La scorsa settimana la BBC ha trasmesso in diretta radiofonica una recita della Madama Butterfly attualmente in cartellone alla Royal Opera House.
L’unico motivo di interesse della produzione è costituito dal debutto londinese di Kristine Opolais, soprano lettone assai quotato nei teatri più prestigiosi (era la Donn’Elvira dell’ormai leggendario Don Giovanni della boiserie all’ultimo festival di Aix) e udito recentemente anche alla Scala quale secondo cast di Oksana Dyka nei Pagliacci.
Il contorno di tale debutto era costituito dalla soporifera bacchetta di Andris Nelsons (la cui lettura dell’approdo della “Abramo Lincoln” evoca però scenari sonori da luna park impazzito), dal bel timbro, poco amico del passaggio superiore, di James Valenti e dalla consunta imperizia di Anthony Michaels-Moore quale Sharpless. Nulla di inedito, quindi.
Su questa Butterfly sono comparse in rete e altrove recensioni inneggianti all’arte sublime della protagonista, paragonata addirittura alla Callas (nome che compendia, per alcuni commentatori, l’intera storia del canto e dell’interpretazione dai cilindri a oggi), e ipso facto elevata al rango di leggenda in vita. Analoghe considerazioni sono state premesse dagli speaker radiofonici (solitamente ben più misurati) alla trasmissione della recita e riproposte, per buona misura, a chiusura della medesima.
Come insegna Santa Romana Chiesa le canonizzazioni, anche quando riguardino personaggi d’immacolata fama e specchiate ed elette virtù, meritano ogni prudenza e attenta valutazione e soprattutto un congruo lasso di tempo tra la dipartita del personaggio e la sua ascesa agli altari, o meglio, il primo passo in quella direzione.
Ed è stata verosimilmente la prudenza a suggerire alla direzione del teatro di premettere alla recita, destinata alla diffusione radiofonica, la lettura di un comunicato in cui si annunciava che la signora Opolais avrebbe cantato benché indisposta. Apprezziamo che nel medesimo comunicato non si sia addebitata d’ufficio alla trasmissione radiofonica ogni eventuale lacuna e non rispondenza della recita ai peana della carta stampata ovvero virtuale.
Brevemente: abbiamo udito una voce che in basso suona costantemente fioca e poco proiettata, quando non ricorra a oscuramenti e suoni di petto (es. nel secondo atto “per celarmi la pena”: sol-mi grave) o addirittura al semplice parlato (chiusa di “Che tua madre dovrà” e “O a me sceso dal trono”, con tanto di singhiozzi interpolati, o ancora “Piangi e dispera” al secondo atto). Al centro il timbro è assolutamente comune, da soprano lirico leggero più che da lirico pieno o addirittura lirico spinto, come farebbe supporre la presenza, nel repertorio della signora, di ruoli quali Senta e Tosca. Soprattutto in questa zona della voce si evidenzia una costante difficoltà a legare i suoni (es. “tutto sia pien di fior come la notte è di faville”), difficoltà da cui scaturisce l’incapacità di eseguire le forcelle previste in “Un bel dì vedremo” senza che la voce si spezzi (“olezzo di verbena”). Passato il do centrale la voce acquista sonorità, ma non omogeneità o morbidezza, il tutto a prezzo di penose stonature (“Scuoti quella fronda di ciliegio”: attacco su “No, rido”, sol bemolle), mentre gli acuti sono suoni ora ghermiti (scena all’inizio del secondo atto: “Signor, gli domandai?” la bemolle) ora malamente berciati (su tutti, ovviamente, il re bemolle de “al richiamo d’amore” alla sortita, ma il si bemolle di “io con sicura fede l’aspetto” e l’altro al termine del duettino con Suzuki non sono da meno).
A volte un evento che a prima vista sembrerebbe solo ed esclusivamente negativo si rivela utile e interessante perché offre l’occasione di riconsiderare alcuni elementi dati per acquisiti. Ascoltando la signora Opolais viene spontaneo rivolgere un pensiero alle esponenti, più o meno celebri, più o meno grandi della scuola di canto verista, spesso additate come esecutrici meno che accettabili, oltre che manierate e noiose interpreti. Ebbene, riascoltate oggi, in epoca di sbandierata aderenza ai desiderata dell’autore e alle ragioni della musica, le cantanti di seguito proposte nei principali passi dell’opera, che della diva verista (dalla Storchio e dalla Krusceniski fino alla Kabivanska) fu uno dei luoghi topici, offrono non solo una testimonianza di grande valore storico, ma una vera lezione di decenza e onestà professionale, oltre che, in alcuni casi, un saggio di autentica arte. Ascoltare a titolo di esempio il dramma di Butterfly, cui si prospetta il ritorno alla grama vita di geisha, affidato al fervore e alla voce d’oro di Rosetta Pampanini, o l’addio al figlio di una Maria Farneti che, all’epoca della registrazione, aveva passato i cinquanta anni di età e aveva concluso la carriera più di quindici anni prima, per ragioni matrimoniali e non per raggiunta decozione vocale.
Gli ascolti sono dedicati ovviamente ai nostri detrattori, che anche di queste brevi annotazioni non mancheranno di servirsi onde dipingere i “grissini” quali esseri animati da cieco e immotivato furore nei confronti dei grandi interpreti della modernità scenico-vocale. Cieco può darsi, ma non sordo, e tanto meno immotivato.
L’unico motivo di interesse della produzione è costituito dal debutto londinese di Kristine Opolais, soprano lettone assai quotato nei teatri più prestigiosi (era la Donn’Elvira dell’ormai leggendario Don Giovanni della boiserie all’ultimo festival di Aix) e udito recentemente anche alla Scala quale secondo cast di Oksana Dyka nei Pagliacci.
Il contorno di tale debutto era costituito dalla soporifera bacchetta di Andris Nelsons (la cui lettura dell’approdo della “Abramo Lincoln” evoca però scenari sonori da luna park impazzito), dal bel timbro, poco amico del passaggio superiore, di James Valenti e dalla consunta imperizia di Anthony Michaels-Moore quale Sharpless. Nulla di inedito, quindi.
Su questa Butterfly sono comparse in rete e altrove recensioni inneggianti all’arte sublime della protagonista, paragonata addirittura alla Callas (nome che compendia, per alcuni commentatori, l’intera storia del canto e dell’interpretazione dai cilindri a oggi), e ipso facto elevata al rango di leggenda in vita. Analoghe considerazioni sono state premesse dagli speaker radiofonici (solitamente ben più misurati) alla trasmissione della recita e riproposte, per buona misura, a chiusura della medesima.
Come insegna Santa Romana Chiesa le canonizzazioni, anche quando riguardino personaggi d’immacolata fama e specchiate ed elette virtù, meritano ogni prudenza e attenta valutazione e soprattutto un congruo lasso di tempo tra la dipartita del personaggio e la sua ascesa agli altari, o meglio, il primo passo in quella direzione.
Ed è stata verosimilmente la prudenza a suggerire alla direzione del teatro di premettere alla recita, destinata alla diffusione radiofonica, la lettura di un comunicato in cui si annunciava che la signora Opolais avrebbe cantato benché indisposta. Apprezziamo che nel medesimo comunicato non si sia addebitata d’ufficio alla trasmissione radiofonica ogni eventuale lacuna e non rispondenza della recita ai peana della carta stampata ovvero virtuale.
Brevemente: abbiamo udito una voce che in basso suona costantemente fioca e poco proiettata, quando non ricorra a oscuramenti e suoni di petto (es. nel secondo atto “per celarmi la pena”: sol-mi grave) o addirittura al semplice parlato (chiusa di “Che tua madre dovrà” e “O a me sceso dal trono”, con tanto di singhiozzi interpolati, o ancora “Piangi e dispera” al secondo atto). Al centro il timbro è assolutamente comune, da soprano lirico leggero più che da lirico pieno o addirittura lirico spinto, come farebbe supporre la presenza, nel repertorio della signora, di ruoli quali Senta e Tosca. Soprattutto in questa zona della voce si evidenzia una costante difficoltà a legare i suoni (es. “tutto sia pien di fior come la notte è di faville”), difficoltà da cui scaturisce l’incapacità di eseguire le forcelle previste in “Un bel dì vedremo” senza che la voce si spezzi (“olezzo di verbena”). Passato il do centrale la voce acquista sonorità, ma non omogeneità o morbidezza, il tutto a prezzo di penose stonature (“Scuoti quella fronda di ciliegio”: attacco su “No, rido”, sol bemolle), mentre gli acuti sono suoni ora ghermiti (scena all’inizio del secondo atto: “Signor, gli domandai?” la bemolle) ora malamente berciati (su tutti, ovviamente, il re bemolle de “al richiamo d’amore” alla sortita, ma il si bemolle di “io con sicura fede l’aspetto” e l’altro al termine del duettino con Suzuki non sono da meno).
A volte un evento che a prima vista sembrerebbe solo ed esclusivamente negativo si rivela utile e interessante perché offre l’occasione di riconsiderare alcuni elementi dati per acquisiti. Ascoltando la signora Opolais viene spontaneo rivolgere un pensiero alle esponenti, più o meno celebri, più o meno grandi della scuola di canto verista, spesso additate come esecutrici meno che accettabili, oltre che manierate e noiose interpreti. Ebbene, riascoltate oggi, in epoca di sbandierata aderenza ai desiderata dell’autore e alle ragioni della musica, le cantanti di seguito proposte nei principali passi dell’opera, che della diva verista (dalla Storchio e dalla Krusceniski fino alla Kabivanska) fu uno dei luoghi topici, offrono non solo una testimonianza di grande valore storico, ma una vera lezione di decenza e onestà professionale, oltre che, in alcuni casi, un saggio di autentica arte. Ascoltare a titolo di esempio il dramma di Butterfly, cui si prospetta il ritorno alla grama vita di geisha, affidato al fervore e alla voce d’oro di Rosetta Pampanini, o l’addio al figlio di una Maria Farneti che, all’epoca della registrazione, aveva passato i cinquanta anni di età e aveva concluso la carriera più di quindici anni prima, per ragioni matrimoniali e non per raggiunta decozione vocale.
Gli ascolti sono dedicati ovviamente ai nostri detrattori, che anche di queste brevi annotazioni non mancheranno di servirsi onde dipingere i “grissini” quali esseri animati da cieco e immotivato furore nei confronti dei grandi interpreti della modernità scenico-vocale. Cieco può darsi, ma non sordo, e tanto meno immotivato.
Gli ascolti
Puccini – Madama Butterfly
Atto II
Un bel dì vedremo – Salomea Krusceniski (1912), Iris Adami Corradetti (1940)
Che tua madre dovrà – Rosetta Pampanini (1928)
Atto III
Tu, tu, piccolo Iddio – Maria Farneti (1930)
Ho avuto la sfortuna di ascoltare la trasmissione alla radio e l'ho trovata semplicemente imbarazzante…
Non sapete cogliere il senso profondo delle moderne esecuzioni. La voce della Opolais esprimeva il senso di debolezza e rassegnazione di un popolo oppresso dall´imperialismo e dal colonialismo.
Ma volete ancora soprani che eseguono note scritte e rispettano le dinamiche? Ma per favore…
Sì, per favore. Please…