omissis
Giambattista Mancini
Una cosa comunque va detta dopo avere ascoltato Osborn: che dopo Lauri Volpi – il quale sì sapeva fare stupende mezzevoci con la voce mista di falsetto, e aveva pure acuti argentini – Raoul non lo può cantare nessuno…
Gilbert-Louis Duprez
Però Osborn, dite pure quel che volete, appare molto sicuro e plausibile di un Cutler (almeno dal frammento che abbiamo commentato e in base all’ascolto dal vivo): tra l’altro bisognerebbe considerare, per una corretta valutazione, che canta questo brano dopo aver retto un quarto atto integrale (a differenza di tanti illustri predecessori: e non è uno scherzo) e senza nessuna pausa prima del quinto. E’ vero, c’è qualche imprecisione, ma, francamente, li ritengo “peccati veniali”, soprattutto dal vivo e non nelle comodità di uno studio di registrazione…per il resto sono abbastanza d’accordo con Mancini: è una parte difficilissima (se eseguita senza sconti).
omissis
Mancini
A proposito della vocalità di Nourrit, si parla spesso di “falsettoni”, ma questa espressione a parer mio è fuorviante. In molte opere scritte per lui, come ad esempio il Moïse, le dinamiche e lo spessore dell’orchestrazione escludono che lui potesse servirsi del falsetto. Nourrit era maestro nell’uso della voce di testa sapientemente unita con la voce di petto, non senza l’aiuto di qualche suono nasale connaturato anche alla sua lingua madre (in Italia, Nourrit perse l’uso del registro di testa quando tentò di eliminare dalla sua voce le nasalità). Recuperare la vocalità Nourrit significa ripristinare uno stile ed una precisione tecnica che i tenori hanno da tempo dimenticato. Se poi consideriamo la confusione che c’è tra gli stessi cantanti quando si parla di tecnica e soprattutto di registri della voce (lo scoglio principale nell’insegnamento del canto)… Che disgrazia che il fonografo non l’abbiano inventato cento anni prima… L’acuto di “forza” è principalmente una questione di natura… L’acuto di testa invece è una questione di studio, per cui è molto più difficile. Oggi non ci sono più maestri in grado di insegnare a cantare, ai tenori in particolare. D’altronde confrontando i maggiori tenori del Dopoguerra – e penso ai tenori che possedevano la tecnica più rifinita, come Bergonzi, Kraus, oppure Blake, Merritt ecc. – si osserva che l’emissione della zona acuta a voce piena molto spesso è viziata da accorgimenti poco ortodossi, di cui non si trova riscontro nei dettami tecnici tradizionali. Non è un caso infatti che questi cantanti non abbiano saputo produrre allievi del loro livello. Si pensi ad esempio all’uso che Kraus faceva del naso, ed alle stecche degli allievi quando provavano a seguire i suoi consigli.
Julian Gayarre
A dire il vero non trovo cosi Kraus, almeno nei primi anni. Hai ragione, che da vecchio aveva bisogno del naso, ma…
omissis
Donzelli
Allora, non sono radicale come Mancini, non cerco ad oltranza il suono di testa come suono perfetto e unico per quel repertorio, anche perchè nessuno può emettere do o re di petto. E’ un’errata espressione gergale: al massimo possono esistere cantanti più o meno dotati, che spostano di un tono il passaggio e che negli acuti possono avere una minor o maggior risonanza di petto. Riconosco che, spartito alla mano, ab integro la parte di Raoul sia molto pesante e lo è più per un tenore contraltino che per un tenore di forza. Terminologia assolutamente da prendere con le pinze e quindi traduco che costi meno ad un Duprez o Tamberlick o Tamagno o Slezak che non ad un Nourrit e la circostanza che quei tenori cantarono Raoul e non gli altri deve pur dire qualche cosa. Tanto premesso Osborn finisce la parte e se la canta tutta è meglio di Vrenios da questo ascolto e forse anche di Gedda, ma la voce è inesorabilmente bassa. Se cantasse con la voce al posto giusto canterebbe Leopoldo dell’Ebrea e non Eleazaro, tanto per parlare di altra parte di Nourrit. Aggiungo per completezza, che non ci sono molte alternative. E non ce ne sono mai state molte perchè erano e rimangono opere per fuoriclasse e per cantanti dotatissimi vocalmente e tecnicamente.
Mancini
Un cantante come Tamagno sarebbe stato definito un urlatore da un maestro di canto come Francesco Lamperti. Non parliamo poi della musicalità da troglodita. Verdi si lamentava dei tenori che non sapevano fare sfumature: a cantare tutto a voce piena, senza conoscere l’uso della voce mista/di testa non si può che forzare. Non è un caso che Verdi adorasse un baritono come Victor Maurel, che conosceva l’uso della voce di testa, come documentano alcuni suoi dischi.
omissis
Giulia Grisi
Sono ruoli (Raoul è un esempio tra i molti che potrebbero fare) indubbiamente scritti per cantare in un dato modo. Oggi come oggi sono incantabili grazie alle nostre teorie sul canto. Blakie diceva; se l’hanno scritto qualcuno lo cantava. Si tratta di porsi la domanda sul come, e DEDURRE la risposta, non INDURLA secondo teorie astruse cotruite a tavolino per avvallare i cantanti di oggi.
omissis
Mancini
La tecnica dei Rubini, dei David, dei Nourrit, dei Nozzari ecc. Era la tecnica dei castrati. Cantavano in registro di testa, ossia falsetto: ma con l’arte lo rinforzavano, amalgamandolo con il petto. Non erano le note afonoidi di oggi. Erano note di colore femminile ma timbrate e squillanti che oggi nessuno sa più insegnare ad emettere e ad amalgamare con il resto della voce.
Duprez
Però, Gianni, i castrati cantavano così proprio perché “castrati”, cioè utilizzavano una CERTA tecnica che gli era possibile in virtù di una determinata alterazione fisica. Oggi i castrati, grazie al cielo, non ci sono più e tale tecnica – utilizzabile alla perfezione da cantanti evirati – deve necessariamente essere adattata ad altri timbri e ad altre voci. Credo che non sia corretto sostenere che Wagner o Mussorgsky o Berg o Debussy o Strauss (ad esempio) debbano essere eseguiti secondo quella tecnica (propria dei castrati) e secondo le indicazioni di un Tosi o di un Lamperti! Sui castrati (e su come erano considerati già alla fine del ‘700, nel mondo illuminista) mi piace ricordare l’ode del Parini “La musica”…
Quanto a quel che hai detto, Giulia, è verissimo: se l’hanno scritta così (la parte di Raoul, intendo) vuol dire che qualcuno la cantava così. Non ci sono storie! Molto più onesto constatare che oggi sia divenuta difficilmente eseguibile – per tante ragioni però, e non solo a causa di decadenza e mancanza di insegnamenti (penso all’evoluzione del gusto, al cambiamento di repertori, alle nuove esigenze estetiche, ai più recenti linguaggi espressivi: tutti fattori che hanno provocato un “distacco” delle voci da certe tecniche, non più attuali poiché “inutili” alla luce del nuovo repertorio…e, di conseguenza, poco approfondite e, alla fine, “dimenticate”) – più onesto dire che oggi è così, piuttosto che cavillare in elucubrazioni volte a cercare giustificazioni in evidenti situazioni di disagio.
omissis
Mancini
Il problema infatti è che i primi tenori rossiniani di fatto erano gli eredi dei castrati, insieme ai contralti. Francesco Lamperti nel suo trattato rimpiange la scomparsa dei musici. Io comunque ritengo che un tenore con tecnica completa non possa ignorare l’uso della voce di testa: è indispensabile per fare le mezzevoci, per filare un acuto. Altrimenti è espressivamente limitato. Come è possibile ad esempio filare il SIb della Celeste Aida se non si sa usare il falsettone?
Duprez
Beh, drei con l’uso corretto delle mezze voci ed evitando sbracature veriste o acuti strillati come all’osteria (e come, purtroppo, hanno fatto la maggior parte dei tenori di cui vi è testimonianza discografica, in luogo del suggestivo “morendo” verdiano). Bisogna “ringraziare” il gusto pessimo del fin de siecle… Sui tenori rossiniani non sono molto d’accordo: al contrario ti dò ragione sui contralti, anche se sono una rivisitazione posteriore di una modalità canora morta e sepolta. In fondo credo che Rossini – pur facendo considerazioni nostalgiche – fosse assai consapevole delle possibilità espressive dei “tempi nuovi”. Amava la boutade e così si permetteva uscite sarcastiche!
Mancini
Ma la vera mezza-voce si fa emettendo un simil-falsetto rinforzato (Gigli lo chiamava falsetto accomodato). Tenori come Slezak e Urlus sapevano usare il falsettone come accade nel DO di Urlus nel Salve Dimora.
Tu stesso cadi in contraddizione, quando parli di gusto pessimo di fin de siècle. Allora anche io posso parlare di gusto pessimo post-rossiniano…. Tra parentesi, Lamperti parla già di cantanti “urlatori” ben prima della fine del secolo. Erano le conseguenze dell’esempio di Duprez, caro Duprez.
Duprez
Ma di quel che chiamo “gusto pessimo” abbiamo testimonianze discografiche e la sua “ombra” si è estesa almeno sino agli anni ’50: è verificabile. E poi non parlo di “gusto pessimo” tout court: l’accento verista e certi eccessi si adattano perfettamente ad un repertorio adeguato. Quel che non mi convince è ascoltare un Mozart alla maniera di Massenet o di Mascagni, o Rossini e Meyerbeer travestiti da tardo Verdi. E’ poi interessante confrontare la realtà italiana dei primi 40 anni del ‘900, con la stessa realtà in Germania o in Francia, per trovare un modo di cantare molto diverso. Sulle “fanfaluche” dei teorici del canto non mi soffermo: erano gli stessi che sostenevano (come Artusi) che Monteverdi scrivesse musica “sbagliata”…
Mancini
Ma Lamperti non era un teorico, era il maestro migliore della seconda metà del secolo. Sua allieva era la Sembrich. E uno dei suoi primi trattati, scritto poco dopo la metà del secolo, inizia con un capitolo “sulle cause della decadenza del canto”, di cui consiglio a tutti la lettura.
Duprez
Ma chi scrive di canto (profetizzando sventure e limitandosi a lodare i tempi passati) è per me pochissimo interessante: in ogni disciplina c’è sempre qualcuno pronto a giurare che “prima” fosse meglio, anche all’epoca di Monteverdi. L’accettazione acritica del passato perché passato, secondo me equivale all’accettazione acritica del presente perché è presente. E comunque se Lamperti scrive trattati di canto è ipso facto un teorico del canto…e siccome, come scrive Goethe, “grigia è la teoria e verde è l’albero della vita”, chi si lambicca in teorie ed elucubrazioni, per me, resta un grigio burocrate della vocalità: censore acido e pedante al pari di un Beckmesser, probabilmente incapace di comprendere il “nuovo” e quindi, ignorandolo, pronto a bollarlo come “sbagliato” o “scorretto”. Non parlo solo di Lamperti (e il mio discorso è volutamente provocatorio), ma soprattutto dei teorici precedenti, e ci metto dentro anche gli stessi compositori: Rossini rimpiangeva i castrati perché rifiutava il nuovo linguaggio (anche se, nei fatti, non era di certo impermeabile ad esso), Verdi diceva che Lohengrin era “sbagliato” (addirittura), Rimsky-Korsakov riteneva che Mussorgsky avesse scritto il Boris così solo per mancanza di studi completi (e quindi si mise a correggerlo)…e così via! Credo che la storia della musica e della vocalità non possa essere scritta in base ad una idea di degenerazione da una determinata ortodossia: semplicemente perché questa non esiste! L’uso del falsetto (rinforzato o meno), ad esempio, andrebbe circoscritto nel tempo: non si può cantare l’Otello (di Verdi) con gli acuti “flautati e sfalsettanti”. Si negherebbe l’oggettiva evoluzione della musica che, come ogni cosa, cambia e si adegua a esigenze e linguaggi nuovi. Certo si può ritenere che dopo Rossini ci sia il vuoto: questione di gusti! E quelli non si discutono (io, ad esempio, mal sopporto Massenet, Gounod, Thomas). Dimenticavo, secondo me una delle cause di certo cattivo gusto (soprattutto in Italia) e di certa veristizzazione o verdizzazione di ogni repertorio, sarebbe da imputare anche a Toscanini e al toscaninismo, ossia ciò che ha impedito alla scuola direttoriale italiana di evolversi (oltre il mero accompagnamento) e l’ha costretta ai margino della civiltà musicale europea. Ma non vorrei aprire ulteriori spunti di polemica…
Grisi
Non credo sia lecito parlare di un gusto pessimo verista. Come se esistesse l’equazione verismo = pessimo gusto. Il gusto e’ espressione di un tempo, loro volevano quello. E’ pessimo per noi, non incontra il nostro. E’ un tema tipico dell’arte. Per i romantici il barocco era pessimo gusto…etc.
Il punto e’ la contaminazione che il verismo fa di altra musica…quello e’ pessimo. E poi c’e’ verismo e verismo…artisti per noi sbracati, ma altrei meno. Come sempre gli esempi di una Muzio di una Farneti e di una Olivero, per restare al canto femminile sono di ben altro significato.
Nel canto il tema del gusto nella critica dovrebbe essere ampliato per me a: quanto la cattiva tecnca infliusce sul gusto.
Il gusto e’ determinato anche dalla tecnica, dalle possibilita’ e dai limiti del cantante. Guarda caso i non limitati nella tecnica cantano sempre con gran gusto…..e’ un caso? Non credo che Toscanini veristizzi il repertorio…..senti ad esempio il suo Flauto magico da Salisburgo del 1937.
omissis
Mancini
Tutti questi discorsi dotti comunque non colgono nel segno. Un cantante che a fine Ottocento sa solo sparare acuti e non sappia cantare piano o cantare d’agilità, è come un pianista che sa solo pestare sui tasti senza riuscire a fare scale ed arpeggi. Io lo chiamo scadimento tecnico.
E’ ad esempio il caso di Tamagno, che di meglio rispetto ai cantanti di oggi ha solo il fatto di avere voce potente, squillante e facilissima in acuto, ma per il resto la sua sostanziale estraneità al canto a mezza-voce lo rende un cantante tecnicamente limitato, per non parlare della pessima musicalità. Fu un grande interprete nel ruolo di Otello… probabilmente perché fu lo stesso Verdi a dargli le giuste istruzioni.
Donzelli
Qui dissento Mancini, almeno in parte. Hai detto che i tenori del dopoguerra erano limitati tecnicamente. Tamagno, benchè finito e amusicale come sempre, è molto diverso nelle sue registrazioni – e non solo di Otello – dai colleghi del dopoguerra. Il che depone per il fatto che spesso cambia il gusto non la tecnica o i cambiamenti di tecnica sono in parte figli del gusto perché i fondamenti rimangono. In fondo Marconi e Tamagno per certi aspetti non sono così diversi.
Mancini
L’esempio dato da Duprez, quello che cantava per intenderci, ha dato origine al primo vero filone malcantista. Tutti i trattati del resto iniziano con il topos dei bei tempi che furono, ma le critiche di solito sono di carattere stilistico, musicale. Lamperti, invece, muove precise polemiche a proposito dello scadimento tecnico di cantanti che non sanno più eseguire fioriture o cantare a mezzavoce. Peraltro a fine Ottocento esistevano ancora cantanti tecnicamente completi e perfetti che cantavano senza problemi Verdi e Wagner, e avrebbero potuto cantare senza problema Rossini.
omissis
Duprez
Infatti cara donna Giulia, quel che reputo “cattivo gusto” è la veristizzazione di altri repertori (fenomeno, peraltro, circoscrivibile ad alcune aree geografiche: gli ascolti proposti del Verdi tedesco, ad esempio, mostrano una sensibilità differente e un approccio diverso nell’affrontare, in quegli stessi anni, il medesimo repertorio).
Mancini, io credo invece che tutto faccia parte di una storia evolutiva: così come non si può dire che l’arte barocca sia “peggiore” di quella gotica, non si può parlare di “degenerazione” del canto, ma solo di mutamento di linguaggio. Può piacere e non piacere ovviamente.
Grisi
Ma senti Gilbert: storia evolutiva a rigore vuole dire storia che presuppone una idea di progresso, tale per cui il presente è meglio del passato. quando tu fai certi discorsi sulle direzioni d’orchestra, a mio avviso fai una storia evolutiva… Il gusto è relativo, ci sono gusti che piacciono al presente o al singolo spettatore, altri che non piacciono o non piacciono piu’.
I tedeschi si erano inventati la definizione di Kunstwollen per affermare la relativizzazione del gusto e dell’arte nel tempo…un artificio storiografico che intende mettere da parte una idea selettiva dell’arte, cioè una storia fatta di “in e out”, ossia di oggetti da conservare e di altri da buttare. Con le interpretazioni musicali è la stessa cosa secondo me. Insomma non possiamo applicare alla musica l’evoluzionismo in senso darwiniano, quello della scimmia che si fa uomo, in arte non si può ammettere, posto che il problema della tecnica di canto non credo sia in termini di “meglio e di peggio”.
Donzelli
Battuta scontata: per il canto però, a volte, di regressione alla scimmia (o ad altro animale) potremmo anche parlare…
Mancini
Scadimento TECNICO, non scadimento di gusto o di linguaggio. Scadimento TECNICO (che magari del cambiamento del gusto e del linguaggio è una conseguenza, anche se non necessaria). Ripeto, un cantante che sa solo declamare forte e non sa cantare piano o cantare d’agilità è tecnicamente limitato. Come un pianista che riesce solo a placcare accordi con violenza, senza avere nessuna sensibilità nelle dita.
Duprez
E’ diverso quel che dico: non parlo di progresso in senso idealista, ma di evoluzione storica, nel senso che la realtà muta, e i cambiamenti si riflettono nell’approccio tecnico. Il cambiamento non ha crismi qualitativi, ma è un fatto incontestabile: l’abbandono dell’approccio belcantistico (tipo Opera Seria) non è una degenerazione, è un cambiamento. E me ne guardo bene dal fare discorsi darwiniani (che in arte sono una fesseria), è questo che contesto a Gianni, che mi sembra li faccia in senso contrario.
Grisi
Se una tecnica non consente la manovra della voce e la duttilità, non è valida. La scuola italiana di canto metteva i cantanti in condizione di eseguire cose inumane. Oggi si canta con tecniche barbare per cui i cantanti non sanno fare niente, nemmeno in quel respertorio verista che starebbe alla base della distruzione del belcanto. Oggi un tenore come DeMuro non è nemmeno immaginabile. Idem una Muzio o una Olivero, tanto per essere ripetitiva.
omissis
Duprez
Il mio pensiero, Giulia, sui direttori, però, è molto più articolato (e ovviamente è influenzato dal gusto personale). Quando parlo di interpretazione “superata”, parlo della sua mera riproduzione attuale: non è superato Klemperer, è superato chi oggi si picca di fare la fotocopia di Klemperer.
Io non credo che il verismo abbia distrutto il belcanto (certo non mi piace il belcanto tradotto in chiave verista), penso che ogni repertorio vada storicizzato e considerato nella sua epoca: senza sottovalutare il fatto che l’opera oggi è più che altro un intrattenimento culturale (in questo senso parlavo, tempo fa, di approccio museale). E poi fino a 80 anni fa bisognava fare i conti con una produzione attuale e viva, per cui è comprensibile il fatto che tra fine ‘800 e primi ‘900 certe cose non si eseguissero più: semplicemente era un repertorio che non interessava più (e ancor meno interessava recuperarne il dato stilistico), e le voci si “addestravano” su altri linguaggi. Oggi – che ci sarebbe (in potenza) – la possibilità di un approccio critico e ad una riscoperta consapevole dei diversi stili (da maneggaire con coerenza però), invece regna l’approssimazione…perché elementi extramusicali si sono introdotti nei metri di giudizio! Una sorta di “loggionismo” di risulta, nel senso che prima si attribuiva alla “fame di esibizione vocale” (a volte inutile) lo scadimento stilistico, e si imputava ai loggioni di bocca buona, l’interesse al mero dato muscolare (e l’incapacità di abbandonare le proprie certezze); oggi lo stesso atteggiamento “loggionista” lo hanno i tanti che ritengono doveroso applaudire il “nome” o la proposta che ci hanno inculcato essere la più culturalmente chic: di fatto sostituendo le bellurie vocali (che pur tra mille ingenuità sarebbero comunque giustificate) a pretese intellettualistiche o a ricerche assurde di motivazioni (a prescindere dalla musica). Che è questo se non preconcetto uguale e inverso a quelli mossi – come accusa – ai vecchi loggioni? La verità, che oggi si fatica ad ammettere (in esercizi spericolati di ipocrisia e mistificazione) è che regna un disinteresse enorme per gli aspetti musicali e si spaccia per oro quel che è volgare piombo…
..e poi un vento leggero si è sollevato, tra le volte dell’ampia sala, a confondere pensieri e parole, ma la discussione è proseguita e proseguirà ancora…
mi sembrate dei cospiratori nelle segrete del palazzo (scherzo) una discussione molto interessante..
La discussione è interessante (sebbene già sentita): colgo quindi l’occasione per scrivere una risposta, in particolare sugli aspetti tecnici, sui quali mi sembra di poter dire la mia a ragion veduta.
Facendo una velocissima premessa, nella quale concordo con l'affermazione di Duprez di e Donzelli che il passato quale “età dell’oro” sia una idea costante e melensa di ogni epoca (tutti i trattati da me letti siano essi dell’Ottocento, siano essi del Seicento, siano essi del Settecento, rimpiangono l’età precedente , ovviamente prendendosi delle cantonate emerite!) e che la tecnica varia col gusto ed il gusto varia con la tecnica, parliamo dei dati tecnici.
Mi ha sempre stupito come il canto nobile di Lauri Volpi sia stato snobbato in pieno per far posto al canto di Caruso; perché il canto spesso piagnone e singhiozzante (e populista) di Caruso come eredità per il Verismo (e quindi non è il Verismo a scadere ma i figli del Verismo)?
Per fare un parallelo, è la stessa preferenza di Pavarotti per Di Stefano piuttosto che per Gigli, valsogli l’unico schiaffo datogli mai dal padre come lui stesso disse. Misterium vitae!
A riguardo della descrizione del falsettone di Mancini (che all’inizio parla di falsetto essendo scettico sull’utilizzo e poi lodandone le potenzialità) mi piace la descrizione del suo utilizzo insieme alla risonanza di petto e su come fare le mezze voci: propone immagini molto belle del falsettone!
Non sono però d’accordo che gli acuti di “forza” (espressione bruttissima) siano dovuti alla natura mentre gli acuti di testa siano figli dello studio. In questo caso mi sembra che Mancini parli più per teoria che per pratica. Da mia esperienza, è da circa un anno e mezzo che “combatto” per realizzare il passaggio e conquistare gli acuti “di petto” (ma che di petto non sono perché “di petto” è solo la sensazione che si deve avere nel farli) e piano piano li sto conquistando. Dico quindi che gli acuti di “forza” (repetita iuvant, espressione orrenda) si conquistano con lo studio, con pazienza e con tenacia. Gli acuti di testa invece sono il vero dono di natura: personalmente ho i sovracuti dal re4 al la4, un mistero anche per me stesso, e non è stato certo il maestro ad avermeli cavati: il maestro di canto ti aiuta col passaggio e le note subito acute, perché quello è il vero scoglio! Il problema ora è “coprire il buco” tra il sib3 ed do#4: come si risolverà? Non ne ho idea ma continuo a studiare con pazienza!
Inoltre ed infine, un fatto che a mio avviso sottolinea la “naturalità” dei sovracuti è la storia di Rubini che entrò in decadimento vocale per l’utilizzo eccessivo dei sovracuti – storia che si può agevolmente reperire in una edizione inglese di inizio secolo scorso dei famosi gorgheggi e solfeggi rossiniani su IMSLP.
Caro Papageno, avrei dovuto immaginare che alcune mie considerazioni, a prima vista contraddittorie, avrebbero generato questioni come quelle che tu hai posto.
Per acuto “di forza” io intendo semplicemente l’acuto con la voce piena, quello che in gergo si suole chiamare acuto “di petto”. Alfredo Kraus sosteneva che, all’interno della voce piena, esiste un unico registro. Effettivamente, da un punto di vista puramente laringeo, se si accede al settore acuto mantenendo la voce piena, è improprio parlare di passaggio di registro. Tutt’al più viene a configurarsi un diverso assetto della cavità di risonanza (altrimenti ci si strozza), con accentuazione delle consonanze vibratorie di “testa”, ma il meccanismo fonatorio, alla base, rimane il medesimo.
Quando dico che l’acuto a piena voce è questione, più che di studio, di natura, penso al fatto che sono sempre esistiti tenori tecnicamente preparatissimi, che però in acuto, a voce piena, non superavano il SIb. Pensiamo ad esempio a Ferdinando de Lucia, a Tito Schipa, a Carlo Bergonzi. Oppure pensiamo allo stesso Nourrit, incapace di emulare il rivale Duprez. Già nel Settecento Mancini, parlando dei registri della voce, scriveva che “qualcheduno riceve dalla natura il singolarissimo dono di potere eseguir tutto colla sola voce di petto” (voce di petto, cioè voce piena, integrale). Sicuramente lo studio, la tecnica servono anche ad assecondare, sviluppare e facilitare la natura, ma tenori come Caruso, De Lucia, Schipa, Bergonzi, non importa se forniti di tecnica sopraffina, non avrebbero mai potuto andare oltre quello stretto limite che la natura imponeva loro. Possedere una lunga estensione nel settore acuto a voce piena è certamente – ma non sempre – il risultato di un lungo studio, ma dipende anche in buona misura da una certa predisposizione di natura. Inoltre non credo sia scorretta la dizione “di forza”, a proposito dell’acuto “di petto”. Cantare in zona acuta a piena voce è innegabilmente molto più faticoso e stressante della più prudente e belcantistica voce di testa. Per le orecchie di Rossini un sopracuto a voce piena è indubbiamente una nota forzata. Duprez infatti, eseguendo una sera dopo l’altra, a tutta voce, un repertorio devastante per le tessiture altissime, ha subito un declino vocale molto precoce (aveva solo trentadue anni quando Berlioz notò nella sua voce i primi indurimenti, e terminò la carriera di lì a poco, ripiegando su ruoli più centrali, come Otello).
Tu mi dici che l’acuto di testa è una questione di natura, non di studio, tant’è che tu stesso, senza che il maestro te l’abbia mai insegnato, riesci ad emettere note sopracute con la voce di testa. Questo è indubbiamente vero, infatti tutti noi, maschi e femmine, siamo dotati di una voce di testa. Ma il lavoro del cantante belcantista – qui viene il difficile – sta nel riuscire a collegare l’emissione a voce piena con l’emissione di testa (o falsetto che dir si voglia), unendo ed amalgamando i due registri, senza fare percepire nessuno stacco, nessuno scalino, nessun buco.
Molti giovani soprani si trovano con una voce letteralmente spezzata in tre tronconi: tre voci diverse, con cui coprono un’estensione lunghissima. Il primo scoglio per imparare a cantare è fare di queste tre voci uno strumento unico, omogeneo, ugualmente facile e sviluppato in tutte le note della gamma.
Quanto a Rubini, a me risulta che il tenore bergamasco abbia avuto una carriera trentennale (una carriera che alternava Puritani, Sonnambule, Pirata, Ugonotti, Lucie… mica robette), e secondo Gino Monaldi a quarant’anni la voce era ancora fresca come da giovane. Quando Duprez, che aveva perduto la voce, gli chiese come facesse a conservare così la propria voce, Rubini rispose:“Tu hai perduto la voce perché cantasti con tutto il tuo capitale; io invece sempre con gli interessi”. Ricordo inoltre che Chopin in una lettera nel ‘31, dopo aver ascoltato Rubini a Parigi, scrisse che il tenore cantava tutto a piena voce, mai “di testa”. Il che si spiega considerando quanto nel canto di Rubini i due registri fossero ben saldati ed amalgamati, e di conseguenza perfettamente omogenei.
Interrogarsi sulle cause dell'impossibilità di eseguire perfettamente opere come Gli Ugonotti coincide con il ricercare le cause della decadenza del canto ai giorni d'oggi, per il semplice motivo che la padronanza dei mezzi tecnici per l'esecuzione delle stesse deve essere assoluta. Senza azzardare excursus sulla storia della musica vocale, io identifico questa decadenza in:
1 – Una volgarissima concezione del canto come esibizione coram populo di atletismi vocali tout court.
2 – Uno scarso amore per la cultura del canto e, in generale, della musica.
Non è tuttavia vero che l'antica scuola sia completamente scomparsa, vorrei menzionare il maestro Sergio Catoni che possedeva una padronanza dei propri mezzi vocali tale da poter filare un Re4 a voce piena e da poter toccare il Fa5 in falsetto (consiglio la lettura del libro "Il canto lirico nella tradizione italiana").
Il caposaldo della scuola antica, però, è che il canto NON è una chirurgia teoretica dell'apparato fonatorio, ma è un qualcosa che nasce in interiore homine: questo documento http://www.youtube.com/watch?v=Y8erukaVLUQ ha un valore chiave, vi invito a lasciar perdere terminologie ambigue come "voce di petto, di testa, falsettone" ed a trovare uno di questi "grandi" cantanti odierni che risponda a tutti i requisiti che Lauri-Volpi elenca. Questi individui mi danno l'impressione di essere davvero una schiera di (con tutto il rispetto, per carità) impiegati, banchieri, massaie vestite per carnevale che si dilettano in questo o quel teatro, allo scopo di sfilare su di un proscenio ricevendo ovazioni ancor più incolte di loro stessi. La grandezza del cantante, dalla tecnica vocale (sempre come SVILUPPO dei mezzi e mai come insieme di artifici) al gusto, va di pari passo con la grandezza dell'uomo, e non può essere altrimenti.
Sono molto, molto dubbioso sulla parte finale dell'intervento di Davide Valdo. Se, come credo, l'attività del cantante deve essere posta nella stessa categoria delle altre attività creative, per esempio del compositore, del pittore, del filosofo, del romanziere, del poeta, e chi ne ha più ne metta, l'equivalenza fra grandezza dell'uomo e grandezza dell'artista non ha nessun senso. La storia trabocca di esempi di artisti che sono stati una vera sentina di meschinità, invidie, rancori, ristrettezza di prospettive, anche di cose che in persone di tipo diverso avremmo chiamato francamente stupidità. L'uomo è una cosa complessa, contraddittoria; e la grandezza dell'artista poggia su tutta una serie di oscurità inconfessabili e tutt'altro che prestigiose. Anzi, spesso ci appare il caso che, più una persona è grande, più pesante è il carico di meschinità su cui la sua grandezza poggia e di cui essa si alimenta. Come se la profondità dell'artista avesse il potere di nutrirsi della miseria di sé e degli altri e al contempo di trasfigurarla; ma, pur al contatto di quel supremo potere, tale miseria rimane, è riconoscibile ed è ben presente. Altrimenti, come avrebbe potuto il nazista ed antisemita Céline essere uno dei più grandi (per me, il più grande insieme con Kafka) scrittore del Novecento?
Marco Ninci
Se poi Davide Valdo voleva semplicemente dire che la bravura di un cantante o di un artista non è un puro fatto tecnico, d'accordo. Tuttavia faccio notare che nessuna attività umana, di nessun genere, né quella del banchiere né quella dell'impiegato, è un puro fatto tecnico. Coinvolge sempre qualità umane o creative.
Marco Ninci
Caro Mancini,
leggendo il tuo commento di risposta trovo alcune cose su cui dissentire fortemente, su cui dissento nella lettura e su cui sono d’accordo.
Fatta la premessa doverosa che per il sottoscritto la tecnica del canto è in primis un metodo di rigore, e complementariamente sia un esercizio di immaginazione per la resa finale, sia di consapevolezza meccanica di quello che succede negli organi vocali e nel corpo, le cose su cui dissento fortemente sono:
a) l’affermazione “da un punto di vista puramente laringeo, se si accede al settore acuto mantenendo la voce piena, è improprio parlare di passaggio di registro. Tutt’al più viene a configurarsi un diverso assetto della cavità di risonanza” è in parte errata, in quanto da un punto di vista laringeo i diversi registri hanno un comportamento ed un meccanismo differente, come visibile nella seguente immagine peraltro già proposta in precedenza http://www.maurouberti.it/dodipetto/laringe.jpg. Inoltre le cavità di risonanza sono le stesse per qualsiasi registro, nel senso che il suono per ogni registro risuona in tutte le cavità di risonanza ma a seconda dell’altezza certe sono più coinvolte, generando la percezione/immaginazione del cantante del luogo in cui “risuonano” questi suoni ;
b) il termine “do di petto” è un termine impreciso in quanto non corrisponde propriamente a quanto meccanicamente succede nella laringe nella contemporaneità; il termine non sta ad indicare che la nota viene eseguita, come affermi per le note acute, di petto ossia di forza, ma viene eseguito mantenendo nel cantante e in chi ascolta delle risonanze di petto (o meglio consonanze, come specificato dalla foniatria artistica), perché per eseguire questa nota rientrano i meccanismi del registro di testa odierno.
Che poi ci siano stati cantanti storici come Duprez e Tambelick, Baucardè, etc etc che si siano sfasciati nell’eseguire questa nota proprio perché tutta di petto e quindi di forza (e qui rientriamo nella particolarità vocale di ogni cantante) è riprova che senza una buona tecnica ed un buono studio le note acute non rimangono!
Le cose su cui dissento nella lettura sono invece:
a) l’affermazione di Kraus “all’interno della voce piena, esiste un unico registro” è molto simile a quello che dice Blake in una intervista facilmente reperibile su YouTube sul passaggio: “il passaggio non esiste” .
Secondo me, la lettura preferenziale è quella da un punto di vista didattico (Blake fece la conversazione con uno studente) ossia che nella emissione di tutta la propria estensione bisogna avere in mente una stessa qualità di suono, comportando questo una omogeneità nell’estensione che non significa che ci debba essere lo stesso comportamento fonatorio lungo tutta l’estensione stessa!
b) l’affermazione del Mancini “qualcheduno riceve dalla natura il singolarissimo dono di potere eseguir tutto colla sola voce di petto” da una possibilità di lettura doppia a mio avviso: o si intende che effettivamente il Mancini riporti delle peculiarità vocali di chi esegue tutto con la voce di petto, oppure che esistono delle voci dotate naturalmente nell’eseguire tutta la loro estensione senza interruzioni (voci naturalmente impostate) e che mantengono naturalmente e senza bisogno di studio il colore “di petto” ossia la sensazione di avere il suono sempre “in petto”, una seconda lettura che io personalmente trovo più giusta.
Mi trovo poi d’accordo ed interessato sui cenni storici che fai e sull’esempio dei giovani soprani, e mi ricollego al fatto che le voci femminili hanno evidenti difetti sulla non corretta ordinazione dei tre registri, prima ancora di quelle maschili. Per le voci maschili gravi, stendiamo poi un velo pietoso!
Quanto a Rubini, entrambi abbiamo delle testimonianze su quello che diciamo: le tue sono maggiori delle mie, quindi per quantità e qualità posso dare alle tue una via preferenziale.
Davide Valdo ha detto"La grandezza del cantante, dalla tecnica vocale (sempre come SVILUPPO dei mezzi e mai come insieme di artifici) al gusto, va di pari passo con la grandezza dell'uomo, e non può essere altrimenti."
Non sò se un campione di calcio è anche essere un creativo,ma Maradonna era un campione come calciatore,ma come uomo valeva assai poco,sia come comportamento sia per la vita che faceva,penso che anche un cantante nella vita professionale,può cantare da divo,e dietro le quinte essere un miserabile come idee e copmportamenti
Un grande calciatore è assolutamente un creativo; quando poi si parla di Maradona, si può tranquillamente parlare di genio.
Marco Ninci
E poi, su Maradona vorrei dire un'altra cosa. Certo, il suo comportamento non era esemplare, si drogava, aveva certi contatti non precisamente corretti, però la sua lotta contro il palazzo era autentica e l'amore per la squadra e i compagni fuori discussione. In poche parole, pagava il suo stato iniziale di grandissima povertà, ma i suoi valori mi piacevano. Meglio, molto meglio lui di quei terribili sepolcri imbiancati dei membri della famiglia Agnelli,
Marco Ninci
No, no, piano, si sta commettendo un errore fondamentale. Io sto parlando di grandi cantanti e di uomini, non di cittadini. Intanto distinguiamo l'uomo dal cittadino: è vero, Céline era un nazista, Puccini era politicamente ignavo e libidinoso, Baudelaire era un drogato, Di Stefano era un libertino, ma questi elementi hanno a che fare con la veste sociale, mondana di un individuo, e non con la propria umanità. L'uomo (pur non essendo certo una bellezza) è ben altro. Asserire poi che Maradona sia stato un "campione" è – senza offesa – oltraggioso e limitante, esattamente come dire che la Callas sia stata una "grande cantante" o Glenn Gould "un grande interprete di Bach"; questi sono esempi di individui che non si sono limitati a dedicare la propria vita all'arte, ma hanno fatto di loro stessi un'arte. Per questo motivo è sbagliato mettere Gould e, per dire, Trevor Pinnock (eccelso interprete di Bach) sullo stesso piano, come è sbagliato mettere Thomas Eliot e Montale sullo stesso piano.
PS Dall'estetica del canto nell'epoca della grand-operà siamo passati a disquisire di tutto e di più, mi scuso.
Ringrazio Davide Valdo per il suo contributo alla discussione. L'argomento è troppo complesso. Io mi limito a dire che sono molto d'accordo con Davide.
Rispondo invece a Papageno.
Lasciando da parte il disegnino del Dottor Mauro Berti (non mi intendo di anatomia), devo fare alcune ulteriori precisazioni. Nella mia spiegazione precedente non mi sarei dovuto azzardare a scrivere "da un punto di vista puramente laringeo", con le righe che seguivano. Se parliamo di canto dobbiamo esprimerci con il linguaggio della musica e del canto, non con le categorie della scienza medica.
Dunque, si parlava di registri della voce. Semplificando, i registri sono due, e volgarmente si chiamano petto e testa. Si tratta di espressioni convenzionali, tradizionali, attraverso le quali da sempre si indica la voce piena, integrale (“petto”) e la voce di falsetto (“testa”).
Il canto si basa sull'unione, sul mescolamento di questi due registri. Per cui un acuto, se fatto bene, non sarà mai né di petto né in falsetto, ma sarà sempre un mix.
Domanda: perché a proposito di Duprez si parla sempre di "DO di petto"? Che Duprez abbia davvero emesso un "DO di petto", a squarciagola? Non credo sia fisicamente possibile. Duprez semplicemente avrà emesso acuti senza passare in falsetto, ma mantenendo la voce piena opportunamente rinforzata e mescolata con la voce di testa (ma era sempre la voce piena a prevalere, altrimenti non sarebbe passato alla storia come l'inventore del "DO di petto": secondo i parametri di quel tempo, Duprez emetteva gli acuti senza passare di registro; ed effettivamente è così, se è vero appunto che la voce piena prevaleva sulla voce di falsetto). Io poi non mi azzarderei a dire che a Duprez e Tamberlick mancassero buona tecnica e buono studio… Mi limito ad affermare che, agli acuti muscolosi e ghermiti alla Duprez, avrei preferito gli acuti più "di testa" alla Nourrit o alla Rubini (e non erano acuti in falsetto puro: erano acuti in cui il falsetto veniva rinforzato, unito col petto, mentre per Duprez possiamo azzardarci a dire che si trattasse di acuti di petto rinforzati col falsetto).
Quanto alle parole di Kraus, Blake e Mancini, nel momento in cui intendiamo per "voce di petto" la "voce piena" (cioè non il falsetto), non credo ci sia bisogno di spiegare alcunché. Le loro parole sono chiare e non mi pare si possano prestare a chissà quali interpretazioni.
Prego. Comunque bisognerebbe davvero aprire una corrente filologica a parte per ricostruire quel che era la cultura del canto in quell'epoca.
Sull'argomento voce di testa/petto invito a visionare questo documento http://www.youtube.com/watch?v=QQnHDLLWrLs .
A me pare, francamente, che nessuno abbia le idee chiare (parliamo della Gencer e della Olivero, mica la Guleghina) e che quando si parla di queste cose ci si riferisca a percezioni corporee assai soggettive.
Un'altra cosa che vorrei considerare è la famosa frase di Rossini sul Do di petto (il famoso cappone sgozzato), pongo un dubbio: siamo sicuri che il suono emesso da Duprez non fosse davvero un'emissione sforzata, urlata, appoggiata nella gola e quindi percepita come "brutta" dalla sovrasensibilità musicale di Rossini?
Quel video che ci segnali, Davide, lo avevo già visto tempo fa, ed è una cosa assolutamente esilarante. Talvolta sentir parlare i cantanti (anche i grandi cantanti) è assai imbarazzante, poiché spesso dimostrano di non avere nessuna coscienza tecnica e storica della loro arte e della loro voce.
La Simionato e la Barbieri, che negano l'uso del registro di petto (!!! come se usare il registro di petto fosse un fatto da biasimare!!!), confondono la nozione di registro con il concetto di suono in maschera. Fanno pure la dimostrazione, emettendo note di puro petto dal colore mascolino, e affermando non trattarsi di petto (!!!), dal momento che la voce è alta in maschera.
Il punto è che voce "in maschera" significa solo voce timbrata. E la voce ovviamente deve essere alta, timbrata, "in maschera", sia nel registro di testa, sia nel registro di petto!
L'unica che sembra capire qualcosa è la Gencer.
Quanto a Duprez, anche io spesso mi sono posto lo stesso interrogativo che poni tu. Io penso che se Rossini lo definì davvero un "cappone sgozzato", quel suono allora doveva essere probabilmente un suono se non urlato, comunque assai forzato.
Io poi penso che il fenomeno Duprez sia stato oltremodo gonfiato dalla pubblicità parigina (in Italia ebbe una buona accoglienza ma non arrivò mai al trionfo che ebbe all'Opéra), e da una certa storiografia idealista che ha voluto farne una sorta di campione del canto moderno… quando invece Duprez probabilmente non ha scoperto niente di più che l'acqua calda.
Ma chiaramente sono ipotesi.
Scusate, avevo postato un commento che non è stato registrato a dovere da Blogger, comunque il sunto è che le nozioni di voce di petto/testa sono talmente ambigue e confusionarie che molti cantanti della vecchia scuola l'hanno eliminato dal proprio vocabolario. È per questo che mi spiego come mai, nel video precedentemente proposto, la grande maggioranza delle cantanti rinnega l'esistenza di una voce di petto.
Caro Davide scusami ma non capisco dove sia l'ambiguità nel parlare di voce di petto e voce di testa: sono espressioni convenzionali con cui ci si riferisce alle due differenti modalità fonatorie che formano la voce cantata, e sono in uso da secoli.
Queste cantanti che rinnegano l'uso della voce di petto non sanno nemmeno ciò di cui stanno parlando.
Come vedi ho ragione quando dico che tra gli stessi cantanti c'è una confusione disarmante.
Oggi, dopo aver riascoltto le edizioni che possiedo di Ugonotti negli scorsi giorni, mi sono perso a rileggere questi vecchi articoli che sono molto più che interessanti, non solo per la qualità della discussione, ma anche perché nessuno si occupa mai del povero Meyerbeer in generale. Purtroppo per me trovo Crociato, Ugonotti, Profeta, Roberto il diavolo, Africana, Dinorah delle opere stupende e mi rammarico del fatto che non si eseguano mai e che il loro autore sia sempre criticatissimo. Senza voler fare polemica, Berlioz è geniale e i Troiani, francamente pesanti a mio gusto, sembra che valgano 100 volte i suddetti pargoletti (sovradimensionatiXD) di Meyerbeer.
Volevo chiedere un parere sull’edizione che trovate nel complesso più riuscita dell’opera e domandare se qualcuno conosce l’edizione live da Montpellier con Kunde, la Miricioiu diretta da Diederich e il resto del cast uguale/simile a quello dell’edizione Erato. Io trovo che Kunde, Miricioiu e Raphanel facciano un ottimo lavoro e nel complesso (a parte il basso osceno) possa essere considerata un’edizione molto equilibrata e soddisfacente.
Ah, dimenticavo, qualcuno sa dove si può recuperare l’edizione con Osborne a Bruxelles?
Ma, intendi dire l’edizione del 2011
diretta di Minkowski?
Si esatto Miguel proprio quella:)