Al convento di San Sulpizio, dove un giovane e, si presume, avvenente ragazzo ha deciso, ben conscio di quel che abbandona pronunciando i voti, giunge una donna, anzi una ragazza di diciasette anni, considerata già una delle più affascinanti di Parigi e decisa più che mai a strappare l’abate des Grieux, suo ex amante alla vita consacrata. Quello che accade è facilmente intuibile perché dinnanzi alla rievocazione dell’amore la vocazione alla vita consacrata si dissolve ed il giovane ritorna alla sconsiderata vita con la giovane ben più scriteriata e sconsiderata di lui.
La scena di San Sulpizio è nel capolavoro di Massenet la più drammatica e pregnante. Prima di sentirla dal vivo mi è stata raccontata e da chi aveva avuto la fortuna -credo intorno al 1918, ossia all’età di Manon- ed il privilegio di vederla cantata e prima ancora recitata ed interpretata da Rosina Storchio.
Consideriamo quale significato di assoluto ed autentico peccato potesse assumera, allora più di oggi, la profferta amorosa di una donna giovane, ma non più rispettabile, in un parlatorio di un convento e rivolta ad un novizio.
La narratrice, non più giovane, ma molto compresa dello spirito di Manon non poteva che, con gli occhi luccicanti, soffermarsi e accennare con la voce rotta dall’emozione del ricordo le frasi salienti della seduzione “non ha per te più baci la mia bocca “non son più Manon”.
Anche nella traduzione gli intenti non lasciano spazio a nessuna fantasia tanto meno se la nostra pia dama precisava che la Manon era in ginocchio (anzi in ginougiouni, perchè la narrazione avveniva in milanese) e culminava con la frase “lu el tira via el coularin “ e canta “io vivo per te solo “ e “ el va via cun le” . Il peccato la perdizione il richiamo dell’amore nella forma più esplicita aveva trionfato in spregio della sacralità del luogo e dell’abito di des Grieux.
Il racconto rende l’esatta percezione che il pubblico italiano della prima metà del novecento della scena di san Sulpizio come una seduzione di intensità e peccaminosità pari a quelle di Carmen e Dalila. Possiamo anche aggiungere che talune interpreti molto in voga nella prima metà del novecento incrementassero il tasso di erotismo del personaggio trasformandola da scriteriata e sconsiderata ragazzina che non si ferma dinnanzi alla scelta dell’ex amante in esperta e navigata meretrice, magari non adolescenziale nell’aspetto e nella voce.
Questo serve quale spunto di riflessione perché dal giugno 2011 al giugno 2012 abbiamo deciso di proporre una cospicua serie di scene della seduzione, passando dal convento della Madonna degli Angeli, spagnolo paradigma del luogo di espiazione e conversione a quello di San Sulpizio, francese, dove espiazione e conversione vengono presto abbandonate.
La discografia è veramente ricca perché quello di San Sulpizio è, fra i quattro duetti degli innamorati, il più completo sotto il profilo musicale, drammatico e vocale, tanto che l’assolo di Manon “la mia non è la mano” è stato anche registrato ai primordi del fonografo quale brano a sé stante e come tale, vista la fama delle esecutrici viene, infatti, proposto. Come spesso accade nel repertorio francese valicare le Alpi ovvero attraversare la Manica significava traduzione ed applicazione degli stilemi e dei gusti dell’opera italiana e per opera italiana negli anni ’90 dell’ottocento poteva significare incontro con il Verismo. Utilizzo la formula dubitativa perché se da un lato l’eroina in terra italiana incontrò la patrone del Verismo ovvero Emma Carelli, dall’altro incontrò anche e soprattutto Rosina Storchio. Di entrambe mancano le registrazioni della scena di San Sulpizio. Emma Carelli ha, però, inciso l’aria del secondo atto il “picciol desco”.
Non è conservato alcunchè della Storchio. Possiamo, però, dalla autobiografia di Toti dal Monte, che “passò” la parte con il soprano mantovano avere una testimonianza dell’idea interpretativa della Manon italiana più famosa del primo ventennio del XIX secolo e poi, intendiamoci, fra le affermazioni di castigatezza di canto e la realizzazione pratica ne corre non poco, tenuto conto che eleganza, castigatezza possono avere realizzazioni differenti nel tempo. Certo Giuseppina Baldassarre Tedeschi, Licia Albanese e sopra tutte Mafalda Favero sono l’incarnazione della Manon carnale, verista assatanata di des Grieux, ma non sono la sola realizzazione del personaggio posta in essere in quel periodo. Lo insegnano le realizzazioni anche dell’età della pietra del fonografo perché basta sentire Sigrid Arnoldson per avere una Manon forse un poco compita, forse un po’ gran dama, ma che smentisce che la Manon sofferente e per sbaglio zoccola sia un’invenzione degli ultimi anni. E l’ascolto delle registrazioni antiche smentisce ancor più la faciloneria ed ignoranza oggi di prassi fra critica e pubblico; Carmen Melis esemplifica come una diva verista, con vizi e vezzi del verismo, adusa a titoli ben più onerosi della eroina massenetiana, possa essere dolce, raffinata e sensualissima al tempo stesso.
Buona perversione a san Sulpizio.
La scena di San Sulpizio è nel capolavoro di Massenet la più drammatica e pregnante. Prima di sentirla dal vivo mi è stata raccontata e da chi aveva avuto la fortuna -credo intorno al 1918, ossia all’età di Manon- ed il privilegio di vederla cantata e prima ancora recitata ed interpretata da Rosina Storchio.
Consideriamo quale significato di assoluto ed autentico peccato potesse assumera, allora più di oggi, la profferta amorosa di una donna giovane, ma non più rispettabile, in un parlatorio di un convento e rivolta ad un novizio.
La narratrice, non più giovane, ma molto compresa dello spirito di Manon non poteva che, con gli occhi luccicanti, soffermarsi e accennare con la voce rotta dall’emozione del ricordo le frasi salienti della seduzione “non ha per te più baci la mia bocca “non son più Manon”.
Anche nella traduzione gli intenti non lasciano spazio a nessuna fantasia tanto meno se la nostra pia dama precisava che la Manon era in ginocchio (anzi in ginougiouni, perchè la narrazione avveniva in milanese) e culminava con la frase “lu el tira via el coularin “ e canta “io vivo per te solo “ e “ el va via cun le” . Il peccato la perdizione il richiamo dell’amore nella forma più esplicita aveva trionfato in spregio della sacralità del luogo e dell’abito di des Grieux.
Il racconto rende l’esatta percezione che il pubblico italiano della prima metà del novecento della scena di san Sulpizio come una seduzione di intensità e peccaminosità pari a quelle di Carmen e Dalila. Possiamo anche aggiungere che talune interpreti molto in voga nella prima metà del novecento incrementassero il tasso di erotismo del personaggio trasformandola da scriteriata e sconsiderata ragazzina che non si ferma dinnanzi alla scelta dell’ex amante in esperta e navigata meretrice, magari non adolescenziale nell’aspetto e nella voce.
Questo serve quale spunto di riflessione perché dal giugno 2011 al giugno 2012 abbiamo deciso di proporre una cospicua serie di scene della seduzione, passando dal convento della Madonna degli Angeli, spagnolo paradigma del luogo di espiazione e conversione a quello di San Sulpizio, francese, dove espiazione e conversione vengono presto abbandonate.
La discografia è veramente ricca perché quello di San Sulpizio è, fra i quattro duetti degli innamorati, il più completo sotto il profilo musicale, drammatico e vocale, tanto che l’assolo di Manon “la mia non è la mano” è stato anche registrato ai primordi del fonografo quale brano a sé stante e come tale, vista la fama delle esecutrici viene, infatti, proposto. Come spesso accade nel repertorio francese valicare le Alpi ovvero attraversare la Manica significava traduzione ed applicazione degli stilemi e dei gusti dell’opera italiana e per opera italiana negli anni ’90 dell’ottocento poteva significare incontro con il Verismo. Utilizzo la formula dubitativa perché se da un lato l’eroina in terra italiana incontrò la patrone del Verismo ovvero Emma Carelli, dall’altro incontrò anche e soprattutto Rosina Storchio. Di entrambe mancano le registrazioni della scena di San Sulpizio. Emma Carelli ha, però, inciso l’aria del secondo atto il “picciol desco”.
Non è conservato alcunchè della Storchio. Possiamo, però, dalla autobiografia di Toti dal Monte, che “passò” la parte con il soprano mantovano avere una testimonianza dell’idea interpretativa della Manon italiana più famosa del primo ventennio del XIX secolo e poi, intendiamoci, fra le affermazioni di castigatezza di canto e la realizzazione pratica ne corre non poco, tenuto conto che eleganza, castigatezza possono avere realizzazioni differenti nel tempo. Certo Giuseppina Baldassarre Tedeschi, Licia Albanese e sopra tutte Mafalda Favero sono l’incarnazione della Manon carnale, verista assatanata di des Grieux, ma non sono la sola realizzazione del personaggio posta in essere in quel periodo. Lo insegnano le realizzazioni anche dell’età della pietra del fonografo perché basta sentire Sigrid Arnoldson per avere una Manon forse un poco compita, forse un po’ gran dama, ma che smentisce che la Manon sofferente e per sbaglio zoccola sia un’invenzione degli ultimi anni. E l’ascolto delle registrazioni antiche smentisce ancor più la faciloneria ed ignoranza oggi di prassi fra critica e pubblico; Carmen Melis esemplifica come una diva verista, con vizi e vezzi del verismo, adusa a titoli ben più onerosi della eroina massenetiana, possa essere dolce, raffinata e sensualissima al tempo stesso.
Buona perversione a san Sulpizio.
Massenet – Manon
Atto II
Allons, il le faut…Adieu, notre petite table – Emma Carelli (1904)