la radio italiana, qualunque trasmissione, non permette di giudicare l'esecuzione, in nessun modo. Quella ottima può diventare pessima o il contrario. Io, quando ho ascoltato e dal vivo e per radio la stessa esecuzione, ho notato una differenza enorme. Per esempio. Ho ascoltato l'Orfeo di Gluck al Maggio Fiorentino qualche anno fa. L'aria "Che farò senza Euridice"alla radio aveva in orchestra sonorità wagneriane, degne del "Crepuscolo", mentre dal vivo il suono era sottile e traslucido. L'inizio dell'Aida di Mehta era per radio un festival delle stonature, dal vivo il suono era bellissimo, come si conviene a simile orchestra. Non parliamo delle stonature, dei rapporti sonori alterati etc. Le recensioni, nel momento in cui si basano sulle trasmissioni radiofoniche italiane, non hanno alcun senso. Lo stesso per la chat; si danno giudizi su ciò che è lontano mille miglia dalla realtà, si tratta di una pura e semplice perdita di tempo.
Marco Ninci
sulla qualità audio della rai sono d'accordo anzi piu vanno avanti è più peggiorano devono imparare a usare e a posizionare i microfoni ambientali e trovare il giusto mixer.
Con radiomicrofoni pulci attacati ai cantanti più microfoni ambientali mal posizionati vengono sacrificati le dinamiche e le giuste propozioni.E questo a maggior ragione per il coro e anche l'orchestra tra le varie famiglie di strumenti.
D'accordo con la recensione e sono contento per la Pratt il suo percorso di maturazione continua cantare sul fiato irrobustire il registro centrale,mantenendo il registro alto agile e sicuro e sapere respirare brava!!
scusate ma per quanto male siano posizionati i microfoni non possono certo inventare stonature e discronie… non facciamo della fantamusica, per favore. Io ascoltando da casa ho potuto sentire e agevolmente fare la tara e ripeto che Jessica Pratt, anche per me è stata la stella indiscussa. Il primo atto solamente caratterizzato da qualche debolezza soprattutto nell'aria che non le ha permesso di sfoggiare tutto il mordente che invece è apparso folgorante nel secondo atto. Della Barcellona bisognerebbe tacere, anche perchè nei passaggi di agilità erano frequentissime le stonature o le note smozzicate, pasticci della voce che non si sà regger sul fiato e quindi arranca, inesorabilmente.
Marco la chat è stata chiamata anche foyer dove un gruppo di persone più altre che preferiscono leggere e basta si riuniscono per commentare discutere sulla loro passione cioè l'opera quindi a noi c'è molto utile, e se la ritieni inutile vai pure a fare il filosofo da un altra parte,noi stiamo bene cosi,o forse non possiamo scambiargi opinioni e anche giudizi
forse pensi che i nostri giudizi
incidono sul cachè dei cantanti?o sulle persone che gestiscono questi cantanti?
Poi nonostante l'ascolto radiofonico sia pessimo se uno canta bene o male si sente,perchè la Pratt si sente che canta bene il tenore è inadeguato?suvvià
per radio solo il volume del cantante in sala e il rapporto con l'orchestra non si può capire ma il resto si.
E invece no. Si possono trasmettere stonature che dal vivo non ci sono. E poi voglio allargare il discorso, anche se penso di scoprire l'acqua calda. Il disco in studio, la trasmissione radiofonica, il disco che riproduce un'esecuzione dal vivo in realtà ci dicono ben poco su quella serata, perché sono al di fuori di quella dialettica umana che in teatro è imprescindibile. Io, quando ho sentito registrazioni di serate indimenticabili cui ho assistito, non ho mai potuto credere che si trattasse della stessa serata. Se io non avessi sentito Karajan tante volte, sono sicuro che non avrei nessuna idea, per quanti dischi potessi sentire.Posso solo immaginare che cosa fosse la Callas. La Sutherland l'ho sentita due volte. La prima volta nel '68 al Maggio nella Semiramide. A contatto con una partitura così complessa, Bonynge naufragò in maniera incredibile e la Sutherland non poté farci niente. Perché una cosa era dare a Bonynge la London Symphony e una cosa era dargli l'orchestra del Maggio. L'altra volta nella Lucrezia Borgia all'Opera di Roma. Bonynge poté arrivare, in una partitura tanto meno complessa, alla sufficienza e la Sutherland poté sfolgorare. Nel disco Bonynge sembra un buon direttore. Dal vivo, non è neppure un direttore, né buono né cattivo.
Quando io qui leggo cose dei giovani,con tutto questo ossessivo rivolgersi a You Tube, capisco in qualche modo che in loro c'è una qualche prevalenza della musica registrata su quella ascoltata dal vivo. E questo mi dà da pensare. Penso che nulla possa rendere l'incanto di quel "Ratto" degli anni Sessanta, con quella regia di Strehler che è la più bella che abbia visto. Mi ricordo che c'era chi voleva il ritorno alle scene dipinte, a un semplice fondale. Oggi tutti ascoltano tutto, tutti sanno tutto. Quando vedere quel "Ratto" o qualche altra cosa (certo poche) di questo livello insegna sul teatro d'opera più di milioni di registrazioni, filmati, video, dvd etc. So che la storia ha preso questa via e non si può tornare indietro. Ma un po' di nostalgia è consentita.
Caro Marco,
ormai trarre una differenza fra ascolto dal vivo e ascolto tecnologico diventa molto difficile, perché questi due vanno sempre più strettamente insieme, s'incrocciano, intercambiano. I giudizi sulle prestazioni artistiche che si fanno oggi sono prodotti di una contaminazione tecnologica di questo ascolto "vivo" che ormai diventa sempre più raro rispetto all'ascolto della musica registrata. E' la conseguenza di uno sviluppo nella storia delle tecnologie e non ci si può fare niente. Anzi, ormai questo è la condizione quasi necessaria per l'ascolto ed è l'orizzonte percettivo-intellettivo che orienta scelte, sapere, gusti etc.
Quando ci "accusano" di ascoltare troppo le vecchie registrazioni e di essere per questo passatisti, questo riproccio fatto nell'epoca tecnologizzata come la nostra è l'espressione del più grande passatismo. Ormai chi vuole rinunciare ai dischi, alle registrazioni, riprese etc. sta facendo violenza contro di sé e contro la cornice della ricettività estetica che oggi è complettamente riconfigurata dalle tecnologie. E' impossibile e ridicolo perché appunto limititivo, esigere di giudicare musica solo via un ascolto live. E' ugualmente ridicolo chiedere di non ascoltare registrazioni del passato (come se registrazioni del "presente" non fossero da parte loro passate), perché chi vuole "godere solo della musica che si fà oggi" sta facendo violenza contro l'orizzonte generale e essenzialmente tecnologizzata di come si mostrano le cose e come si organizza il sapere e la cultura.
La ripresa radiofonica della Rai è stata davvero scandalosa, come lo è molto spesso, ma ci sono delle cose che non si possono ridurre ai limiti della ripresa tecnologica. Anzi. L'ascolto radiofonico o semplicemente registrato sviluppa un orecchio ed un sistema acustico che in un certo modo sà discernere quello che si sta o stava producendo dal vivo. E' cosi che una Pratt, che magari non era avantaggiata ieri nella radio, poteva comunque dare una idea di come si sentiva "dal vivo", perché alla radio si poteva sentire il suo suono proiettato e limpido.
Credo che ormai bisogna lasciare questa idea di "immediatezza" e di un Erlebnis autentico possibile solo "dal vivo", perché con la contaminazione tecnologica della musica fatta dal vivo, la differenziazione fra musica viva e musica mediatizzata non può essere che troppo tardivo e fatta sempre sulla base della suddetta contaminazione. Io non posso dire che è una cosa negativa. E' semplicemente cosi.
Marco, il tuo discorso contro le registrazioni lo trovo un filino esclusivista e anche razzistello. Vuoi dire che la musica dovrebbe esistere solo per chi ha il tempo o i soldi per potere andare a sentirla dal vivo?
Ma poi, chi dice che il disco sostituisce l´ ascolto dal vivo? Io dico che lo integra ed é uno strumento prezioso per prepararvisi. Io, quando vado ad ascoltare un´opera che non conosco, me la ascolto prima in una registrazione e questo mi aiuta a seguire e comprendere meglio quello che poi ascolteró a teatro. I tuoi discorsi sulla storia dell´interpretazione non avrebbero senso senza i dischi. Cosa avremmo altrimenti saputo noi, ai tempi del socialismo reale, di tanti grandi direttori, strumentisti e cantanti dell´est europeo che non sono venuti mai o quasi mai ad esibirsi in occidente, se non esistessero le registrazioni? Cito Vaclav Talich per esempio, un direttore a livello dei piú grandi della storia, oppure Alexander Melik Pachaev o Evgenji Golovanov, o anche cantanti come Lemesev, Nelepp, Pirogov, Petrov, Lisitsian.
Ma poi il disco ha consentito a tanta gente, e non solo della mia generazione, di ascoltare un repertorio che altrimenti bisognava inseguire tramite trasferte non sempre possibili, per mancanza di tempo, di soldi o di tutte e due le cose insieme. Per esempio, io da ragazzo ho conosciuto Mahler e Bruckner tramite i dischi, perché dalle mie parti non venivano quasi mai eseguiti in teatro. Grazie al disco, ho potuto conoscere il Ring di Wagner a 14 anni, senza bisogno di andare alla Scala o a Bayreuth con i soldi di mamma e papá.
Qui in Germania, per riascoltami il Rossini serio e quasi tutto Donizetti devo per forza ricorrere ai dischi, perché i teatri tedeschi praticano poco questo repertorio.
E potrei continuare ancora,ma mi fermo qui.
Ciao.
Vorrei anche far notare o ricordare, per evitare inutili blablabla, che chi ha scritto la recensione era presente a teatro, dal vivo, e non ha ascoltato l'Adelaide solamente in radio.
Non concordo affatto con Marco riguardo le registrazioni che sono strumenti imprescindibili e nulla tolgono alla vera grandezza di un cantante, rimettendo molte volte le cose a posto o facendole ascoltare da un'altra prospettiva.
Marianne Brandt
Cara Marianne e cara Marianne, l'ho detto anch'io che quella della registrazione è una via obbligata da cui non si può tornare indietro. Il disco ha molti meriti, certo, proprio di diffusione della cultura; sarebbe sciocco negarlo e io non lo faccio. Però sarebbe anche stupido negare che l'approccio discografico ha modificato il modo di ascoltare dal vivo. Posso solo dire che le più grandi serate d'opera cui io ho assistito, una volta analizzate con metodi di valutazione discografica o più in generale tecnologica, si sarebbero dissolte. Tengo a precisare a Gianguido che a noi studenti a Pisa veniva pagato tutto dallo stato e ci veniva dato anche un piccolo stipendio. Mi sono anche aiutato molto con l'insegnamento privato. Karajan non me lo sono certo pagato con i soldi di mamma e papà, dalla cui casa sono uscito a diciotto anni.
Ciao a tutti
Marco
Naturalmente, "Cari Marianne e Gianguido".
Caro Donzelli, mi trovo per lo più in perfetto accordo con i tuoi giudizi, vorrei solo precisare un paio di cose sulla Barcellona e sulla Pratt.
Prima di tutto, tu continui a scrivere che la Barcellona non è cantante rossiniana, quando sarebbe più giusto dire, sic et simpliciter, che non è una cantante, tout court. Anche perché non esistono cantanti rossiniani, donizettiani, verdiani, wagneriani… esistono solo cantanti che sanno cantare, e can(i)-tanti che vociferano. La Barcellona rientra nella seconda categoria.
Poi davvero io non capisco il perché di questa fobia nei confronti dei “suoni di petto”. Il registro di petto è fondamentale nell’organizzazione tecnica di ogni voce femminile, soprattutto delle voci femminili che cantano da contralto o mezzosoprano. Usavano il registro di petto tutti i grandi contralti rossiniani, e lo usavano anche i soprani (la Colbran è l’esempio più classico che si possa fare, e scambiarla per un mezzosoprano sarebbe un grave errore). Senza bisogno di fare della fantalirica, basta sentire l’uso che facevano della voce di petto i più grandi contralti documentati dal disco, come Ernestine Schumann-Heink o Sigrid Onégin, oppure il grande mezzosoprano Ebe Stignani. Usavano la voce di petto anche la Horne (la quale forse tendeva a forzare troppo questo registro, risultando a volte sopra le righe) e la Dupuy, e non avrebbero potuto fare diversamente. Uno dei grandi mali del canto femminile, al giorno d’oggi, è proprio questa insensata fissazione che i suoni di petto siano suoni sbagliati. Il registro di petto, lo ripeto, è fondamentale nella sviluppo della voce. E’ basilare.
Tornando alla Barcellona, il problema non è che faccia uso del registro di petto (quale altro registro dovrebbe usare per cantare in zona grave?!). Il problema è che non canta sul fiato ma canta solo di gola. La voce cioè non posa su di una corretta respirazione, ma solo sulla fibra, sui muscoli, sulla strozza. C’è una grave disomogeneità o meglio spaccatura nei tre registri, il registro di petto suona povero, schiacciato, piatto, rozzo, praticamente parlato, il registro medio è completamente disunito dal grave, mentre l’acuto è gridato, tutto stretto e spinto di gola, con un suono sbiancato e gallinaceo affetto oltretutto da uno sgradevolissimo vibrato. La Barcellona ha la fortuna di essere una superdotata vocale, poiché simile tecnica, del tutto avulsa dall’uso del fiato, distruggerebbe nel giro di pochi mesi qualsiasi voce normodotata.
La cosa più grave è che la mancanza di educazione del fiato le impedisce di cantare legato a fior di labbra (non c’è mai una linea di canto!), di fraseggiare (che imbarazzo quei recitativi!), di accentare, di variare la dinamica, i colori, di cantare a mezzavoce. E’ la totale negazione dell’espressione, la negazione del canto.
Coloro che a teatro o sul web la acclamano come una fuoriclasse, sono – stante la presunzione di buona fede – dei poveri incompetenti, uditivamente deficienti.
Due parole sulla Pratt. Molto brava e ben preparata, decisamente in forma migliore rispetto alla Lucia. Deve solo trovare un’emissione più piena sulla prima ottava (eh già, il fondamentale registro di petto), e non stancarsi mai di studiare l’agilità, che io ritengo ancora perfettibile. Sono rimasto comunque impressionato per come ha cantato la sua aria nel secondo atto, ed in particolare mi ha lasciato senza fiato la forza e l’accento esibiti nella scena “Ah vanne addio” che introduce il cantabile. Bravissima.
Ho letto con interesse estremo le recensioni del "Corriere" dedicate agli spettacoli del ROF (Mosè e Adelaide) che ho visto dal vivo e che, francamente, non ho trovato così disastrosi (ma è il mio modestissimo parere). Da appassionato d'opera che compra e ascolta molti dischi e libri sulla storia del teatro lirico e i compositori, e va abbastanza spesso a teatro, vorrei porre ai redattori del blog e alle varie persone intervenute un semplice, ingenuo quesito da profano: ma siete tutti diplomati al conservatorio in composizione, canto e/o pianoforte? Dall'alto di quali titoli e di quale preparazione riuscite ad emettere giudizi così sicuri e così definitivi sul valore di esecuzioni e interpreti? Sono dieci anni che ascolto esclusivamente musica lirica e, pur avendo, come è ovvio, le mie preferenze e i miei gusti, ancora non mi sento in grado di giudicare esecuzioni e cantanti con altrettanta sicurezza… forse dieci anni di esperienza saranno troppo pochi, forse non avrò abbastanza sensibilità musicale, non lo metto in dubbio, ma mi piacerebbe sapere quali sono stati i vostri percorsi di ascoltatori di musica lirica. Grazie per l'attenzione. Nicola
Ciao Nicola e grazie per il tuo intervento.
Sul nostro blog è già specificato cosa siamo, infatti in alto si legge: "Il Corriere della Grisi è un blog d’opera di melomani hobbisti… Gli autori sono assolutamente indipendenti".
Come te andiamo a teatro, ma da oltre 40 anni, come te leggiamo riviste, libri, volumi, manuali, come te compriamo cd, dischi, dvd, come te ascoltiamo musica in radio, ci siamo confrontati con critici e cantanti.
Quindi ci siamo fatti esperienza sul campo e con lo spartito e libretto sempre aperti e con gli ascolti comparati dalla cera al digitale.
Abbiamo amici direttori di coro, compositori e musicisti con cui personalmente mi sono fatta le ossa fin da bambina…
Insomma i nostri maestri sono Tosi, Lamperti, Garcia, le Marchesi, Lazaro, Lehmann etc.
Approfondisci anche tu e avrai più certezze.
Mi piacerebbe sapere cosa ti è piaciuto del ROF ed il tuo metro di giudizio.
Marianne Brandt