“Le l’ha mai sentù la Cobelli, allora ch’el tasa”. Era una delle più colorite e reiterate apostrofi della famosa Rina del loggione della Scala. Diceva della grande considerazione ed assoluta stima, che il soprano godeva presso l’allora giustamente non facile pubblico scaligero.
Giuseppina Cobelli (1898-1948) consente di affrontare, all’interno di questa ormai annosa riflessione circa la voce di soprano, il tema della cantante attrice, peculiare categoria cui saranno dedicate una cospicua seria di “puntante”. Con riferimento alla cantante attrice circolano due falsi miti. Il primo che la cantante attrice l’abbia inventata il Verismo e, secondo, che la cantante attrice compenserebbe con la recitazione e la presenza scenica limiti vocali e, prima ancora, carenze tecniche. Assunti di comodo o quanto meno poco informati e meditati. Basta leggere le recensioni loro contemporanee per sincerarsi che Maria Malibran, Giuseppina Ronzi e, persino, Rosmunda Pisaroni fossero ritenute artiste complete non solo per bagaglio tecnico ed eleganza di fraseggio, ma anche per la puntualità e felicità dell’azione scenica e della gestualità. Ancora basta ascoltare una registrazione di Claudia Muzio o di Madga Olivero per rilevare, al di là dei limiti naturali, un ragguardevole o addirittura esemplare controllo tecnico.
La affermazione di Giuseppina Cobelli fu rapida. Dopo un paio d’anni di rodaggio in teatri olandesi, che consentirono di “mettere su” buona parte del repertorio ed acquistare dimestichezza con il palcoscenico approdò alla Scala come Sieglinde nel 1925. Nel massimo teatro italiano rimase per un quindicennio, la carriera fu essenzialmente italiana, salvo qualche parentesi nei teatri sudamericani, dal 1935 fu gravata dall’handicap della sordità, il repertorio fu essenzialmente quello allora contemporaneo e wagneriano, la discografia pressoché nulla.
Alcuni di questi sono elementi meritevoli di riflessione.
Il repertorio. Erano gli anni di notorietà della Cobelli anni di grande concorrenza e doviziosa disponibilità di voci. Facile immaginare che la presenza di due autentiche fuoriclasse come la Raisa e la Arangi Lombardi in Verdi ed il gusto che richiedeva voci statuarie imponesse alla cantante gardesana altre scelte e tacciamo del gran numero di soprani lirici e lirico spinti, categoria dove Rosetta Pampanini deteneva dalla Scala al sociale di Biella il monopolio di Mimì e Butterfly. Non per nulla, i ruoli pucciniani della Cobelli furono Tosca e Minnie. E poi vi furono i ruoli del repertorio contemporaneo o quasi tipici della cantante attrice come Fedora ( debutto a Milano nel 1932) Adriana (debuttata ad Amsterdam nel 1925) e Francesca (prima volta a Palermo nel 1938) cui vanno aggiunte le prime assolute nei ruoli di protagonista delle Notti di Zoraima di Montemezzi (Milano 1931) e della Fiamma (Roma 1934). A questo repertorio deve aggiungersi Wagner di cui Giuseppina Cobelli venne universalmente considerata una delle grandi interpreti. Oltre alla già citata Sieglinde cantò Elsa (Bologna 1926 con Gigli e subito dopo al Colon con Fleta), dopo il 1930 venne considerata una grandissima Isotta e dal 1935 affrontò frequentemente Kundry. In buona sostanza nel volgere di un decennio la Cobelli affrontò le tre tipologie del soprani wagneriano.
Con riferimento al repertorio va rilevato come dal 1934 in poi nel repertorio della Cobelli furono via via più presenti parti marcatamente centrali o addirittura in “condominio” con i mezzo soprani acuti tipo Kundry, Fedora, Santuzza e la Margherita di Berlioz. E questo aspetto invita a riflettere sulla vocalità e sulla tecnica della cantante. Riflessione molto astratta soprattutto per la carenza di documentazione sonora. Giacomo Lauri Volpi nelle “voci parallele” parla, sulla scorta di una Tosca napoletana del 1928, dell’incubo della cantante, dettato dall’insicuro possesso del do5, nota indispensabile per Tosca, Minnie ed Isotta, che lo richiedono per giunta scoperto e sopra orditi orchestrali pesanti. Lauri Volpi come critico va tarato per quello che era ovvero un tenore, che temeva voci femminili poderose al centro come la Ponselle, la Rethberg, la Cigna , la Caniglia ed anche Giuseppina Cobelli. Certo è che per tutta la carriera la Cobelli ebbe la preoccupazione (documentata nella corrispondenza pubblicata da Maurizio Righetti nel volume “la donna del lago”) la preoccupazione di cantare bene e di non imporre alla voce spartiti pesanti, che la costringessero a gridare. In particolare la circostanza risulta dalla lettera del 28 maggio 1930 alla madre in cui la Cobelli riferisce delle lezioni di Giannina Russ. E chi conosca minimamente le registrazioni a 78 giri sa bene che cosa si potesse chiedere all’insegnamento di Giannina Russ.
Le registrazioni di passi da opere italiane ossia il “Suicidio” di Gioconda ed il racconto di Santuzza “voi lo sapete o mamma” come tutti i brani di fine ottocento chiamano in causa gli acuti estremi ghermiti o quanto meno da prendere con vigore, in ossequio alla situazione drammatica, e note gravi o peggio ancora in zona di primo passaggio particolarmente ostentate, sempre in omaggio alla situazione scenica. Vedasi il la naturale di “l’amai” chiesto a Santuzza o il si nat di Gioconda in “domando al cielo” oppure il fa diesis di “ultima croce del mio cammin” o il do diesis 3 “avel” che sono misurati e composti, scevri di ogni caduta di gusto e malcanto. Per essere chiari e sinceri neppure le due Gioconde meglio cantate del disco (ossia Giannina Arangi Lombardi e Maria Callas) fanno di meglio. Anzi . E poi il registro medio acuto della Cobelli risulta assai più fecile e spontaneamente risuonante. In questa zona si ascoltano suoni vellutati e lucenti accompagnati da un gusto sobrio e castigato, esaltati dalle qualità della musicista e dell’interprete. La cantante attrice emerge ad esempio nel racconto di Santuzza quando sfrutta la forza drammatica delle arrotate dell’ “arsi di gelosia” che serve a dar rilievo al dolce “prima dell’onor mio rimango” cantato con gusto e misura accompagnato dalla facilità del registro acuto.
Per altro la critica del tempo costantemente elogiava la qualità della voce sotto il profilo della morbidezza e rotondità e naturalmente esaltando l’interprete, come giustamente e normalmente avviene con riferimento alle cantanti attrici.
Il fatto, però, che emerge è come la Cobelli dal 1935 in poi evitò le scritture acute di Verdi che a differenza del Verismo e del repertorio contemporaneo richiedevano un legato ed una dinamica di cui la cantante non disponeva. E’ difficile, però, andare oltre la semplice supposizione per l’assoluta assenza di documentazione fonografica. Insomma è impossibile stabilire se la scelta derivasse da difficoltà vocali o dalla fortissima concorrenza di quegli anni.
A parte merita un accenno il rapporto privilegiato con Wagner che la portò quasi a Bayreuth (Giuseppina Cobelli conosceva abbastanza bene il tedesco). Anche qui devo rilevare la peculiarità di una fascinosa cantante attrice, avvezza alle tessiture centrali che mai abbia affrontato Venus ed Ortruda, limitandosi, si fa per dire a Sieglinde, Kundry ed Isotta di cui rimane una documentazione delle rappresentazioni scaligere del 1930 sotto la direzione di de Sabata. Anche qui veramente troppo poco per andare al di là di impressioni e supposizioni di quella che venne considerata dopo Salomea Kruscenisky la più completa realizzazione del personaggio wagneriano da parte di una cantante attrice italiana o di scuola e gusto italiani. Rimangono da questa reliquia di ascolto una voce in grado di reggere senza sforzo e manomissione del suono il magma orchestrale del grande direttore e di colorire adeguatamente la chiusa del Libestood . Ma siamo onesti basta così poco per rendere presente oggi una delle cantanti più grandi in Italia per almeno tre lustri?
Gli ascolti
Giuseppina Cobelli
Ponchielli – La Gioconda
Atto IV
Suicidio! (1925)
Mascagni – Cavalleria rusticana
Atto unico
Voi lo sapete, o mamma (1925)
Wagner – Tristan und Isolde
Atto II
O sink’ hernieder (con Renato Zanelli – 1930)
Atto III
Mild und leise (1930)