La ricerca di un libretto adatto al gusto del pubblico e del Teatro la Fenice di Venezia, che gli aveva commissionato un’opera, lo portarono dapprima ad accarezzare l’idea, assieme al Piave, di un adattamento dal poema eroico “The bride of Abydos”, storia dall’ambientazione esotica sullo sfondo di presunti incesti, personalità ambigue, omicidi di fratelli ad opera di usurpatori, vendette e un amore impossibile; sicuramente affascinante, ma l’idea di far ruotare la vicenda del quartetto dei protagonisti intorno alla primadonna, con il rischio di incappare nella censura, lo scontentarono facendogli preferire, tra gli altri motivi e grazie ai consigli del Conte Carlo Mocenigo, lo scandaloso “Hernani” di Victor Hugo in occasione della stagione carnevalesca del ‘44.
Iniziavano per Verdi gli sfiancanti “anni di galera”.
Il successo veneziano dell’ “Ernani” diede a Verdi la possibilità di ottenere una nuova scrittura per quel teatro, ma il problema fondamentale era sempre il solito: trovare un soggetto che fondesse stringatezza e fuoco oltre ad essere meno impegnativa nei costi e nello sfarzo dopo lo scialo di ben due opere corali come “Nabucco” e “Lombardi”, più mirato ad uno scavo originale sui singoli.
Ecco allora ritornare l’ombra di Byron: nonostante Verdi amasse punto le mollezze veneziane, avrebbe voluto omaggiare la città con un soggetto importante e lagunare, e Byron sembrava offrire l’ispirazione perfetta attraverso il “Marino Faliero,” (1820) soggetto invero non nuovo e con il forte handicap di essere stato portato sulle scene da Donizetti stesso e con un libretto che fondeva sia il dramma byroniano con innesti dall’omonima tragedia di Casimir Delavigne (1829) già debitore del poeta inglese.
Serviva, dunque, un soggetto nuovo. Nell’estate del ’43 Verdi si appassionò al dramma “I due Foscari” tratto da una vicenda realmente accaduta nella Venezia della metà del ‘400, più per quello che poteva offrire che per il suo valore intrinseco, in quanto trattasi di lavoro teatralmente statico ed eccessivamente ricercato nel linguaggio, un puro esercizio di stile e letteratura per molti, ma dal contenuto nerissimo ambientato cioè tra Carnevali spettrali e le macchinazioni del Consiglio dei Dieci, argomento che il compositore trovava stimolante e ricco di spunti.
La proposta doveva trovare accoglimento presso la censura veneziana, la quale considerò sconveniente i troppi riferimenti a certe blasonate famiglie della laguna ancora in auge e arroccate alle loro antichi e prestigiosi natali: per questi motivi e per non creare imbarazzi, il soggetto fu rimandato al mittente.
Per non rinunciare al progetto a cui Verdi credeva fermamente, il compositore spostò le sue mire presso il Teatro Argentina di Roma, con il quale, grazie alle pressioni del nuovo direttore Alessandro Lanari, già vi erano stati contatti per la commissione di una nuova opera da rappresentarsi nella stagione autunnale, magari basata su Lorenzo de’ Medici, riduzione del dramma di Giuseppe Revere, ritenuta però dalla censura papalina troppo rivoluzionaria nello spirito e nei contenuti (si arriva addirittura all’uccisione del despota, impensabile per l’epoca!). “I due Foscari” al contrario passò indenne le richieste della censura, ottenendo finalmente il via libera alle composizione.
Verdi, che dopo il successo dell’ “Ernani” si divideva tra Milano e Busseto per coltivare i rapporti con i teatri, scegliere le commissioni ed i contratti più vantaggiosi e intrattenersi con le amicizie, e Francesco Maria Piave lavorarono alacremente alla stesura del libretto, pronto in quasi un mese e lodato in un primo momento dal compositore che riuscì abilmente ad evitare le pressioni di un contralto particolarmente insistenete e subito allontanato e di un secondo compositore interessato al soggetto; ma il maniacale lavoro di rifinitura prese il sopravvento e Verdi domandava di rifinire, di ripulire la versificazione introducendo, egli stesso, alcune novità nell’intreccio come: curare con attenzione maggiore di Byron il povero personaggio di Jacopo ritenuto, già nel testo “troppo debole” drammaturgicamente, al quale veniva in soccorso un’aria di forza dopo il poetico ingresso dedicato a Venezia; aggiunta di maggior fuoco e “fracasso” in quel primo atto così poco grandioso con le due arie di Lucrezia e del Doge ed il duetto finale; la successione degli eventi nel secondo atto con il colpo di scena dell’ingresso di Lucrezia e dei figli; la morte di Jacopo, mai del tutto risolta e in un primo tempo posta a conclusione del II atto e preceduta da un breve duetto con un gondoliere lontano (chiara citazione rossiniana non accolta nella stesura definitiva).
Al motto “El maestro el vòl cussì “ Piave ubbidiva e lavorava pur rimanendo sostanzialmente fedele al modello byroniano. C’è da dire che Piave stesso non era convinto di un soggetto così povero d’azione e accolse tutte le nuove possibilità teatrali suggeritogli per renderlo più agile.
Anche le prove (iniziate il 14 Agosto del ’44) videro la supervisione di entrambi gli artisti. L’orchestrazione dopo quattro mesi di lavoro era pronta i primi giorni di ottobre e l’opera poté andare in scena il 3 novembre con Achille de Bassini (Francesco Foscari), Giacomo Roppa (Jacopo Foscari), Marianna Barbieri-Nini (Lucrezia Contarini-Foscari): successo tiepido che andò accrescendosi nelle recite successive con varie chiamate nei confronti del compositore.
Come riporta Emanuele Muzio, discepolo e grande amico di Verdi, l’attesa per la nuova opera era andata crescendo a Roma, ma si crearono malumori tra il pubblico a causa dell’aumento ingiustificato del costo dei biglietti, e la tensione tirò un brutto scherzo ai cantanti i quali non diedero il meglio; eppure se alla prima fu di fatto controversa, le recite successive ottennero un discreto successo, con decine di chiamate per Verdi che fu omaggiato con una medaglia d’oro che lo ritraeva.
Nonostante l’esito lusinghiero Verdi, che dapprima riteneva l’opera tra le sue predilette, si ritrovò più tardi presso Antonio Somma a cambiare avviso: troppa cupezza, troppa mestizia, troppa monotonia nelle tinte; lo stesso Piave si rimprovererà di non aver saputo sfruttare meglio una certa vivacità con i personaggi di Jacopo e Loredano.
L’opera, in ogni caso, riuscì a crearsi un piccolo angolo nella programmazione dei teatri italiani e internazionali, apparendo con una certa frequenza fino al 1870 per poi sparire dai cartelloni a causa del cambiamento del gusto del pubblico e soprattutto per una brevità che non consentiva di riempire il teatro nemmeno sfruttando i consueti balletti nelle pause, ormai caduti in disuso; basti pensare che tra il ’46 ed il ’47 “I due Foscari” appariva a Parigi al Teatre des Italiens, Londra e Boston.
Successivamente, la produzione parigina, circolò in tutti i maggiori teatri italiani nelle vesti di “opera di ripiego” (sic!) ovvero uno spettacolo sostitutivo da mettere in scena senza troppi problemi di cast (!!!) e scene, a causa di ritardi, rimandi o gravi problemi nella produzione di una opera nuova… fa una certa impressione pensare a “I due Foscari” come “ripiego” soprattutto riferita alla difficoltà micidiale dei ruoli protagonisti: in quella metà dell’ottocento doveva essere la normalità affidarsi a tre esperti cantanti per salvare una serata attraverso un’opera ritenuta evidentemente di facile consumo (a riprova di ciò addirittura il monologo finale del Doge morente stuzzicò molti baritoni a metterlo in repertorio soprattutto nei concerti ), quando oggi per trovare un baritono, un soprano ed un tenore appena decenti è impresa da far sudare, occorrendo compiere autentici salti mortali e giustificare tali scelte con argomentazioni capziose!
Verdi se ne discostò ben presto per poi abbandonarla con la maturità, Donizetti la trovava inizialmente frammentaria e poco idiomatica prima di provare un certo entusiasmo, certa critica la definì frettolosa se non addirittura commerciale; in realtà si tratta di un’opera in cui Verdi percorre una nuova strada, per ora solo pionieristica, già intrapresa con “Ernani”, allontanandosi dallo stile delle figure da bassorilievo come quelle scolpite in “Nabucco” e “Lombardi” affrontando anche stilisticamente un approccio più profondo e vicino alle pulsioni più intime dei suoi personaggi.
La musica è prosciugata dall’energia barricadiera, patriottica e risorgimentale che complicava e inaspriva la strumentazione: questo Verdi è un compositore diverso che ha bisogno di allontanarsi dai stilemi acerbi che lo avevano contraddistinto per cercare la sua identità compositiva.
Mira ad una forma più soffusa, prediligendo i ritmi espressivi e più morbidi propri della “Barcarola” espediente sfruttato con abilità durante l’arco dell’azione, che gli permette di inserire un nuovo personaggio: Venezia stessa.
Una orchestrazione dunque curata negli impasti cromatici, lontana dalle marce roboanti e celebrative, per trasformarsi in qualcosa di inedito e più raffinato nella struttura.
Pensiamo all’uso potente che Verdi compie utilizzando i flauti, clarinetti, fagotti sia nel breve preludio orchestrale che nelle due scene successive, come trattenuti da piani e pianissimi prescritti nelle note ribattute e variate per creare uno stato di sospensione e di tragica cupezza, come se già tutto fosse stabilito.
Evidente la rottura con la tradizione: Verdi con perizia del tutto nuova evita accuratamente che i “pezzi chiusi” non si fondino con il continuo del dramma evitando ogni tipo di interruzione all’azione drammatica che di fatto fluisce libera; oppure, assoluta novità in quegli anni, gli stessi tre finali sono privi di ogni stretta concludendosi con un duetto tra il baritono ed il soprano, un concertato ed un monologo del protagonista accompagnato dal coro.
Quasi contemporaneamente (e inconsapevolmente) a Wagner, Verdi introduce per la prima volta nella sua produzione le “reminiscenze tematiche”, ovvero un tema ricorrente associato ad un personaggio, usate invero con parsimonia e solo per introdurre il beneficiario e utilizzati esclusivamente per Francesco, Jacopo, Lucrezia ed il Consiglio: tale espediente, in forma embrionale, era già stato utilizzato da alcuni compositori in passato come Meyerbeer o Cagnoni.
Il breve preludio si apre con un tema da suonare “a piena orchestra” in do minore prescritto in fortissimo e poi ripreso e variato dagli archi, dai fiati e dagli ottoni, ma su due piani diversi, ma perfettamente compenetrati. L’improvviso silenzio lascia spazio al clarinetto il quale introduce il tema di Jacopo in piano che lascia spazio al tema di Lucrezia per fiati e violini, per poi abbandonarsi all’orchestra per il finale.
Dopo l’angosciante coro del Consiglio dei Dieci accompagnato foscamente dai fiati e che ritornerà altre volte nella parte politica dell’opera, si introduce il personaggio di Jacopo con l’andantino “dal più remoto esiglio” sostenuto da archi, clarinetto e fagotto che devono suonare compatti e sommessi.
Jacopo Foscari è il primo protagonista che ci viene presentato.
Fu creato da Giacomo Roppa, tenuto in grande considerazione da Verdi, tenore di forza che tra il 1832 ed il 1856 si distinse in Donizetti (Belisario, Lucrezia Borgia, Gemma di Vergy, Dom Sébastien), Mercadante (Emma d’Antiochia, Orazi e Curiazi), Bellini (Norma, Capuleti e Montecchi), Auber (Muta di Portici), Verdi (Masnadieri, Luisa Miller), Meyerbeer (Robert, le Diable), opere di Pacini, Morlacchi, Coppola, Persiani, etc.
Verdi compone per lui un ruolo in bilico tra patetismo, amor familiare e violento senso di riscatto, con una tessitura dalle grandi arcate melodiche in cui far splendere, su un cantabile moderato, una vocalità chiara, sicura e spinta soprattutto nel registro centrale e negli acuti, quindi dal passaggio pienamente risolto (penso alla scena visionaria nella prigione introdotta da un preludio gemello di quello iniziale, oppure davanti al Consiglio dei Dieci).
Jacopo è consapevole della propria innocenza, arrivando al delirio visionario e identificandosi con le larve che lo circondano; ma a parte rivendicare con forza nelle cabalette tale stato, rimane un vinto, un passivo suo malgrado, schiacciato dalla macchina del potere che lo pretende nel ruolo di colpevole, perché la vendetta di un uomo lo reclama.
Il suo strumento, quello che non lo lascia mai solo, è il clarinetto che suona malinconico il suo tema all’inizio nell’aria, nell’accorato duetto con la moglie e nel tragico finale, alternato nei momenti più concitati (la cabaletta “Odio solo, ed odio atroce”) all’accompagnamento delle trombe e degli archi via via più presente e minaccioso.
Una curiosità: per la ripresa dell’opera al Theatre des Italiens del ‘46, Verdi ebbe a disposizione il tenore Mario, personalità e artista discusso, epigono per vocalità e stile di Giovanni Battisti Rubini. Per lui il compositore scrisse la cabaletta di grazia”Si lo sento, iddio mi chiama” la quale per difficoltà e svolazzi pare presagire per certi versi la cabaletta di Amalia ne “I Masnadieri”, coronata da ben due Mi bemolli, ma di dubbio valore artistico. Si pensava perduta fino al suo ritrovamento in anni recenti nella Biblioteca Nazionale di Parigi.
L’arpa e i legni, le fioriture (più volte mutate dal compositore), l’aria “Tu al cui sguardo onnipossente” ci introduce Lucrezia Contarini-Foscari; parte attiva del dramma, il suo autentico motore, colei che per diritto può parlare da pari con il Doge.
Ruolo pensato per la vocalità di Marianna Barbieri-Nini tanto spiacevole d’aspetto quanto ottima cantante, perfetta nei ruoli di forza e d’espressione come Lucrezia appunto, ma anche Lady Macbeth (interprete della prima versione) e Gulnara, plasmando la sua voce pura, dolce a tratti e drammatica a suo agio con la coloratura e con i ruoli di considerevole estensione.
Attiva tra il 1840-’56 la Barbieri-Nini si distinse in un repertorio da soprano drammatico, in Donizetti (Lucrezia Borgia, suo favorito, Anna Bolena, Belisario, Caterina Cornaro, Poliuto, addirittura Lucia di Lammermoor), Verdi (Luisa Miller, Attila, Ernani, Giovanna di Guzman, titolo “censorio” per i Vespri siciliani, Nabucco, in cui però interpretava Fenena, Trovatore, cantato però durante il declino), Rossini (Semiramide, Mosé e Faraone), Pacini (Merope, Buondelmonte, Lorenzino de’ Medici), Apolloni, Petrella, Campana, etc.
La Contarini-Foscari è ruolo micidiale si sa: due ottave d’estensione, salti d’ottava, colorature, acuti perentori, legato da manuale, in più occorre interpretare una donna che con orgoglio si proclama figlia e nuora di Dogi, e come tale il potere lo affronta senza armi, ma solo con i suoi “titoli” di moglie innamorata e madre e con il coraggio che ne deriva. L’innocenza di Jacopo, il suo amore sono per la donna motivo di fierezza e conseguenza della sua forza, come dimostra nel duetto, terzetto e quartetto della prigione di fronte al suocero ed al nemico Loredano o ancora di fronte alle “canute tigri” del Consiglio dei Dieci: momenti altissimi in cui la musica ed il canto risultano precursori negli impasti timbrici di arpa, fagotto, clarinetto e archi dei futuri “Simon Boccanegra” e “Rigoletto”.
Una figura di donna volitiva e commovente insieme: su di lei si abbatteranno due cadaveri e la vittoria di Loredano senza scalfire la sua tempra morale.
Il suo tempo sarà “allegro agitato”, i suoi strumenti, quelli scelti per il suo tema, gli archi.
Achille de Bassini, in carriera tra il 1837 e gli anni ’70 dell’ottocento, fu scelto come primo interprete e rimarrà molto legato al personaggio ed alla produzione di Verdi.
Esempio di baritono nobile, ritenuto erede di Ronconi (“Ronconi del sud” veniva chiamato) fondeva nella sua voce l’estensione sicura, il legato elegante ed espressivo e la schiettezza carismatica dell’interprete.
Fu primo interprete anche de “Il Corsaro”, “Luisa Miller”, Fra Melitone ne “La Forza del destino” rivelando una notevole verve comica, accanto a opere come: Ernani, Attila, Rigoletto, Lombardi, Giovanna d’Arco, Traviata, Trovatore, accostandosi anche al Donizetti maturo (Belisario, Maria de Rohan, La favorita, Parisina, Lucia di Lammermoor, Lucrezia Borgia, Don Pasquale), il Rossini serio (il Tell) e buffo (Barbiere), Bellini (Sonnambula, Norma), ma anche Mercadantem Pacini, Ricci, ed altri compositori minori.
Francesco Foscari è il terzo e ultimo dei protagonisti che ci viene presentato.
La prima scena che lo vede protagonista lo ritrae solo; e tale singolare figura rimarrà completamente sola nonostante l’affetto per il figlio e per la nuora fino allo scioglimento dell’intreccio.
“Sarò Doge nel volto, e padre in core.“ è l’amarissimo ritratto che fa di se stesso di fronte all’odiato Consiglio: Foscari non dimentica mai di essere dapprima Doge e poi padre, tale è la sua condizione; un ruolo in cui, vista la tragica situazione di dover condannare un figlio innocente per giunta, rende il manto del potere ancora più pesante della vecchiaia. Trova conforto nelle parole di Lucrezia verso cui apre momentaneamente il suo cuore, ma torna uomo politico bene presto per adempiere ai suoi poteri che Loredano gli rinfaccia. Al termine sarà annientato come uomo politico e come padre, reso inutile e impotente di fronte all’ennesima perdita di ciò che lo rendeva uomo pur potendo dimostrare con le prove l’innocenza di Jacopo, verso cui non poteva battersi.
Le figure di padri torneranno spesso nella produzione verdiana, senza dubbio, ma Francesco Foscari è probabilmente il primo più intimamente sconfitto nonostante la sua figura giganteggi nel finale.
Lente e sussurrate sono le melodie che lo accompagnano contrappuntate da arpa e violoncelli seguiti da fagotti; nel dialogo con Lucrezia la struttura musicale e poetica a più sezioni lo trasforma nel prototipo del duetto sentimentale con il suo moto andante, sempre più mosso, che verrà riproposto più avanti e con le stesse tipologie vocali ne “La traviata”, così come il terzetto con Lucrezia e Jacopo prelude al “Rigoletto” per modernità di intenti e per lo strumentale bilanciamento tra legni e archi.
Gli ascolti
Verdi – I due Foscari
Preludio – Tullio Serafin (1957)
Atto I
Silenzio, mistero – Tullio Serafin (1957)
Qui ti rimani alquanto…Dal più remoto esiglio… Odio solo, ed odio atroce – Carlo Bergonzi (1951), Franco Tagliavini (1972)
Bonus: Dal più remoto esiglio…Sì lo sento, Iddio mi chiama – Chris Merritt (1987)
No, mi lasciate…Tu al cui sguardo onnipossente… O patrizi, tremate – Maria Vitale (con Liliana Pellegrino – 1951), Leyla Gencer (con Marisa Salimbeni – 1957)
Tacque il reo – Bruno Bartoletti (1972)
O vecchio cor, che batti – Piero Cappuccilli (1972)
L’illustre dama Foscari…Tu pur lo sai, che giudice – Leyla Gencer & Giangiacomo Guelfi (con Uberto Scaglione – 1957), Jan Derksen & Cristina Deutekom (1973)
Atto II
Notte! perpetua notte… Non maledirmi, o prode – Carlo Bergonzi (1951), Carlo Bergonzi (1981)
Ah, sposo mio…No, non morrai – Leyla Gencer & Mirto Picchi (1957)
Ah padre… Nel tuo paterno amplesso – Carlo Bergonzi, Margherita Castro-Alberty, Renato Bruson & Donnie Ray Albert – dir. Eve Queler (1980)
Che più si tarda?… O patrizii…il voleste – Giangiacomo Guelfi, Mirto Picchi, Leyla Gencer, Alessandro Maddalena, Ottorino Begali, Marisa Salimbeni & Augusto Veronese – dir. Tullio Serafin (1957), Piero Cappuccilli, Franco Tagliavini, Katia Ricciarelli, Arnold Voketatis, Frank Little, Christina Asher & Ernesto Gasco – dir. Bruno Bartoletti (1972)
Atto III
Alla gioia!…Donna infelice…All’infelice veglio – Franco Tagliavini & Katia Ricciarelli (con Arnold Voketatis, Frank Little & Christina Asher – 1972)
Egli or parte…Più non vive! l’innocente – Leyla Gencer (1957), Katia Ricciarelli (con Piero Cappuccilli – 1972)
Signor, chiedon parlarti…Questa è dunque l’iniqua mercede…Quel bronzo fatale – Renato Bruson (con Margherita Castro-Alberty & Donnie Ray Albert – 1980)