Dopo una lunga attesa, approda finalmente su disco, il Fidelio diretto da Abbado. Registrato dal vivo a Lucerna, nell’estate del 2010 – dopo il rodaggio in altre piazze europee (tra cui l’Italia) – avrebbe dovuto segnare un nuovo punto di partenza nell’interpretazione del tormentato capolavoro beethoveniano. Le ragioni di tale aspettativa risiedevano principalmente nel profondo lavoro di rilettura operato da Abbado nei confronti dell’esecuzione della musica di Beethoven: un percorso che ha portato il Maestro ad offrire una più moderna (anche se non originalissima) visione del corpus sinfonico, liberandolo da certe sovrastrutture tardoromantiche, dal gusto titanico ed ipertrofico (caratteristico della cosiddetta “scuola storica”), attraverso un generale ripensamento nelle dinamiche, negli equilibri sonori e strumentali (ridimensionando l’invasività degli archi), nell’uso del vibrato, nei tempi e nella tensione “narrativa” unitaria (rinunciando agli edonismi estenuanti, al mero compiacimento estetico e all’effettismo più immediato).Un Beethoven “nuovo” (anche dal punto di vista editoriale, con l’adozione delle edizioni critiche curate da Jonathan Del Mar), presentato come lo sviluppo del sinfonismo di Mozart e di Haydn (pur nella consapevolezza di un differente approdo etico ed estetico), più classico che “romantico” (o peggio, “tardoromantico”), non più legato alle mitizzazioni di fine ‘800 e saldamente ancorato ad una sorta di razionalismo kantiano. Purtroppo nulla di tutto ciò emerge da questo Fidelio. Il disco, che dovrebbe essere la summa di un percorso interpretativo, la cristallizzazione di un’emozione, risulta, invece, molto meno interessante delle tante recite preparatorie che si sono susseguite fin dal 2008 (a Madrid, a Baden-Baden, a Aix-en-Provence, e pure a Modena e a Ferrara). E non è la prima volta, con Abbado, che il passaggio dal teatro al disco compromette il disegno interpretativo (che risulta spesso banalizzato). Un’incisione molto deludente, dunque (rispetto alle aspettative), e non solo per un cast largamente inadeguato, ma soprattutto – e spiace dirlo – per l’approccio direttoriale. Già i primi sospetti emergono dalla mera lettura del libretto d’accompagnamento: ancora si parla di un Beethoven criptogiacobino e rivoluzionario (come da vulgata ormai trapassata) e di un Fidelio che rappresenterebbe la rivolta dell’uomo libero contro l’oppressione e la tirannia del “vecchio mondo” fatto di privilegi nobiliari e prepotenza. Di nuovo si legge (a sproposito) degli ideali del 1789 trasfusi nella “musica della libertà”. Di nuovo passa più o meno sotto silenzio il fatto che il testo da cui è tratta l’opera, nasca, invece, in ambiente antigiacobino e antirivoluzionario (proprio in quel mondo che, secondo l’estensore delle note e con il consenso di Abbado, sarebbe il bersaglio critico della supposta utopia libertaria beethoveniana) e che vuole rappresentare la disumanità di un potere che abbandona le certezze dell’ordine e del diritto (e del resto basta pensare che alla fine è proprio il potere costituito, rappresentato addirittura da un nobile, a ristabilire l’ordine naturale, a restaurare gli equilibri). Fidelio è piuttosto la celebrazione di uno status quo prerivoluzionario, di un mondo ordinato gerarchicamente secondo i dettami della natura (l’amore coniugale come fondamento di ogni società che vuole essere “giusta”), della legalità e della moralità: e difatti Leonora lo dice chiaramente nel Nr. 5 della partitura “Ich hab auf Gott und Recht Vertrauen”, cioè “confido in Dio e nel Diritto”. Altro che rivoluzione! Un testo fortemente legittimista, che stride con l’immagine della vulgata beethoveniana. Abbado, invece, riporta indietro le lancette del tempo ad un approccio ideologico del tutto fuorviante (e decisamente superato) tanto da far riscrivere completamente i dialoghi del singspiel (peraltro ridotti all’osso) in chiave “sessantottina” (un solo esempio: il primo monologo di Marzelline, dove alla ragazza viene tolta la dimensione della semplice infatuazione, “da quando Fidelio è in questa casa, tutto è cambiato fuori e dentro di me”, a favore di un’ingombrante e incongrua dichiarazione di retorica libertaria, “da quando Fidelio è con noi il mondo è trasformato, i muri appaiono più distanti e il cielo più alto: io respiro la Libertà”): ecco dunque che i “cattivi” diventano agenti della reazione e dell’oppressione di regime, mentre i “buoni” sembrano guidati dalla consapevolezza politica di un’opposizione organizzata. Coerente all’impostazione ideologica è la conseguente interpretazione musicale. Innanzitutto la visione orchestrale: Abbado – a differenza delle sinfonie – pare accontentarsi del “bel suono”. L’orchestra – peraltro superlativa – è morbida, vellutata, di compostezza olimpica. Un Beethoven stranamente rassicurante e “sereno”, dal suono ricco e pieno. Quasi normalizzato. Ogni asperità pare addolcita e spianata in un approccio che ricorda l’Abbado degli anni ’80, all’epoca della sua prima integrale beethoveniana. Insomma una versione riveduta e corretta del classico dei classici: il Beethoven in salsa viennese. Certamente eseguito con grandissima precisione e virtuosismo, ma, appunto “soltanto” ben suonato (che a volte può essere molto, ma che, nel caso di Abbado, non è abbastanza). Bastano le prime note dell’ouverture da cui sparisce ogni tensione, ogni asprezza, e ritorna ad essere “solo” uno splendido pezzo di musica: buono per la sala da concerto. Certo non mancano i grandi momenti, come da tradizione: il coro dei prigionieri e il finale, ovviamente. Ma il senso di deja-vu è persistente: si ritrovano tante storie, ma nessuna di esse è una “storia nuova”. Si respira la solita aria di oratorio laico, ma fuori tempo massimo. Chiaramente la lettura orchestrale (e quella ideologica da cui deriva) comporta tutta una serie di problemi e fraintendimenti che riportano ai Fidelio di 50 anni fa: in una visione fortemente caratterizzata politicamente (in una sorta di parabola del riscatto dell’Umanità attraverso la rivolta e la conquista della Libertà) è chiaro che un’intera porzione della partitura (quella più legata al disincanto del teatro mozartiano) risulta compromessa. In sostanza Abbado – esattamente come Furtwangler, Klemperer, Kleiber e Karajan (e molti altri) – non sa che farsene dei personaggi di Jaquino e Marzelline, trattati come elementi estranei e superflui alla partitura (mentre in realtà ne sono parte fondamentale, in quanto speculari alla coppia protagonista, a sottolineare uno sdoppiamento tra idealità e realtà tipica del teatro settecentesco: da una parte i sentimenti alti, dall’altro la quotidianità, aspetti inscindibili di un’unica materia che è la vita, o meglio la commedia umana…concetti incompatibili con le istanze del romanticismo più spinto) . E non sapendo che fare calca la mano sul lato più caricaturale. Lo stesso fraintendimento viene riservato a Rocco: nel manicheismo della lettura ideologizzata di Fidelio, un personaggio ambiguo come Rocco che “cresce” e si trasforma nel corso del dramma, non può trovare spazio (tanto che la vecchia “scuola storica” aggirava il problema con il taglio netto dell’aria dell’oro: in modo da creare una pseudo rispettabilità al personaggio, risparmiandogli l’elogio servile allo “sterco del diavolo” e, quindi, reinserendolo nella colonnina dei buoni sulla lavagna del “politicamente corretto”). Abbado – non potendo ovviamente tagliare alcunché (non siamo più negli anni ’50) – la butta in cialtroneria e Rocco è trasformato in una specie di grottesco Osmin che, improvvisamente, viene illuminato e “convertito” da una tardiva “presa di coscienza”. Ma le conseguenze di un’impostazione “vecchio stampo” si riflettono anche – ovviamente – su Don Pizzarro (bieco e farabutto come sempre) e sulla coppia protagonista (ancora una volta assemblata in un’ottica prewagneriana piuttosto che postmozartiana). Alla fine un Fidelio ben diretto, ma sostanzialmente “inutile”, che non apre alcuna nuova prospettiva interpretativa e che riposa placidamente su vecchie certezze. Insomma, manca solo la Leonore III incastrata in modo posticcio prima del finale per la completa rievocazione di certe nostalgie! Da Abbado era lecito aspettarsi di più. Diverso il discorso in merito ai cantanti: pochi cenni per constatarne la generale insufficienza (per scelte sbagliate e soluzioni interpretative che ormai sanno di muffa). A parte l’ottimo Don Fernando di Peter Mattei (che però compare solo alla fine, in una sorta di cameo di lusso), i migliori restano il Jaquino di Christoph Strehl e la Marzelline di Rachel Harnisch (anche se quest’ultima mostra più di un problema nella tenuta dei fiati). Poco gradevole il Rocco di Christoph Fischesser, soprattutto per la costante artefazione della voce (spinta di gola per assumere connotati buffoneschi). Inaccettabile il Don Pizzarro di Falk Struckmann che fa del ruolo un parente appena più sgrezzato di Fasolt, viziato da difficoltà di ogni genere nell’emissione pasticciata e arrancante, in perenne conflitto con l’intonazione: non risparmiandoci tutta una serie di effettacci (che vanno dal parlato al bercio – l’aria del primo atto è una brutta caricatura di un monologo verista) che oltre ad offendere l’orecchio di chi ascolta recano disonore alla bacchetta che ha permesso un tale esercizio di cattivo gusto! Restano Leonore e Florestan, ossia Nina Stemme e Jonas Kaufmann. Ancora una volta la scelta non si discosta dalla solita tradizione del ricorso a voci più o meno wagneriane. E ancora una volta emergono i soliti problemi nei soliti punti: lo slancio in acuto del soprano (rivelatore dell’ascendenza mozartiana della parte) e l’aria del tenore. Poco importa se, in questo caso, invece della solita e giunonica Brunhilde, si ricorre ad una più sbiadita Elsa von Brabant: sempre una voce inchiodata e poco agile rimane. La Stemme fatica a muoversi nell’atipica tessitura di Leonore e difetta pure in corpo (nel quartetto del primo atto è costantemente coperta da Marzelline): a differenza dei soprani di tonnellaggio wagneriano che occuparono abusivamente il ruolo (dalla Flagstad alla Nilsson) e che supplivano con la potenza “della canna” ad una certa fissità e immobilità, il soprano svedese – nonostante i tentativi di gonfiare e scurire (evidentemente inseguendo modelli interpretativi paleolitici) – appare povero e svuotato. Una Leonore dimessa, parente alla lontana delle valchirie anni ‘50 e distante anni luce da una cifra interpretativa più autentica (ossia il recupero di certi modelli mozartiani, penso soprattutto a Konstanze, a Fiordiligi o a Vitellia). Più o meno lo stesso discorso vale per Kaufmann: nonostante vi sia chi vorrebbe “insegnarci” a tutti i costi che si tratta del più grande tenore del secolo, in qualsiasi ruolo egli affronti (una sorta di “tenore assoluto”), il suo è un Florestan che stilisticamente non si discosta da quello della solita tradizione (con tutti i fraintendimenti e i pasticci del caso) e che tecnicamente rivela tutti i limiti di un’impostazione vocale artefatta, ingolata e non rispettosa di alcuni principi basilari: naturalmente i nodi vengono al pettine con la temibile aria dell’atto II, soprattutto nello strazio della parte finale dove l’emissione non ortodossa rende di fatto impossibile un’esecuzione almeno accettabile della linea di canto. Ora, se è possibile “barare” in taluni repertori, dove un certo uso del declamato drammatico (e la forza dell’interpretazione) maschera abbastanza bene le difficoltà, non è possibile farlo in una parte sostanzialmente vocalista come quella di Florestan (dove è naufragata regolarmente la maggior parte degli heldentenor che si sono ostinati a cantarla: ma questa è matematica, non certo casualità). E qui si deve richiamare in causa Abbado: Fidelio non è una specie dramma musicale ante litteram, non è una sinfonia per orchestra e voci e neppure un’anticipazione della “musica dell’avvenire” wagneriana (certo, lo è diventato per colpa di un’ottica interpretativa distorta e fuorviante), piuttosto è parente stretto dello Zauberflote e di Medeé o Lodoiska. Nella musica di Beethoven riecheggia la vocalità mozartiana e la visione drammatico-sinfonica di Cherubini, non c’è spazio per suggestioni romantiche e per ipertrofie tardoromantiche. Tutto il resto discende da questa consapevolezza o dal suo fraintendimento: Abbado sceglie di non scegliere, si adagia su di una comoda tradizione (conveniente alla sua sensibilità politica e all’abitudine di certo pubblico) e sforna un prodotto innocuo, ma che nasce vecchio e superato. Altri direttori hanno esplorato vie differenti (penso soprattutto ad Harnoncourt, caso raro in una discografia abbastanza monotona), in questo caso ci si è accontentati di un prodotto da banco.
30 pensieri su “Novità discografiche: Fidelio, Beethoven e Abbado”
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Concordo perfettamente su quanto scrivi in merito all´interpretazione di Abbado. Questo è un Fidelio deludente, drammaticamente slentato e nettamente inferiore alle recite da me viste in teatro a Baden Baden in cui la lettura era molto più serrata, logica e incisiva. Colpa anche di un cast vocale modestissimo, come fai giustamente notare. Sono meno d´accordo quando fai di tutta l´erba un fascio accostando direttori tra loro diversissimi come Furtwängler, Karajan, Klemperer e Kleiber padre, secondo te rei di volere trasformare il Fidelio in una sorta di Ring ante litteram. Le radici mozartiane del Fidelio sono già presenti in letture come quella di Bruno Walter e anche, per diversi aspetti, in quella di Karajan.
Quanto ad Harnoncourt, io l´ho visto a Zurigo in quest´opera e come sempre della sua orchestra gessosa e fissa, dei suoi archi grattanti e della sua agogica bislacca ne faccio volentieri a meno.
Se devo indicare la miglior esecuzione da me ascoltata, non ho dubbi: quella di Bernstein 1978 alla Scala, coi complessi della Wiener Staatsoper. Una lettura trascinante, coinvolgente e teatralmente splendida. Era filologica? Non lo so e non mi interessa. Era, più di tutto, una lettura umana.
Saluti
Aldilà delle diverse accezioni, accomuno Furtwangler, Karajan, Klemperer, Kleiber (ma anche Solti, Haitink, Barenboim, Knappertsbusch, Fricsay, Muti etc…) non per dire che tutti fanno lo stesso Fidelio (sarebbe una pazzia), ma per dire che nessuno (neppure Walter) prende il Fidelio dal punto di vista postmozartiano. Nessuno si discosta da un'ottica romantica o tardoromantica (poi in qualcuno c'è più Weber in altri più Wagner, ma poco cambia). Basta vedere quello che combinano con Marzelline, Jaquino e Rocco: non sanno che farsene e li lasciano lì, a cantare, come ad un concerto. L'aspetto disincantato del teatro mozartiano che al centro pone l'uomo (e non l'Uomo o l'Umanità) è del tutto ignorato da questi grandi direttori. Pur nelle diverse letture (più o meno mastodontiche) l'idea di oratorio laico, di retorica libertaria, di lettura giacobina, è sempre percepibile. Come vedi non cito mai Bernstein, ma non perché portatore di un'ottica diversa (anche per lui Fidelio è il dramma della libertà), piuttosto perché nel seguire tale visione sfugge ogni retorica politica a favore di una grandissima umanità, che ne fa – anche secondo me – il più grande interprete! Pure la pacchianata dell'inserimento della Leonora III diventa un'intuizione geniale, un capolavoro musicale (laddove pure con Furtwangler era solo una zeppa di musica splendida, ma fuori luogo). Non c'entra nulla la filologia: c'entra l'infinita umanità di Lenny…
Perfettamente d´accordo. Quel Fidelio resta una delle più grandi esperienze della mia vita di ascoltatore. Ricordo ancora l´ovazione, da far tremare i muri della Scala, alla fine della Leonore III, durata quasi venti minuti, col maestro che non riusciva a ri prendere la recita!
Mah, io ho ascoltato Karajan a Salisburgo con un cast stellare, la Dernesch, Vickers, Ridderbusch, la Donath e Schreier; e posso dire che nessun altro direttore da me ascoltato, compreso Bernstein, ha saputo infondere al canto dei personaggi una simile varietà di accento, in altre parole una simile umanità, basata proprio sulla differenziazione reciproca. Questo però non bastava, come non bastava all'Abbado da me ascoltato a Modena, per dare ai singoli personaggi una consistenza teatrale di tipo mozartiano; rimanevano idealità incarnate in una voce, anche se la malinconia, la gioia, la paura, l'esaltazione proiettavano l'esecuzione in un clima molto lontano dal severo e monocromatico panorama disegnato da Furtwaengler.
Marco Ninci
Ripeto, non voglio dire che questi direttori (grandissimi) facciano tutti lo stesso Fidelio (uguale sputato), ma partono da presupposti comuni. Tu fai l'esempio di Karajan, Marco, vario, mobile, scrutatore di animi…certo, ma che sceglie un Vickers che si inchioda nell'aria, o una Dernesch che il solito prototipo di soprano wagneriano! Ecco, io aspetto una Leonore che assomigli a Konstanze o a Fiordiligi, e un Florestan che parli lo stesso linguaggio di Tamino… Di Siegfried inchiodati e di Brunhildi immobili come pezzi di marmo, credimi, non ne vorrei più sentire i Fidelio…
Caro Duprez, però Vickers in Wagner cantava Siegmund e non Siegfried; e un Siegmund pieno di straordinarie sfumature. Il suo Otello con Karajan poi lo conosciamo tutti, un dolore interiorizzato in maniera quasi incredibile, pur con gli evidenti limiti vocali. La Dernesch sappiamo quale Bruennhilde sia stata, umana, commovente, mobilissima nel fraseggio e nei colori. Si adattava molto bene a Leonore e le risonanze wagneriane in quel caso scomparivano nel nulla. Tu parli di un Florestan che parli il linguaggio di Tamino. Ma che altro facevano Roswaenge, Dermota e Patzak, tutti e tre protagonisti storici e del Flauto e del Fidelio? Mi sembra che la ruota della storia, anche della storia dell'interpretazione, giri con variazioni impercettibili e che il "dopo" non faccia che portare all'atto potenzialità infinite già contenute nel "prima". Con una conseguenza: nessuna scuola è un tutto compatto, ma ognuna, pur con una tendenza dominante, si frantuma in una miriade di deviazioni non appariscenti ma importanti.
Marco Ninci
concordo pienamente con quest'ultimo commento di Ninci, e ritengo che Beethoven non sia affatto un post-Mozart, pur prendendo molto. Basta sentire la registrazione di Kleiber, a mio avviso la migliore assieme a Berstein, per rendersi conto che sono tutti personaggi ben disegnati anche nella loro momentanea inconsistenza, perchè non di oratorio si tratta, ma di un'opera di un grandissimo compositore che però non aveva tanta dimestichezza col melodramma (prova ne sia l'aria terrificante che scrive per FLorestano, ben più complessa che la bildnis arie di Tamino). Per me un Beethoven tutto settecentesco sarebbe un tradimento tanto quanto un Beethoven wagnerizzato, ritengo che sia meglio sottolinearne le moltissime sfumature preromantiche (d'altronde le sonate, i quartetti, buona parte delle sinfonie… cosa sarebbero del tutto asciugate alla Arnoncourt? Un orrore e una sciocchezza imperdonabile).
Abbado secondo me, dopo gli anni 80/90 ha, invece, degnato una via interpretativa stimolante e nuova (in Beethoven)…le sue Sinfonie di Roma sono uno dei vertici della storia dell'interpretazione beethoveniana. Con l'opera, invece, ha avuto risultati molto deludenti…
voglio dire, solo la parte del commento di Ninci relativa a Beethoven. Sul resto ci sarebbe da discutere, a mio modo di vedere….
Concordo con Mozart2006 che la esecuzione più trascendente sia stata alla scala nel 1978 da parte di Bernstein. La successiva di Maazel è stata una presa per i fondelli, e contestata pesantemente. In parte Muti ha poi ripristinato uno stile più protoromantico. Delle edizioni storiche io salverei solo quella storica di Furtwaengler, mentre altre molto blasonate mi hanno lasciato molto incerto. Una sola parola su Abbado, che dopo l'abbandono della Scala negli anni 80-90 non m'è parso più stimolato a prove interpretative quali aveva dato impegno in Scala. In particolare la sua estrema politicizzazione a sinistra ne hanno spesso inficiato l'impegno, con risultati discontinui e spesso deludente (es. il Prasifal e le nove sinfonie a Roma)
Vickers si inchioda nell'aria di Florestan, mi sembra un fatto incontestabile (e ammesso anche dai fan del cantante), semplicemente perché non ha la voce adatta…certo Karajan lo aiuta molto, ma le sofferenze rimangono (come nel suo Otello o nel suo Sigmund). Florestan è parte esclusivamente vocalista, il declamato drammatico, il senso della parola etc…non è elemento differenziale. Noto comunque quanto sia difficile prescindere dalla vulgata che ha wagnerizzato Beethoven e il Fidelio…
Silvio, Beethoven NON è un compositore romantico…ovviamente non è neppure settecentesco, ma di certo non può essere inserito nel romanticismo musicale. Fidelio è opera che discende dal teatro mozartiano, dall'idealità illuminista, dal classicismo musicale…non è Weber e sicuramente non anticipa Wagner. Poi che tutti si siano ostinati a farcelo passare per un pre Wagner è un fatto (deplorevole). Ma esistono anche altri approcci.
Non si tratta di trasformare Beethoven in compositore settecentesco, ma di liberarlo dalle sovrastrutture romantiche, dal mare di archi che ne hanno annacquato la costruzione musicale, del vibrato bruckneriano, dei tempi slentati e dell'ipertrofia strumentale. Non è un delitto. Parlare di orrore e sciocchezza significa non aver voluto ascoltare…
Ps: ma hai mai ascoltato il Fidelio di Harnoncourt (lo chiedo anche a Mozart2006)? Credo di no…dato che non usa nessuna orchestra di strumenti barocchi (ma la modernissima Chamber Orchestra of Europe)… Ecco dove è arrivata la visione romanticocentrica di ogni genere musicale! Appena si riducono gli organici e si cerca un miglior equilibrio vi è subito l'accusa di "barocchismo"! Ma stiamo scherzando? Harnoncourt (o Zinman o l'Abbado delle sinfonie) mica usa le tiorbe e i liuti!
Duprez, solo una precisazione. Mi sembra di avere scritto chiaramente che il Fidelio di Harnoncourt io l´ho visto in teatro, a Zurigo, nell´edizione da cui è stato tratto il DVD in commercio. Per me, la sua visione di Beethoven, e parlo anche delle Sinfonie incise con la Chamber, si limita a voler fare tutto il contrario di quel che si fa normalmente. Tante idee, ma buttate lì come vien viene.
Ah rigoletto, e che c´entrano le posizioni politiche di Abbado con Beethoven? Certo, dopo che se ne è andato dalla Scala ha lavorato a Vienna e Berlino, città notoriamente facenti parte del blocco sovietico! A me di quel che pensi Abbado politicamente non importa nulla, esattamente come delle simpatie naziste di Karajan e Furtwängler. O dobbiamo parlare anche di Clemens Krauss, grandissimo beethoveniano e nazista attivo, tanto che l´assassinio del cancelliere Dollfuss da parte dei nazisti austriaci fu progettato a casa sua? Lasciate le ossessioni politiche fuori da questi discorsi, i direttori si giudicano solo in base a ragioni musicali.
E la scelta di Toscanini mettendo la Steber come Marzelline e Peerce come Florestan (ecc., ecc.) nel '44?
trovato questo…
http://youtu.be/NbWFDXaUmVM
Un amico mi ha tradotto. Non ho parole.
Mozart, io parlo del Fidelio discografico, con la Chamber Orchestra. Dici che si limita a fare il contrario di quel che fanno gli altri…e se pure fosse? Differenziarsi dalla pesante romanticizzazione credo sia cosa meritevole di attenzione e – a seconda dei gusti – graditissima.
Harnoncourt ha perlomeno cercato di aprire una via differente, riportando Beethoven in un alveo postmozartiano…certo non tutto riesce, ma l'ascolto di quel Fidelio (confrontato a questo di Abbado) è stupefacente ed estremamente stimolante.
Circa la politica: Mozart, hai ragione quando scrivi che i direttori andrebbero giudicati solo in base a ragioni musicali…però, a volte, certi aspetti politici, travalicano il normale bagaglio ideale e si trasformano in veri pregiudizi…pregiudizi di cui, purtroppo, Abbado non è certo immune: non altrimenti spiegabile, infatti, è l'assurda riproposizione di un Beethoven criptogiacobino e libertario (come in questo Fidelio, dove i dialoghi vengono riscritti e rimodellati in chiave "sessantottina"). Ecco questo è molto sgradevole…e contribuisca a gettare una patina di muffa su quest'incisione.
Toscanini? Meglio lasciarlo perdere…il suo Fidelio è ovviamente figlio dei tempi: relega una Leonore plausibile (la Steber, grande Fiordiligi, sarebbe stata una Leonore perfetta: mozartiana, sicura nelle scalate in acuto e dalla voce mobilissima) nel ruolo di Marzelline – ovviamente perché non si sa che fare di tale parte, ritenuta "leggera", rispetto alle matrone di cemento armato che occupavano la parte della protagonista – e prende l'anonima Bampton (wagneriana di seconda classe) per una Leonore che si inchioda nella tessitura. Il timbro aspro e sgraziato di Peerce, non mi ha mai entusiasmato…certo è più sostenuto rispetto a Vickers, ma non mi sembra ancora un esempio adatto. Poi c'è da fare i conti con la direzione forsennata di Toscanini: grandguignolesca e pesante…molto drammatica, certo, ma con il pedale dell'acceleratore a tavoletta e trasudante tardoromanticismo. (Ma io non stimo affatto Toscanini)
Ci sarà modo, comunque, di parlare della discografia del Fidelio e delle due versioni precedenti dell'opera (sostanzialmente diverse).
Io invece lo stimo, DUprez, ma sono d'accordo quanto a quel Fidelio: c'è davvero poco di sentibile. Quanto ad Arnoncourt, l'ho ascoltato eccome il disco, e mi sembra profondamente discutibile, discontinuo sempre, poco incisivo. Quanto alla concezione di Beethoven come compositore non romantico, continuo e continuerò a dissentire: anticipa molte cose pur non essendo nè Weber né Wagner, come giustamente si fa notare. Entrambi hanno preso molto da lui. Sarebbe il caso, per una volta, d'asciugare beethovenianamente Wagner invece di wagnerizzare Beethoven. Ma in più d'unoccasione questo è stato fatto (come in parte Boulez nel Parsifal, che trova colori davvero particolari). Ritengo davvero che FIdelio prenda le mosse da Mozart ma cerchi e ottenga cose ben diverse: basta la scrittura di Leonore, anche solo quella della sua aria, per dimostrare la sua ascendenza da Donna Anna ma anche le sue incontestabili differenze.
Ma in che senso trovi Beethoven un "romantico"? Nelle sinfonie? Mmm non credo, l'impostazione è classicissima. Nelle sonate per pianoforte (forse giusto un paio). Non certo nelle Variazioni Diabelli, nelle Bagatelle Op. 119, nelle ultime tre sonate per piano: l'insieme costituisce il vertice pianistico beethoveniano. Neppure si può dire dei quartetti d'archi (penso soprattutto agli ultimi). Manco a parlarne per quanto riguarda i concerti per piano o quello per violino. Io vedo il trionfo del classicismo (e ovviamente molto di più). Ma nulla di romantico in senso schumanniano o berlioziano. Naturalmente non ci sono compartimenti stagni, ma è l'idea che di Beethoven si sono fatti i "romantici" ad averci inculcato nella mente che Beethoven sia un "romantico". Naturalmente neppure il Fidelio è riconducibile al romanticismo (ma ne parleremo, quando verranno affrontate le tre versioni dell'opera).
L'ipotesi di asciugatura di Wagner è suggestiva, ma non molto appropriata: Wagner scrive in altra epoca…ovviamente si può rendere in senso enfatico (Solti, Klemperer, Furtwangler, oggi Thielemann), oppure con asciuttezza e trasparenza (la lettura che preferisco in assoluto), come Boulez, Kegel (il miglior Parsifal disponibile)…ma anche la liricizzazione di Karajan va tenuta in conto!
Giusto che si sappia, adoro M.o Toscanini. Le sue incisioni, sempre secondo il mio modesto parere, hanno tanto da insegnarci.
Comunque, de gustibus…
non romantico in senso schumaniano infatti. Intendo il pre-romanticismo goethiano, itnendo quel trasporto di alti sentimenti che è evidentissimo nelle sinfonie, almeno dall'eroica in poi, e in buona parte delle sonate, nonchè negli ultimi quattro quartetti che citi (come si fa a suonarli in maniera olimpica-classica e basta?). Il quarto e quinto concerto per piano, per non parlare di quello per violino, vanno vissuti con intensità, suonati con una certa dose di furore sacro (penso in special modo a Maria Yudina da un lato, dall'altro a Michelangeli, Milstein…). DObbiamo comprenderci sulla terminologia. Un Bethoven rinsecchitto, iperasciutto, fatto tutto di contrasti netti, per me non è né pensabile nè, tanto meno, godibile. Su Wagner io facevo una provocazione, infondo anche la lettura che ne dà Walter è quasi sempre molto sobria rispetto alle altre, e mi soddisfa molto.
Beh, nessuno ama o auspica un Beethoven rinsecchitto (alla Norrington per dire)…ma neppure un Mozart rinsecchito e arido: però c'è differenza tra una revisione degli equilibri orchestrali (ed una maggiore asciuttezza esecutiva), e la secchezza assoluta.
Mi piace molto il paragone con Goethe, ma ti chiedo, è romantico o preromantico Goethe? Io ho forti dubbi che il suo classicismo metafisico e il suo pessimismo razionalistico possano essere assimilati non dico al romanticismo di un Novalis o Thieck, ma neppure allo Sturm un drang di Schiller e Schlegel Del resto Goethe riteneva che l'unico musicista che potesse comprendere il suo Faust fosse proprio Mozart.
Ps: con classicismo non intendo affatto un'interpretazione olimpica, ma un approccio più intellettuale e razionale…insomma, non l'abbandono lirico e sentimentale ecco. Peraltro non vedo come si potrebbe suonare "liricamente" l'Op. 135 o l'Op. 111…per non parlare di quelle vette supreme che sono le Diabelli e l'Op. 119
Goethe aveva molto di sentimento, era tutt'altro che un razionlista sfrenato. Basti legggere il suo Divan, o anche il Faust che certo è mozartiano, ma di quel mozart capace di tutto come in Idomeneo, o di accogliere ogni esperienza umana, anche le moralmente riprovevoli, come nella trilogia dapontiana. La temperie pre-romantica di Goethe per me si comprende col contraltare di Hoelderlin, classico ma dirompente oltre ogni dire. COme si può leggerlo coi piedi ben piantati in terra, senza alcun lirismo? ALlo stesso modo, la 111 si può suonare con un lirismo contenuto e intenso, Sviatoslav Richter. Le Diabelli è altra cosa. Ma i quartetti? VOgliamo dire ora che il Quartetto Italiano li suona con olimpico classicismo trattenuto? Direi di no, e la loro incisione per me è la migliore disponibile.
Ma secondo me il classicismo non si risolve con la olimpica compostezza. E' "olimpica" e composta la Medeé di Cherubini? O l'Egmont beethoveniano? L'Op. 111 (con i suoi rimandi addirittura a Debussy, Stravinsky e pure il jazz) non è assolutamente assimilabile ad un'estetica romantica. Così pure il grandi quartetti. Ma forse bisogna intenderci con quel che si intende per romanticismo e pre romanticismo.
Quanto a Goethe il Divan è proprio l'esempio di intellettualismo classicista, il distacco malinconico, il dissidio tra ragione e sentimento (come nelle Affinità elettive)…non vi è traccia dell'ingenuità a forti tinte dell'epoca romantica. Il tuo accenno all'umanesimo goethiano è proprio tipico del classicismo illuminista…sarà il romanticismo a sostituire l'uomo (con le sue miserie e i suoi slanci) con la retorica dell'Umanità… Il Faust parla dell'uomo, della vita, di tutto ciò che è umano…il romanticismo, invece, trasformerà ogni uomo in Uomo ideale, portatore di forti principi e distaccato dalla vita vera…il romanticismo produrrà il disumanesimo hegeliano (a sua volta produttore delle più grandi tragedie che il mondo moderno ha conosciuto)
Povero Hegel! Duprez, per favore…farne addirittura il produttore delle più grandi tragedie del mondo moderno…Purtroppo ci hanno pensato altri, che hanno preso spunto da Hegel, ma lo potevano benissimo prendere da altri, a partire da Platone.
Ciao
Marco Ninci
Sarà, Marco, ma la lettura (col senno di poi) dei "Lineamenti di filosofia del diritto" o delle "Lezioni sulla filosofia della storia" è abbastanza rivelatrice del grado di disumanità che sta alla base della filosofia hegeliana…qualcosa di assolutamente nuovo nel pensiero occidentale (e che non a caso ha fornito – con vari rimaneggiamenti – la base ideologica di tutti i totalitarismi novecenteschi)…giustamente Schopenhauer lo definiva "sciupatore di carta, di tempo e di cervelli"…
Personalmente trovo molto più disumani i teorici illuministi del positivismo e dell'egualitarismo… E' da lì che nascono gli orrori della nostra modernità.