Ieri sera sul palcoscenico del Piermarini è ritornata, quale spettacolo dell’accademia scaligera, l’Italiana in Algeri di Rossini nell’allestimento, che inaugurò la stagione del 1973-74 con Teresa Berganza protagonista e la direzione di Claudio Abbado.
Spettacolo dell’accademia della Scala. Ho riflettuto sul fatto che, un tempo, diciamo nella Parigi di Rossini le Accademie erano le serate cui partecipavano i maggior musicisti, strumentisti e cantanti in casa di nobile esibendosi in uno o due brani sicchè poteva capitare di sentire la Grisi, che intonava bel raggio lusinghier accompagnata dall’autore o da Chopin. Adesso accademia dovrebbe significare, invece, il luogo dove si impara o meglio si perfeziona l’arte vuoi del canto solistico di quello coreutico o di uno strumento per poi affrontare la relativa carriera. Allora –concludo- dovrebbe essere una serata come quelle degli anni cinquanta in cui i cadetti della Scala a nome Ilva Ligabue, Luigi Alva, Paolo Montarsolo, Fiorenza Cossotto cantavamo “l’osteria di Marechiaro” o “la dama spagnola”.
Poi, letta la locandina e mi sono ricordato dei tempi dei verbi della lingua italiana. Solo che non ho pensato , come avrei dovuto per la sede in cui proposta questa Italiana, non al futuro, ma al passato vuoi remoto vuoi prossimo al presente ed infine, controvoglia e per caso al futuro. Il che significa che dell’accademia in senso moderno c’era nulla o poco. Tanto meno di quella in senso antico.
Passato remoto : l’allestimento di Jean Pierre Ponnelle, varato, appunto, nel 1973 ripetuto più volte in Scala ed in altri teatri di fama mondiale con protagoniste di notorietà planetaria e di rossinianità indiscussa ed indiscutibile. A distanza di anni questa Algeri, che richiama Granada, due o tre gag misurate e sopportabili dal testo (rammentiamo in quali anni nacque l’allestimento), la scelta bellissima dell’arrembaggio in scala ridotta, le prorompenti epe di plastica degli eunuchi sono ancora oggi inarrivabili. Insegnano come l’allestimento dell’opera debba essere, prima di tutto, misura e strumentale a sottolineare il testo musicale e magari anche quello poetico, essenziale nelle opere comiche di Rossini (soprattutto Pietra, Italiana e Turco). Nessuna volgarità in scena sempre e solo l’allusione, che è la realizzazione dell’allusione contenuta nel testo. Basta nel raffronto con l’Italiana pesarese a cura di Dario Fo e la differente realizzazione della metafora del palo.
Passato prossimo: Michele Pertusi da Parma, di anni 45, in carriera da 25 e con il pregio, per questa militanza di avere sentito e collaborato con parti della storia dell’interpretazione belcantistica e di avere studiato con chi ancora capace di trasmettere saldi fondamenti del mestiere. Difetto o meglio rovescio della medaglia l’evidente usura vocale di una voce mai ricca di armonici e che di vero basso non è mai stata e che oggi stenta negli acuti estremi vedi il fa di “pappataci Mustafa” al celebre terzetto o che non è più fluida nella sezione conclusiva dell’aria di Mustafà dove la manovra del fiato ed il legato denunciano anni e carriera. Poi siccome la voce il più delle volte sta al posto giusto Pertusi che non è – ripeto un superdotato- suona sempre avanti, proiettata e sonora. Questa che oggi è rarità è stata addirittura unicità nella compagnia assemblata dal teatro milanese.
Presente : Lawrence Brownlee, Antonello Allemandi ed Anita Rachvelishvili
Il primo è entrato in scena nella sortita con voce sonora ed ampia per essere un tenorino. La scrittura di Lindoro è acutissima (piaceva molto al Rubini prima maniera) ed all’orecchio allenato appare subito evidente che al nostro tenore manca la corretta salita agli acuti facili in apparenza, ma spinti al tempo stesso. Un tempo per esemplificare la salita corretta agli acuti i maestri di canto utilizzavano il termine “cupola” , “fai la cupola” metafora azzeccata anche per esemplificare che Brownlee non segue l’immagine della monta della cupola nel salire, ma una immagine di fissa verticalità. Ciò non di meno applausi dopo la sortita. Immediata la conseguenza dei limiti nel canto in quanto già al seguente duetto con Mustafà alla frase “ah mi perdo” dove la voce del tenore fraseggia sul fa3 sol3, il cantante è privo di smalto ed emette suoni difficoltosi perché mal proiettati. Non solo il volume via via nella serata si riduce, lo sforzo aumenta ed alla fine dell’aria del secondo atto puntuale ed inesorata arriva la stecca sull’acuto conclusivo un si nat. Puntuale, insipiente firma di un pubblico ignorante arriva il grido “bravo”.
Antonello Allemandi ha una sola attenuante ovvero quella di aver diretto una compagine di studenti o poco più. Nessun colore, nessuno slancio, nessuna sottigliezza o finezza, nessuna capacità di sottilineatura con fiati e legni, che sono un po’ la sigla dell’ironia del Rossini comico, un pesante finale primo (anche piuttosto lento) un “ognuno per conto suo” , “quasi tutti stonati” al quintetto “sento un fremito” dove il direttore si limitava a battere il tempo all’orchestra, dimentico del palcoscenico.
Anita Rachvelishvili è il dubbioso presente. Fisico, colore della voce evocano quelli che un tempo erano i soprani di forza ovvero quelle voci che affrontavano il tardo Verdi (dal Ballo in poi) Gioconda, Tosca, talvolta Fanciulla e Wally, Andrea Chenier. Solo che per affrontare quel repertorio occorre un sostegno della voce, che consenta di reggere le tessiture, definite da Lauri Volpi, gagliarde. In difetto si ripiega su una corda estranea per limiti tecnici. Basta sentire l’attacco di “cruda sorte” piuttosto che l’andante “per lui che adoro” (passato sotto silenzio) per rendersi conto che siamo dinnanzi ad una voce, che non sfrutta la risonanza della cosiddetta maschera e suona opaca, comune, priva di quella stilizzazione e aurea aulica, che sono la sigla del canto professionale e rossiniano in primo luogo. Al “per lui che adoro” per sola qualità tecnica voci in natura di soprano, pure modeste per volume e colore, come Teresa Berganza, Marylin Horne e Martyne Dupuy scrivevano pagine esaltanti ed irripetibili. Che, poi, in zona medio alta ovvero sul fa4 la signora emetta suoni di un certo volume ed ampiezza è solo per dote naturale come per dote naturale, aiutandosi con alleggerimenti di suono, semplificazioni dell’ornamentazione supera le agilità del rondò. Sotto il profilo dell’agilità le cose vanno peggio nell’ingresso di Isabella alla corte di Mustafà perché le agilità martellate richiedono un controllo del suono, ignoto alla principiante, seppure dotata. Il disagio vocale, poi, porta ad una linea interpretativa sciatta ed approsimativa. Dalla bocca di questa Isabella, che della proterva e sensuale eroina rossiniana avrebbe anche il fisico , non esce una frase che sia centrata sotto il profilo dell’accento. Invito l’ascoltatore, che non voglia fermarsi al solito e facilone “ a quelli della Grisi non va mai bene niente” a sentire il “dite che è quella femmina” della Horne piuttosto che il “mia signora favorite” o “in gabbia è già il merlotto” di Teresa Berganza o le “vicende della volubil sorte” di Martine Dupuy.
Ci sono con questi presupposti che la cantante georgiana passi presto dal tempo presente a quello passato sia pur prossimo di carriera.
Futuro: dovrebbero essere coloro che sono gli unici effettivi allievi dell’accademia della Scala, che non produce molto, tanto che si appoggia a veterani o cantanti in carriera o per lo spettacolo di fine anno. Talvolta ricorre a giovani non d’accademia come accade con Vincenzo Taormina, dimagrito rispetto alla mamma Agata, che propone zia Taddea, anziana parente di Isabella in odore di mezzana, tanto è sgraziato, sopra le righe ed incapace dell’autentico virtuosismo che è richiesto al buffo ossia il canto sillabato. Per anni abbiamo sentito la censura e la reprimenda del gusto dei Corena e dei buffi precedenti, per ritornare poi al punto di partenza! Ed è per questo che ho deciso di offrire ai nostri ascoltatori un’esecuzione d’epoca, datata e censurabile per il gusto, purtroppo attuale.
Ancor più futuro ed unica solista proveniente dall’accademia, Pretty Yende, che dopo il title role dell’Occasione fa il ladro, canta la parte breve, ma disagevole per un paio di do acuto nel concertato di Elvira, l’infelice moglie di Mustafà, due soli termini per la prestazione: vocia al centro e sbraita gli acuti !
Spettacolo dell’accademia della Scala. Ho riflettuto sul fatto che, un tempo, diciamo nella Parigi di Rossini le Accademie erano le serate cui partecipavano i maggior musicisti, strumentisti e cantanti in casa di nobile esibendosi in uno o due brani sicchè poteva capitare di sentire la Grisi, che intonava bel raggio lusinghier accompagnata dall’autore o da Chopin. Adesso accademia dovrebbe significare, invece, il luogo dove si impara o meglio si perfeziona l’arte vuoi del canto solistico di quello coreutico o di uno strumento per poi affrontare la relativa carriera. Allora –concludo- dovrebbe essere una serata come quelle degli anni cinquanta in cui i cadetti della Scala a nome Ilva Ligabue, Luigi Alva, Paolo Montarsolo, Fiorenza Cossotto cantavamo “l’osteria di Marechiaro” o “la dama spagnola”.
Poi, letta la locandina e mi sono ricordato dei tempi dei verbi della lingua italiana. Solo che non ho pensato , come avrei dovuto per la sede in cui proposta questa Italiana, non al futuro, ma al passato vuoi remoto vuoi prossimo al presente ed infine, controvoglia e per caso al futuro. Il che significa che dell’accademia in senso moderno c’era nulla o poco. Tanto meno di quella in senso antico.
Passato remoto : l’allestimento di Jean Pierre Ponnelle, varato, appunto, nel 1973 ripetuto più volte in Scala ed in altri teatri di fama mondiale con protagoniste di notorietà planetaria e di rossinianità indiscussa ed indiscutibile. A distanza di anni questa Algeri, che richiama Granada, due o tre gag misurate e sopportabili dal testo (rammentiamo in quali anni nacque l’allestimento), la scelta bellissima dell’arrembaggio in scala ridotta, le prorompenti epe di plastica degli eunuchi sono ancora oggi inarrivabili. Insegnano come l’allestimento dell’opera debba essere, prima di tutto, misura e strumentale a sottolineare il testo musicale e magari anche quello poetico, essenziale nelle opere comiche di Rossini (soprattutto Pietra, Italiana e Turco). Nessuna volgarità in scena sempre e solo l’allusione, che è la realizzazione dell’allusione contenuta nel testo. Basta nel raffronto con l’Italiana pesarese a cura di Dario Fo e la differente realizzazione della metafora del palo.
Passato prossimo: Michele Pertusi da Parma, di anni 45, in carriera da 25 e con il pregio, per questa militanza di avere sentito e collaborato con parti della storia dell’interpretazione belcantistica e di avere studiato con chi ancora capace di trasmettere saldi fondamenti del mestiere. Difetto o meglio rovescio della medaglia l’evidente usura vocale di una voce mai ricca di armonici e che di vero basso non è mai stata e che oggi stenta negli acuti estremi vedi il fa di “pappataci Mustafa” al celebre terzetto o che non è più fluida nella sezione conclusiva dell’aria di Mustafà dove la manovra del fiato ed il legato denunciano anni e carriera. Poi siccome la voce il più delle volte sta al posto giusto Pertusi che non è – ripeto un superdotato- suona sempre avanti, proiettata e sonora. Questa che oggi è rarità è stata addirittura unicità nella compagnia assemblata dal teatro milanese.
Presente : Lawrence Brownlee, Antonello Allemandi ed Anita Rachvelishvili
Il primo è entrato in scena nella sortita con voce sonora ed ampia per essere un tenorino. La scrittura di Lindoro è acutissima (piaceva molto al Rubini prima maniera) ed all’orecchio allenato appare subito evidente che al nostro tenore manca la corretta salita agli acuti facili in apparenza, ma spinti al tempo stesso. Un tempo per esemplificare la salita corretta agli acuti i maestri di canto utilizzavano il termine “cupola” , “fai la cupola” metafora azzeccata anche per esemplificare che Brownlee non segue l’immagine della monta della cupola nel salire, ma una immagine di fissa verticalità. Ciò non di meno applausi dopo la sortita. Immediata la conseguenza dei limiti nel canto in quanto già al seguente duetto con Mustafà alla frase “ah mi perdo” dove la voce del tenore fraseggia sul fa3 sol3, il cantante è privo di smalto ed emette suoni difficoltosi perché mal proiettati. Non solo il volume via via nella serata si riduce, lo sforzo aumenta ed alla fine dell’aria del secondo atto puntuale ed inesorata arriva la stecca sull’acuto conclusivo un si nat. Puntuale, insipiente firma di un pubblico ignorante arriva il grido “bravo”.
Antonello Allemandi ha una sola attenuante ovvero quella di aver diretto una compagine di studenti o poco più. Nessun colore, nessuno slancio, nessuna sottigliezza o finezza, nessuna capacità di sottilineatura con fiati e legni, che sono un po’ la sigla dell’ironia del Rossini comico, un pesante finale primo (anche piuttosto lento) un “ognuno per conto suo” , “quasi tutti stonati” al quintetto “sento un fremito” dove il direttore si limitava a battere il tempo all’orchestra, dimentico del palcoscenico.
Anita Rachvelishvili è il dubbioso presente. Fisico, colore della voce evocano quelli che un tempo erano i soprani di forza ovvero quelle voci che affrontavano il tardo Verdi (dal Ballo in poi) Gioconda, Tosca, talvolta Fanciulla e Wally, Andrea Chenier. Solo che per affrontare quel repertorio occorre un sostegno della voce, che consenta di reggere le tessiture, definite da Lauri Volpi, gagliarde. In difetto si ripiega su una corda estranea per limiti tecnici. Basta sentire l’attacco di “cruda sorte” piuttosto che l’andante “per lui che adoro” (passato sotto silenzio) per rendersi conto che siamo dinnanzi ad una voce, che non sfrutta la risonanza della cosiddetta maschera e suona opaca, comune, priva di quella stilizzazione e aurea aulica, che sono la sigla del canto professionale e rossiniano in primo luogo. Al “per lui che adoro” per sola qualità tecnica voci in natura di soprano, pure modeste per volume e colore, come Teresa Berganza, Marylin Horne e Martyne Dupuy scrivevano pagine esaltanti ed irripetibili. Che, poi, in zona medio alta ovvero sul fa4 la signora emetta suoni di un certo volume ed ampiezza è solo per dote naturale come per dote naturale, aiutandosi con alleggerimenti di suono, semplificazioni dell’ornamentazione supera le agilità del rondò. Sotto il profilo dell’agilità le cose vanno peggio nell’ingresso di Isabella alla corte di Mustafà perché le agilità martellate richiedono un controllo del suono, ignoto alla principiante, seppure dotata. Il disagio vocale, poi, porta ad una linea interpretativa sciatta ed approsimativa. Dalla bocca di questa Isabella, che della proterva e sensuale eroina rossiniana avrebbe anche il fisico , non esce una frase che sia centrata sotto il profilo dell’accento. Invito l’ascoltatore, che non voglia fermarsi al solito e facilone “ a quelli della Grisi non va mai bene niente” a sentire il “dite che è quella femmina” della Horne piuttosto che il “mia signora favorite” o “in gabbia è già il merlotto” di Teresa Berganza o le “vicende della volubil sorte” di Martine Dupuy.
Ci sono con questi presupposti che la cantante georgiana passi presto dal tempo presente a quello passato sia pur prossimo di carriera.
Futuro: dovrebbero essere coloro che sono gli unici effettivi allievi dell’accademia della Scala, che non produce molto, tanto che si appoggia a veterani o cantanti in carriera o per lo spettacolo di fine anno. Talvolta ricorre a giovani non d’accademia come accade con Vincenzo Taormina, dimagrito rispetto alla mamma Agata, che propone zia Taddea, anziana parente di Isabella in odore di mezzana, tanto è sgraziato, sopra le righe ed incapace dell’autentico virtuosismo che è richiesto al buffo ossia il canto sillabato. Per anni abbiamo sentito la censura e la reprimenda del gusto dei Corena e dei buffi precedenti, per ritornare poi al punto di partenza! Ed è per questo che ho deciso di offrire ai nostri ascoltatori un’esecuzione d’epoca, datata e censurabile per il gusto, purtroppo attuale.
Ancor più futuro ed unica solista proveniente dall’accademia, Pretty Yende, che dopo il title role dell’Occasione fa il ladro, canta la parte breve, ma disagevole per un paio di do acuto nel concertato di Elvira, l’infelice moglie di Mustafà, due soli termini per la prestazione: vocia al centro e sbraita gli acuti !
Gli ascolti
Rossini – L’Italiana in Algeri
Atto I
Cruda sorte – Teresa Berganza (1973)
Oh che muso, che figura! – Teresa Berganza & Paolo Montarsolo (1973)
Atto II
Per lui che adoro – Zara Dolukhanova (1951)
Ebbene sì, un'altro spettacolo dei "giovani". Non ho parole.
Per quanto riguarda Pretty Yende, la super appoggiata punto di diamante dell'accademia 2011, sono completamente d'accordo con le parole spese da Donzelli.
Quando le dico io queste cose, la gente mi guarda come se per dire che non apprezzo "l'arte del bel canto".
Ma l'avete sentita al concerto finale dell'Accademia? Mah… DAI!!!
(Stendiamo un velo pietoso su Bruson…)
Contenti loro. Non contento io!
qualcuno di voi ha assistito a una recita del secondo cast?
mi farebbe piacere sapere com'era..
Ciao Macbeth79. Con ogni probabilità andrò io stessa a una delle repliche e rendiconterò prossimamente con una recensione.
A presto.
Carlotta M.
Grazie mille carissima!
Saluti