Il romanticismo tedesco, invece, si rivolge agli albori della propria storia, a sondare le sue origini “barbare “ sopra le macerie del mondo romano. Il Verdi degli anni ’40 è nel pieno della ricerca del superamento della tradizione passata a favore di un nuovo che ancora è ben lungi dall’essergli chiaro e definito nella mente: cerca ispirazione nei testi da cui trarre i libretti, drammi che incarnino un modo moderno, più attuale, di rappresentare sentimenti, azioni, atmosfere. Nello sforzo di abbandonare l’espressività tutta metaforica della tradizione belcantista italiana, si rivolge a soggetti, come quello dell’”Attila. Koenig der Hunnen” (1808) di Werner, dalle tinte forti, personaggi molto marcati, dalla psicologia squadrata, di grande potenza tragica. Lo sfondo è quello selvaggio e violento della metà del V secolo, così come la storiografia romantica tedesca tratteggia per tutto il XIX secolo l’età barbarica, il clima è fosco, oscuro e minaccioso. Apparentemente Verdi subisce il fascino del romanticismo tedesco, e non è un caso che l’incontro con Werner avvenga dalle pagine del “De Allemagne” della De Stael, il primo vero manifesto dell’arte romantica ottocentesca d’Oltralpe. Un testo affatto nuovo, di una trentina d’anni prima, già ampiamente discusso e dibattuto in Italia, illuminante per capire i modi, piuttosto tardivi e forse anche occasionali, dell’incontro di Verdi con le poetiche d’avanguardia straniere. Budden ci dice che il Solera, librettista prescelto per la riduzione dell’opera, si sia più interessato agli aspetti patriottici del testo, ossia alla resistenza degli Italici agli Unni, che non alla poetiche romantiche dispiegate nel testo della Stael, cui Verdi lo pregò apertamente di interessarsi. Poetica che individuava nel lato spirituale ed intuitivo l’altra componente umana opposta al lato corporeo e materiale, e che l’artista poteva cogliere e rappresentare solo per il tramite dell’elemento fantastico. Notoriamente non c’è mai nel romanticismo italiano, men che meno nel pragmatico Verdi, tanta forza speculatrice e tanta coerenza quanta se ne riscontra in quello tedesco o francese. Il musicista, e come lui numerosi artisti del suo tempo, continua ad oscillare tra il passato ed il presente, tra l’ingombro dato dai retaggi consolidati, in questo caso prototipi vocali o drammaturgici etc, ed una modernità, in sintonia con i tempi correnti, ancora tutta da definire.
Verdi, si è detto, è per natura, ma anche per forza di avvenimenti, un pragmatico: supera con grande facilità le incongruenze che si originano nella riduzione librettistica del dramma teatrale, anzi, dà loro rilevanza nulla. Ricerca situazioni drammaturgiche valide, congeniali al proprio linguaggio musicale, mirato alla sua sintetica ed efficace introspezione psicologica dei personaggi. Ragione che porta allo scontro con Solera per l’ultimo atto dell’opera, che Verdi voleva assolutamente incentrato sui protagonisti e non su una scena corale, secondo clichè consolidati.
Quale esatto significato corrisponda poi alle parole ed alle enunciazioni di intenti dell’autore, è l’opera stessa a spiegarcelo. Odabella, virago guerriera, amante e figlia, donna leale e ferma nei suoi propositi di vendetta, è forse il personaggio più sviluppato sotto questo profilo. Si presenta in scena in modo nobile e combattivo, apertamente aggressivo verso l’antagonista. Il personaggio trova poi momenti di vero lirismo nella meditazione un po’ trasognata di “Oh del fuggente nuvolo”, ove il ricordo del padre si fonde con quello dell’amato Foresto; lo slancio la caratterizza, come tutte le prime donne verdiane, anche nel duetto con Foresto, quindi ancora nel concertato, prima di tornare al lirismo del terzetto finale ed al quartetto conclusivo. Odabella è trasformata rispetto alla tragedia di Werner, di barbaro ha assai poco, perché canta con lo stesso aplomb aristocratico della Contarini o di Elvira, anche quando il personaggio raggiunge il suo acme drammatico. La vocalità è variegata, come sempre nel primo Verdi, non definibile in modo unitario. L’estensione è superiore alle due ottave, dal do5 a scendere sotto il rigo, come nella sortita; la scrittura fiorita in modo talora anche ostico con fioriture, quartine, trilli etc da eseguire in punta di forchetta, altre volte aerea, abbastanza acuta, da eseguire in “dolcissimo”, come all’aria del primo atto. I riferimenti psicologici e vocali di Odabella sono interni alla produzione verdiana precedente, che da Abigaille in poi consolida e definisce i tratti della protagonista femminile.
Più univoco e meno sfaccettato il personaggio di Attila. Verdi non avrà più un protagonista maschile tanto rilevante, in chiave di basso, sino al Filippo II di Don Carlos. Attila è monumentale, a tratti magniloquente, come il Maometto II o l’Assur di Rossini, e non a caso il suo primo interprete era un esperto di quei ruoli. A loro si riconduce il tratto del basso nemico e amoroso (Maometto), ma anche quello dell’uomo negativo in preda a tormentati presagi (Assur), che troveranno prestissimo una ben maggiore e più sviluppata restituzione in Macbeth. Insomma, a perfetta mezza strada fra Rossini e il Verdi successivo, la psicologia di Attila è semplice, meno raffinata e classica dei modelli dell’età della Restaurazione, ma efficace. La sua natura barbara, l’Attila della storia, è quella del canto di forza, svettante e baldanzoso, mentre il lato teatrale, quello “nuovo”, anche se solo in parte, è quello del sogno premonitore che spaventa il personaggio per un attimo, ma da cui subito si affranca. La paura e lo sgomento, assieme al poco sviluppato innamoramento per Odabella, sono i suoi lati umani e, dunque, teatrali. Dal misticismo sacerdotale di Zaccaria, parecchio astratto a ben pensare, Verdi passa ad un personaggio più reale, efficace perché aderente alla psicologia semplice e rozza di un re barbaro ancora oleograficamente inteso. Il primo interprete, Ignazio Marini, per cui Verdi aveva composto la cabaletta postuma di Silva, univa alle prerogative tipiche dei bassi cantabili di Rossini anche una sensibile estensione nel registro grave, di puro basso: il suo repertorio, infatti, includeva anche Mosè, Marcello degli Ugonotti, Oroveso e Mustafà, Caspar del Freischutz.
Meno sviluppati gli altri due personaggi maschili.
Ezio è una figura apparentemente contraddittoria, dato che si presenta in scena proponendo un accordo ad Attila per spartire l’impero. Proposta con cui Ezio tenta pragmaticamente di salvare almeno Roma, ma che appare, nell’ottica romantica, una viltà. Il personaggio diventa poi il leader della vendetta assieme a Foresto. Vocalmente, al di là della qualità maggiore o minore dell’invenzione musicale, il personaggio ha già moltissimo del prototipo baritonale verdiano, in continuità con quello di Verdi. Il personaggio è politico, e quello tra lui ed Attila è, di fatto, il primo duetto politico della produzione verdiana. Il canto ha i caratteri dell’aristocrazia e della nobiltà, sempre composto, tratti tipici del baritono verdiano. La scrittura, come nella maggior parte dei casi, acuta, talora anche acutissima, annovera ampi cantabili che ascendono a tessiture alte lentamente e con ampiezza, da Don Carlo al futuro Conte di Luna etc. “Dagli immortali vertici “ è un archetipo del canto baritonale verdiano. E’ ancora il lato introspettivo ad essere carente ed acerbo, e basta il confronto con la straordinaria figura del futuro Posa a darci la misura del gap che intercorre tra il significato nostro, attuale, delle parole usate da Verdi e la corrispondente realizzazione che ne diede.
Anche per l’amoroso Foresto vale la stessa chiave di lettura, ossia di relativizzazione dei significati. La sua psicologia è semplice, quella dell’innamorato e del patriota. A lui i connotati tipici del tenore verdiano, il canto nobile frequentemente battente sul passaggio di registro superiore, tipico esempio la scrittura ascendente di ”Si quel io son ravvisami” con Odabella, oppure la poderosa ampiezza della linea di canto della scena che apre il terzo atto, l’andantino “Che non avrebbe il misero..” con frasi che dalla zona centro grave salgono sino al la acuto con messe di voce scritte, e successive discese da eseguire smorzate verso il centro . Anche Foresto non può esimersi, come Ezio, dal canto a cabaletta sia in chiusa alla prima aria che nella stretta all’unisono del duetto con Odabella. Il primo interprete, Carlo Guasco, fu uno dei tenori che di fatto amministrò il passaggio dal tenore donizettiano a quello verdiano, creando vari ruoli tra cui il Riccardo di Chalais di Maria di Rohan e l’Oronte dei Lombardi, tenori capaci di gestire il canto elegante a fior di labbro e l’accento nobilmente aulico e nobile. Per Foresto, tra l’altro, Verdi approntò in seconda e terza battuta ben due arie alternative, la prima per Ivanoff, perduta, in occasione delle rappresentazioni triestine dell’Attila nel 1846, da collocare al posto di quella dell’atto III; la seconda per Napoleone Moriani alla Scala di Milano, qualche mese dopo, “ O dolore! Ed io vivea…”, modernamente eseguita da Luciano Pavarotti in disco.
Due scelte che collocano Foresto nella schiera degli amorosi di sapore donizettiano, o meglio, che indicano l’evoluzione del tenore donizettiano in Verdi.
L’opera sopravvisse nei cartelloni sino alla seconda metà del XIX secolo, condannata all’oblio per il superamento del sapore prettamente risorgimentale che la connota. La stringatezza con cui l’azione si svolge, il clima, la psicologia dei personaggi ne fecero un opera obsoleta e fuori moda nell’ambito della produzione melodrammatica di fine Ottocento. Le riprese moderne, ispirate dagli studi verdiani del dopoguerra, anni ’60 in particolare, si ricollegano a nomi di bassi celeberrimi da Boris Christoff in poi, passando per Nicolai Ghiaurov sino al più recente Samuel Ramey, che ha praticato il ruolo leggendolo dalla prospettiva di un belcantista e non di un cantante da tardo Ottocento. Con Ramey la parte, a valle della belcanto renaissance, ha trovato la giusta collocazione storica, ove le reminiscenze belcantiste si uniscono a nuovi accenti e stilemi espressivi che fanno presagire il poi.
A fianco di cotanti bassi, protagoniste di grande blasone del Verdi di mezzo, una non più giovane Leyla Gencer in primis, sino a Maria Chiara, senza dimenticare voci più spinte come l’Orlandi Malaspina o Ghena Dimitrova. Non stupisce certamente il riascolto della Gencer, ne illustrammo le ragioni nella puntata dedicata al cantare Verdi senza voce verdiana: il canto rifinitissimo, struggente e di slancio è la cifra stilistica più pura della cantante turca anche in una fase avanzata della carriera. Stupisce, invece, Ghena Dimitrova ingiustamente bollata dai più come “urlatrice”. Non è la cavatina della virago Odabella ad impressionare, ma l’esecuzione rifinita del “Fuggente nuvolo”, dove la cantante bulgara, nel 1984, ossia in anni di monopolio del repertorio pesantissimo, dà prova di sapienza tecnica nel gestire il canto in pianissimo ad alta quota.
Una nota particolare per il ruolo di Foresto, che ha trovato nella voce di Carlo Bergonzi la migliore restituzione in età moderna, nonostante le pochissime recite dal vivo. La capacità di dispiegare un canto ampio e nobile nel fraseggio, rispettoso dei segni di espressione, solidissimo sul passaggio superiore, è prerogativa unica del tenore parmigiano nell’antologia di esecuzioni a noi pervenute. La difficile aria del II atto è un monumento di canto tenorile sul passaggio che al giorno d’oggi non ha riscontro in alcun cantante in attività, compresi quelli che, incapaci dell’ABC del canto, si abbandonano a ridicole censure circa la “non verdianità” di Bergonzi: silenzio e tutti a scuola ad imparare !
Gli ascolti
Verdi – Attila
Preludio – Riccardo Muti (1972)
Prologo
Allor che i forti corrono…Da te questo or m’è concesso – Cristina Deutekom (1978), Maria Chiara (1983)
Tardo per gli anni e tremulo – Renato Bruson & Ruggero Raimondi (1972), Piero Cappuccilli & Nicolai Ghiaurov (1975)
Qual notte! – Riccardo Muti (1972)
Ella in poter del barbaro – Carlo Bergonzi (1973), Veriano Luchetti (1972)
Atto I
Liberamente or piangi…Oh nel fuggente nuvolo – Leyla Gencer (1972), Ghena Dimitrova (1984)
Qual suon di passi! – Maria Chiara & Veriano Luchetti (1983), Ghena Dimitrova & Nunzio Todisco (1984)
Mentre gonfiarsi l’anima…Oltre quel limite – Samuel Ramey (1986)
Parla, imponi! – Nicolai Ghiaurov, Rita Orlandi Malaspina, Veriano Luchetti, Piero De Palma & Luigi Roni (1975)
Atto II
Dagli immortali vertici…E’ gettata la mia sorte – Giangiacomo Guelfi (1970), Piero Cappuccilli (1975)
Del ciel l’immensa volta – Ruggero Raimondi, Giangiacomo Guelfi, Antonietta Stella, Gianfranco Cecchele & Fernando Ferrari (1970)
Atto III
Che non avrebbe il misero – Carlo Bergonzi (1982)
Che più s’indugia? – Giangiacomo Guelfi & Gino Penno (1951)
Te sol, te sol quest’anima – Luisa Maragliano, Bruno Prevedi & Renato Bruson (1972)
Non involarti, seguimi – Nicolai Ghiaurov, Rita Orlandi Malaspina, Piero Cappuccilli & Veriano Luchetti (1975)
Un commento brevissimo. Chi si permette di affermare la "non verdianità" di Bergonzi è solo da mandare a lavorare in miniera!
Saluti
bel post e belli ascolti