Verdi è infatti uno dei pilastri dei cartelloni dei teatri en plein air, così come Wagner costituisce il solo autore rappresentabile nel festival estivo più austero e mitico dell’Europa continentale. Ebbene, proprio in questi 78 giri di Aida i due compositori si danno idealmente la mano, atteso che gli interpreti coinvolti furono tutti, per ragioni di carriera e repertorio, egualmente impegnati nel repertorio italiano e in quello tedesco.
L’ascolto di questi lacerti, a volte fortunosi (penso al live viennese di Maria Nemeth, purtroppo mutilo della parte conclusiva della romanza, ma che restituisce bene l’ampiezza e la cavata della voce della signora), altre volte di suono vivido e chiaro malgrado le arcaiche tecniche di registrazione, attesta oltre ogni ragionevole dubbio un generale livello esecutivo e interpretativo, che si oppone decisamente alla vulgata, ormai paleolitica, benché ancora diffusa in certi foyer virtuali e non, vulgata che associa ai dischi antichi la nomea di cimeli inservibili e inascoltabili, non solo, ma testimonianza di scarsa pratica con le regole del buon canto, di effetti facili ed esteriori, di scarsa o inesistente attenzione al testo, poetico o musicale che sia. Mai come in questi frammenti di Aida ascoltiamo infatti, oltre che ottimi esecutori, veri interpreti, musicisti completi e rifinitissimi. E non potrebbe essere altrimenti, atteso che una corretta esecuzione rimane il presupposto e la precondizione di una grande interpretazione, a qualunque latitudine, in qualsiasi repertorio e indipendentemente dalla lingua in cui il medesimo viene affrontato.
Si ascoltino ad esempio Jacques Urlus e Julius Patzak nella romanza che apre di fatto l’opera. Le voci non potrebbero essere più diverse, da tenore drammatico la prima, essenzialmente lirica, benché talvolta applicata ad un repertorio più oneroso, la seconda. Eppure la saldezza tecnica consente ad entrambi una realizzazione del personaggio, consona alle rispettive caratteristiche vocali (col che fra l’altro rammentiamo in primo luogo a noi stessi che il Radames giovanile e amoroso non è nato con Carlo Bergonzi, bensì molto prima), rispettosa del personaggio e del dettato dell’autore, anche per quanto attiene il tremendo (soprattutto per molti cantanti a noi più vicini nel tempo) si bemolle conclusivo.
Attenzione al testo, martellante scansione delle frasi, insomma quella che Verdi chiamava la parola scenica, tutto questo si trova in particolare nelle proposte raffigurazioni della principessa egizia. Non sarà forse inutile sottolineare come la lunga consuetudine con ruoli quali Ortrud, Fricka e Venere permetta a queste grandissime cantanti di variare opportunamente i colori e le inflessioni vocali, tanto nel duetto con la protagonista, in cui Amneris passa nel giro di poche battute dall’estasi sentimentale all’angoscia, alla cerimoniosa dissimulazione, fino all’esplosione dell’ira più autentica (esemplare, in questa climax, Margarete Klose), quanto nella scena con Radames, in cui, come scriveva Verdi a Ghislanzoni, la figlia del Re esordisce con una frase che potrebbe sembrare la comunicazione di un avvocato, ma che deve già suggerire, sottotraccia, la disperazione della donna, sentimento che esplode nel successivo “Morire? Ah, tu dei vivere”. Per certo l’ira e la disperazione non devono mutare il canto in qualcosa d’altro, perché anche nel massimo della concitazione la principessa rimane altera ed elegante. Si ascolti, tanto per non fare nomi, la solita Sigrid Onégin, alla quale si perdonano volentieri i suoni fissi a partire dal sol bemolle acuto (“e nunzia di perdono” e più ancora il successivo “tutto darei per te” con salita al la bemolle). Esemplare è anche Margarete Arndt-Ober, della quale proponiamo due incisioni realizzate a undici anni di distanza, al fianco di tenori anch’essi formidabili per saldezza e sobrietà espressiva. Ebbene, nella più tarda delle due esecuzioni la cantante è salda e autorevole quanto nella prima, emettendo suoni un poco ovattati solo nell’attacco della cabaletta, di scrittura piuttosto grave.
Addirittura rivoluzionario appare poi sentire interpreti di Amonasro, che non solo non sbraitano con la bava alla bocca, ma si concedono il lusso di cantare piano, smorzando i suoni e differenziando nel fraseggio le fasi del confronto con la figlia, suonando sempre determinati ma di volta in volta anche teneri, insinuanti, sdegnati e infine ipocritamente consolatori, come nel successivo incontro con il mancato genero.
Quanto poi alle Aide, siamo di fronte a un panorama quasi imbarazzante per quantità e varietà delle proposte, accomunate da una caratteristica di fondo che scarseggia nelle esecutrici a partire dagli anni Settanta del secolo scorso. Abbiamo infatti cantanti che sono nella meno felice delle ipotesi dei soprani lirici pieni (ma lirici da Wagner, quindi corposi e risonanti in tutta la gamma) e altrimenti lirico spinti e drammatici. Ebbene tutte queste Aide hanno in comune non solo rotondità di suono e fiati consoni alle lunghe frasi verdiane, conseguenza di un pieno e assoluto dominio tecnico dello strumento, ma accento castigato e dolente, che nulla ha da invidiare a quello sfoggiato dalle tanto vantate Aide liricizzate o liricizzande. Alcune di queste corpulente esecutrici, come la giustamente mitizzata Margarethe Siems, aggiungono poi qualcosa di personale alla definizione del personaggio, chiudendo ad esempio il primo monologo con una puntatura al la bemolle acuto in pianissimo, che delinea come meglio non si potrebbe l’animo trasognato della giovane e infelice schiava.
Una chiosa a sé merita il “Nume custode e vindice” inciso da Leo Slezak e Wilhelm Hesch, fra le maggiori star dell’Opera di Vienna nei primi anni del XX secolo. Pagina puramente esornativa, che nulla aggiunge alla vicenda ma risulta fondamentale nella definizione del clima di rigida sacralità che caratterizza la corte del Faraone, questo duetto con coro richiama palesemente il linguaggio del grand-opéra. Alcuni giorni fa, proponendo la canzone ugonotta dal capolavoro meyerbeeriano nell’esecuzione di Hesch, abbiamo ricordato come il basso boemo sia stato fra gli esecutori del titolo a Vienna proprio accanto a Slezak. E alle atmosfere del grand-opéra, malgrado la traduzione tedesca, fa pensare questa esecuzione, in cui i solisti svettano e fanno a gara per squillo, ampiezza, proiezione e astratta, quasi invasata magniloquenza. Ancora Slezak s’impone, nei duetti con l’amata, per facilità di esecuzione nelle zone più scomode e disagevoli della voce (quella del passaggio superiore su tutte), trovando degni rivali solo nel portentoso Marcel Wittrisch (sentire la facilità con cui quest’ultimo cesella, alla scena della tomba, “degli anni suoi nel fiore”, rendendo in uno la tenerezza dell’amante e la disperazione del condannato a morte) e nello squillo adamantino di Heinrich Knote (quest’ultimo, a onor del vero, un poco fisso nelle tremende frasi “Io son disonorato” al finale terzo).
E proprio Slezak, interprete di riferimento (come impietosamente documentato dalla discografia) tanto in Wagner quanto in Verdi e Meyerbeer (per tacere del suo Mozart), potrebbe forse fornire una risposta a chi domandi se sia possibile affrontare qualunque repertorio, in ambito lirico, con la medesima tecnica di base. Ma forse certi interrogativi vanno interpretati in funzione retorica e dialettica piuttosto che in altro e più concreto senso.
Gli ascolti
Verdi – Aida
Atto I
Celeste Aida – Jacques Urlus (1912), Julius Patzak (1931)
Quale insolita gioia nel tuo sguardo – Inger Karen, Helge Rosvaenge & Margarete Teschemacher (1938)
Su del Nilo al sacro lido – Meta Seinemeyer, Helene Jung, Max Hirzel, Willy Bader & Ivar Andresen (1927)
Ritorna vincitor! – Margarethe Siems (1908), Frida Leider (1921), Meta Seinemeyer (1927)
Nume, custode e vindice – Wilhelm Hesch & Leo Slezak (1904)
Atto II
Chi mai fra gl’inni e i plausi…Fu la sorte dell’armi – Ottilie Metzger & Melanie Kurt (1911), Margarete Klose & Margherita Perras (1937)
Gloria all’Egitto – Margarete Teschemacher, Inger Karen, Helge Rosvaenge, Georg Hann, Ludwig Weber & Karl Schmitt-Walter – dir. Joseph Keilberth (1938)
Atto III
Qui Radamès verrà…O cieli azzurri – Melanie Kurt (1911), Maria Nemeth (1936), Margarete Teschemacher (1938)
A te grave cagion m’adduce, Aida… Su! dunque sorgete, egizie coorti – Fritz Feinhals & Berta Morena (1908), Robert Burg & Meta Seinemeyer (1928)
Pur ti riveggo, mia dolce Aida…Fuggiam gli ardori inospiti – Leo Slezak & Elsa Bland (1906), Max Lorenz & Else Gentner (1930)
Ma dimmi: per qual via – Berta Morena, Heinrich Knote & Fritz Feinhals (1908), Melanie Kurt, Jacques Urlus & Desider Zador (1910)
Atto IV
L’aborrita rivale a me sfuggia – Karin Branzell (1927)
Già i sacerdoti adunansi – Rosa Olitzka (1906), Margarete Arndt-Ober & Karl Jorn (1913), Sigrid Onégin (1920), Sabine Kalter & Richard Tauber (1923), Margarete Arndt-Ober & Lauritz Melchior (1924)
La fatal pietra…Morir! sì pura e bella – Leo Slezak & Sofie Sedlmair (1904), Jacques Urlus & Melanie Kurt (1910), Marcel Wittrisch, Margarete Teschemacher & Margarete Klose (1932)
Gran bell'articolo caro Tamburini.
I due ascolti di Celeste Aida documentano un uso perfetto del registro di testa – non di petto – nella voce del tenore, come scritto in tutti i trattati, dal Tosi nel primo Settecento, alla Lehmann nel Novecento (non è mai cambiato niente). E' l'unico modo per rispettare le difficilissime indicazioni dinamiche previste in partitura.
Questo a conferma che il canto anche dopo Duprez non ha subito nessun cambiamento tecnico (a parte il generale abbandono da parte delle voci maschili del canto di coloratura, da imputarsi non certamente a Duprez, ma al modo di scrivere dei compositori successivi a Rossini).
uuuh, certo…adesso ci vuole il falsettone anche per Verdi e Puccini.
Ps: quindi i compositori post rossiniani sarebbero degenerati e decadenti?
Piuttosto gli ascolti (molto belli) mostrano un altro modo di cantare, non corrotto dal nostro verismo a delle svenevolezze liberty "fin de siécle"… Quello che impressiona non è l'uso di uno pseudo registro di testa (Aida non è Puritani), ma il padroneggiare le mezzevoci, vera "croce e delizia" della scrittura verdiana…
Del resto non è pensabile immaginare che si debba cantare il tardo Verdi come il Rossini di 60 anni prima… E non è solo la coloratura, ma lo stesso uso della tecnica. Il belcanto è periodo storicamente definito….non tutta l'opera è belcanto (grazie al cielo: vorrebbe dire perdere un repertorio magnifico).
Beh, se ascolti Jacques Urlus puoi benissimo sentire che il SIb, attaccato piano, è emesso in un simil-falsetto, poi rinforzato, che altro non è che il registro di testa della voce di tenore.
Per il resto non vedo che bisogno ci sia di fare ironie. Io non parlo di pseudo registri di testa, né di pseudo "falsettoni" (parola che nella trattatistica non è mai contemplata), né di pseudo evoluzioni della tecnica che chiunque abbia approfondito seriamente lo studio del canto può confermare non esistano.
Tanto meno parlo di degenerazioni nei compositori post-rossiniani, fermo restando che Duprez era un cantante modesto a detta dello stesso Donizetti. Piaceva alle signore parigine per i suoi piedini piccoli e graziosi, e perché berciava.
certo voi due se non vi punzecchiate non siete contenti. :biggrin: