E’ naturale che quelli del Corriere della Grisi ritengano la ripresa del titolo meyerbeeriano un avvenimento di rilievo e come tale la firma più vicina a quel titolo ne riferirà nei prossimi giorni.
Gli Ugonotti ancor oggi godono di una fama tutta loro e particolare per quel che nella storia del melodramma rappresentano ad onta delle scarse rappresentazioni, dettate dalla difficoltà di reperire oggi assai più di ieri le cosiddette sette stelle per i ruoli protagonistici. Ma questo è problema e realizzazione che riguarderà Duprez e non già Donzelli.
Quando si pensa agli Ugonotti si pensa ora a Raoul de Nangis ossia l’innamorato folle per amore, folle per l’antinomia delle scelte amorose rispetto al credo religioso, folle per scrittura vocale, folle per gesti scenici (il quarto atto, che un tempo era la fine dell’opera, termina con il protagonista, che si getta dal verone del palazzo di Nevers), ora agli artifizi vocali di Margherita di Valois o del paggio Urbain (magari con le aggiunte previste per Marietta Alboni). Sono queste le chiavi di lettura o gli approcci oggi più comuni agli Ugonotti. Non sono i soli e soprattutto non lo furono nel tempo passato. Per gli Scapigliati milanesi furono l’opera antiverdiana e dei tempi nuovi, per i francesi il paradigma di un modo diverso di fare teatro (e ripeto teatro più che musica), per il mondo anticlericale francese ed anche italiano della seconda metà dell’800 un esempio di dramma, che apertamente contrastasse morale e pensiero storico di ispirazione cattolica.
Di questo aspetto di polemica e critica verso il Cattolicesimo, ben differente nel suo rapporto con il secolare dall’attuale, negli Ugonotti il portavoce è Marcel, il servitore, tutore e maestro di fede dell’amoroso. Marcel non parla di cattolici, parla di papisti quando entra e, riconosciuto, dai gentiluomini cattolici intona una canzone, che costituisce la cavatina di sortita di Marcello. Non è il solo brano perché a Marcel compete un ampio duetto al terzo atto dell’opera con Valentina , oltre che la presenza vocale rilevante nel settimino “per vendicar si grave offesa” e tutto il grandioso finale dove Marcel è celebrante del matrimonio di Raoul e Valentina e loro guida al martirio per la religione.
Non per nulla per tutto il XIX secolo e i primi trent’anni del XX, ovvero sino a quando gli Ugonotti ebbero regolare rappresentazione tutti i più grandi bassi avevano in repertorio la parte. La parte è davvero strana e posso avanzare il dubbio che quando venne scritta e pensata le condizioni vocali di Nicolas Prosper Levasseur (1791-1871) non fossero più freschissime. Era in carriera da vent’anni ed era un cantante di formazione, tecnica e gusto rossiniani. Di questa caratteristica tenne ben conto Meyerbeer visto che la parte presenta qualche parco passo di coloratura (soprattutto al duetto con Valentina) e soprattutto abbonda di trilli spesso ad esaltare (vedi cadenza del corale di entrata) l’aspetto sacerdotale del personaggio e, forse, pensati per dargli quel senso di astrattezza ed estasi religiosa che lo connota. Non dimentichiamoci che la prima indicazione di Meyerbeer è “en exstase”. Perché condizioni vocali non più freschissime? perché Meyerbeer utilizza le zone estreme della voce e di fatto Marcel se si esclude il duetto con Valentina, dove il personaggio è paterno ed accorato, quasi mai il canto è nella zona centrale della voce. Può anche esserci una spiegazione drammaturgica ossia l’esaltazione e il fervore religioso del personaggio sono resi grazie a zone della voce diciamo soprannaturali. In fondo era accaduto lo stesso con il satanismo di Bertram pensato anch’esso da Meyerbeer per Levasseur qualche anno prima ed ancora Brogni, il terribile inquisitore dell’Ebrea di Halévy scritto nel 1835 presenta scrittura bassa, priva, però, di queste caratteristiche estreme.
Gli ascolti che proponiamo sono tutti degni della massima attenzione. Non certo perché proposti, o per meglio dire, riproposti da noi – le nostre persone, come sempre ricordiamo, contando nulla -bensì in quanto esemplificativi, nella diversità e peculiarità di ciascuna voce, di una koinè professionale della quale oggi sembra essersi smarrito persino il ricordo. Ciò emerge con evidenza proprio nella canzone di sortita, in cui gli esecutori si differenziano piuttosto per la cavata, il gioco di accelerando e rallentando, la maestosità conferita a certe frasi (come l’inciso in do maggiore “qu’ils pleurent, qu’ils meurent”) che non per la facilità o la difficoltà di salita agli acuti.
Certo che poi ascoltando un fortunoso cilindro Mapleson appaiono chiari i motivi che resero Edouard de Reszke il re incontrastato della parte al Metropolitan dal 1891 al 1903. L’ampiezza, l’espansione della voce sono evidenti e schiaccianti malgrado la precarietà della registrazione e le non più perfette condizioni vocali, che di lì a pochi mesi avrebbero persuaso il cantante a ritirarsi dalle scene, chiudendo in tal modo una carriera quasi trentennale. Con quello che abbiamo ascoltato in tempi recenti, viene da pensare che la carriera di de Reszke avrebbe potuto durare almeno un ulteriore lustro.
Interessante il confronto tra De Reszke e uno dei suoi diretti rivali, Pol Plançon, che non sostenne mai nel teatro newyorkese la parte di Marcel, ma solo quella di Saint Bris (come del resto fece nel 1891 lo stesso De Reszke, di fresco approdato al Met). La realizzazione della canzone ugonotta è pregevole, come quasi sempre accade per il basso francese, ma forse un poco troppo sussiegosa per la circostanza drammatica e soprattutto se si consideri il carattere rude e vigoroso del personaggio.
I successori del Marcel di De Reszke furono Marcel Journet e successivamente Adamo Didur (che chiude la sua incisione interpolando uno spavaldo sol acuto). Nel 1915 ebbe luogo l’ultima ripresa newyorkese del titolo e quindi José Mardones, approdato al Met solo un paio d’anni dopo, non poté inserirsi nella scia di cotanti predecessori, anche se propose in più di un’occasione, in concerto, la canzone ugonotta. E proprio Mardones consegna al disco una delle realizzazioni più pregnanti, prima di tutto per la voce di vero basso, poi per l’accento, se non vario, almeno incisivo e quindi efficace, tanto più sorprendente in un cantante abitualmente tacciato di essere piatto e monocorde o al massimo dedito a discutibili prodezze vocali (ma la puntatura finale è molto più discreta di quella proposta da Didur).
Un altro appuntamento irrinunciabile, per chi voglia comprendere come possa e debba suonare una vera voce di basso cantante, è quello con Wilhelm Hesch, Marcel di riferimento alla Staatsoper di Vienna (debutto nel 1902 in compagnia di Leo Slezak-Raoul e Selma Kurz-Urbano sotto la bacchetta di Gustav Mahler: quando si dice partire alla grande) e al quale si può muovere un solo appunto, comune del resto agli altri colleghi: la mancata risoluzione dei trilli previsti sul sol grave. Ma forse il cantante che meglio di tutti coglie la doppia natura di Marcel, pilastro della fede e guerriero a riposo, ma sempre pronto a riprendere le armi, è Lev Sibiryakov, che risulta fatalmente umiliante, in Meyerbeer come in Verdi, per tutti i bassi slavi a lui successivi.
Buon ascolto.
Gli Ugonotti ancor oggi godono di una fama tutta loro e particolare per quel che nella storia del melodramma rappresentano ad onta delle scarse rappresentazioni, dettate dalla difficoltà di reperire oggi assai più di ieri le cosiddette sette stelle per i ruoli protagonistici. Ma questo è problema e realizzazione che riguarderà Duprez e non già Donzelli.
Quando si pensa agli Ugonotti si pensa ora a Raoul de Nangis ossia l’innamorato folle per amore, folle per l’antinomia delle scelte amorose rispetto al credo religioso, folle per scrittura vocale, folle per gesti scenici (il quarto atto, che un tempo era la fine dell’opera, termina con il protagonista, che si getta dal verone del palazzo di Nevers), ora agli artifizi vocali di Margherita di Valois o del paggio Urbain (magari con le aggiunte previste per Marietta Alboni). Sono queste le chiavi di lettura o gli approcci oggi più comuni agli Ugonotti. Non sono i soli e soprattutto non lo furono nel tempo passato. Per gli Scapigliati milanesi furono l’opera antiverdiana e dei tempi nuovi, per i francesi il paradigma di un modo diverso di fare teatro (e ripeto teatro più che musica), per il mondo anticlericale francese ed anche italiano della seconda metà dell’800 un esempio di dramma, che apertamente contrastasse morale e pensiero storico di ispirazione cattolica.
Di questo aspetto di polemica e critica verso il Cattolicesimo, ben differente nel suo rapporto con il secolare dall’attuale, negli Ugonotti il portavoce è Marcel, il servitore, tutore e maestro di fede dell’amoroso. Marcel non parla di cattolici, parla di papisti quando entra e, riconosciuto, dai gentiluomini cattolici intona una canzone, che costituisce la cavatina di sortita di Marcello. Non è il solo brano perché a Marcel compete un ampio duetto al terzo atto dell’opera con Valentina , oltre che la presenza vocale rilevante nel settimino “per vendicar si grave offesa” e tutto il grandioso finale dove Marcel è celebrante del matrimonio di Raoul e Valentina e loro guida al martirio per la religione.
Non per nulla per tutto il XIX secolo e i primi trent’anni del XX, ovvero sino a quando gli Ugonotti ebbero regolare rappresentazione tutti i più grandi bassi avevano in repertorio la parte. La parte è davvero strana e posso avanzare il dubbio che quando venne scritta e pensata le condizioni vocali di Nicolas Prosper Levasseur (1791-1871) non fossero più freschissime. Era in carriera da vent’anni ed era un cantante di formazione, tecnica e gusto rossiniani. Di questa caratteristica tenne ben conto Meyerbeer visto che la parte presenta qualche parco passo di coloratura (soprattutto al duetto con Valentina) e soprattutto abbonda di trilli spesso ad esaltare (vedi cadenza del corale di entrata) l’aspetto sacerdotale del personaggio e, forse, pensati per dargli quel senso di astrattezza ed estasi religiosa che lo connota. Non dimentichiamoci che la prima indicazione di Meyerbeer è “en exstase”. Perché condizioni vocali non più freschissime? perché Meyerbeer utilizza le zone estreme della voce e di fatto Marcel se si esclude il duetto con Valentina, dove il personaggio è paterno ed accorato, quasi mai il canto è nella zona centrale della voce. Può anche esserci una spiegazione drammaturgica ossia l’esaltazione e il fervore religioso del personaggio sono resi grazie a zone della voce diciamo soprannaturali. In fondo era accaduto lo stesso con il satanismo di Bertram pensato anch’esso da Meyerbeer per Levasseur qualche anno prima ed ancora Brogni, il terribile inquisitore dell’Ebrea di Halévy scritto nel 1835 presenta scrittura bassa, priva, però, di queste caratteristiche estreme.
Gli ascolti che proponiamo sono tutti degni della massima attenzione. Non certo perché proposti, o per meglio dire, riproposti da noi – le nostre persone, come sempre ricordiamo, contando nulla -bensì in quanto esemplificativi, nella diversità e peculiarità di ciascuna voce, di una koinè professionale della quale oggi sembra essersi smarrito persino il ricordo. Ciò emerge con evidenza proprio nella canzone di sortita, in cui gli esecutori si differenziano piuttosto per la cavata, il gioco di accelerando e rallentando, la maestosità conferita a certe frasi (come l’inciso in do maggiore “qu’ils pleurent, qu’ils meurent”) che non per la facilità o la difficoltà di salita agli acuti.
Certo che poi ascoltando un fortunoso cilindro Mapleson appaiono chiari i motivi che resero Edouard de Reszke il re incontrastato della parte al Metropolitan dal 1891 al 1903. L’ampiezza, l’espansione della voce sono evidenti e schiaccianti malgrado la precarietà della registrazione e le non più perfette condizioni vocali, che di lì a pochi mesi avrebbero persuaso il cantante a ritirarsi dalle scene, chiudendo in tal modo una carriera quasi trentennale. Con quello che abbiamo ascoltato in tempi recenti, viene da pensare che la carriera di de Reszke avrebbe potuto durare almeno un ulteriore lustro.
Interessante il confronto tra De Reszke e uno dei suoi diretti rivali, Pol Plançon, che non sostenne mai nel teatro newyorkese la parte di Marcel, ma solo quella di Saint Bris (come del resto fece nel 1891 lo stesso De Reszke, di fresco approdato al Met). La realizzazione della canzone ugonotta è pregevole, come quasi sempre accade per il basso francese, ma forse un poco troppo sussiegosa per la circostanza drammatica e soprattutto se si consideri il carattere rude e vigoroso del personaggio.
I successori del Marcel di De Reszke furono Marcel Journet e successivamente Adamo Didur (che chiude la sua incisione interpolando uno spavaldo sol acuto). Nel 1915 ebbe luogo l’ultima ripresa newyorkese del titolo e quindi José Mardones, approdato al Met solo un paio d’anni dopo, non poté inserirsi nella scia di cotanti predecessori, anche se propose in più di un’occasione, in concerto, la canzone ugonotta. E proprio Mardones consegna al disco una delle realizzazioni più pregnanti, prima di tutto per la voce di vero basso, poi per l’accento, se non vario, almeno incisivo e quindi efficace, tanto più sorprendente in un cantante abitualmente tacciato di essere piatto e monocorde o al massimo dedito a discutibili prodezze vocali (ma la puntatura finale è molto più discreta di quella proposta da Didur).
Un altro appuntamento irrinunciabile, per chi voglia comprendere come possa e debba suonare una vera voce di basso cantante, è quello con Wilhelm Hesch, Marcel di riferimento alla Staatsoper di Vienna (debutto nel 1902 in compagnia di Leo Slezak-Raoul e Selma Kurz-Urbano sotto la bacchetta di Gustav Mahler: quando si dice partire alla grande) e al quale si può muovere un solo appunto, comune del resto agli altri colleghi: la mancata risoluzione dei trilli previsti sul sol grave. Ma forse il cantante che meglio di tutti coglie la doppia natura di Marcel, pilastro della fede e guerriero a riposo, ma sempre pronto a riprendere le armi, è Lev Sibiryakov, che risulta fatalmente umiliante, in Meyerbeer come in Verdi, per tutti i bassi slavi a lui successivi.
Buon ascolto.
Gli ascolti
Meyerbeer – Les Huguenots
Atto I
Seigneur, rempart et seul soutien – Paul Aumonier (1908)
Piff! paff! – Pol Plançon (1902), Adamo Didur (1903), Wilhelm Hesch (1905), Marcel Journet (1910), Lev Sibiryakov (1912), José Mardones (1919), Tancredi Pasero (1927)
Atto III
Dans la nuit où seul je veille – Johanna Gadski & Edouard de Reszke (Mapleson – 1903), Barbara Kemp & Paul Knüpfer (1915)
Pezzo interessante e bellissimi ascolti.
Sul fatto che la scrittura di Marcel, tutta giocata sullo sbalzo tra zona grave e zona acuta della voce, si adatti ad una voce non più fresca, non sono molto convinto. Cantare al centro per un basso non è faticoso come lo è per un tenore o un soprano, e questo per un motivo assai semplice: il basso non cambia di registro ma canta tutto di solo petto. Semmai la voce del basso con l'età si farà più dura e difficile proprio nelle sue frange estreme, ma al centro no.
Ascolti tutti magnifici. Impressionante come Didur fa mostra della sua voce nelle note sopra il rigo! Una sicurezza e brillantezza da baritono!
Stilisticamente Plançon è come sempre impeccabile, ed è notevole come un cantante ormai non più nel fiore degli anni non scenda mai a compromessi con lo spartito. Impressionanti, malgrado qualche percepibile durezza in acuto, la leggerezza e la facilità della voce, la musicalità… Peccato per il trillo sul sol grave, da un trillatore come Plançon non me ne sarei aspettata l'omissione!
Molto bella anche la canzone ugonotta di Tancredi Pasero.
Scusa Mancini, perchè dici che il basso non cambia di registro? Cambia (o meglio, dovrebbe…), come qualsiasi altra voce che voglia estendersi su almeno 2 ottave…
Egregio Don Antonio, caratteristica peculiare del basso è proprio la potenza e la singolare estensione del registro di petto (così come nel contralto, che però canta di più sul registro misto, ed in molti casi sviluppa pure un esteso registro di testa, che gli permette di raggiungere un'estensione ben maggiore di due ottave).
A differenza dei tenori e dei soprani, che dovrebbero, sottolineo dovrebbero, passare nella zona acuta al registro di testa, il basso non ne fa uso. La voce del basso in questo senso è la più naturale tra tutte le voci.
Caro Mancini,
l'ultimo enunciato è però poco preciso, come potrai tu stesso concordare, ad esempio, ricordando Kipnis che canta "O du mein holder…" del Tannhauser. Ma tutti i bassi storici sapevano usare il registro di testa.
Per il resto concordo sulla bellezza degli ascolti e, ça va sans dire, della profondità dell'analisi.
A presto, MB
Tutti i bassi che cantano secondo le regole passano di registro sul si bemolle o si naturale. Ascoltate i dischi di Pasero per rendervene conto.
Cari signori,
io contestavo l'affermazione di Donzelli per cui un basso con età avanzata e voce non più fresca si trovi a suo agio nelle zone estreme della voce (l'ottava grave e le note sopra il rigo), mentre faccia fatica a sostenere la voce al centro. Cantare nel centro della voce è impegnativo per quelle voci che nel centro fanno uso del c.d. registro “misto”, cioè le voci che nel centro passano dalle note gravi di petto, a quelle acute di testa, mescolando appunto i due registri. E’ il caso di tenori, contralti e soprani. L’uso di questo registro, lo dice il Garcia, determina un maggior dispendio di fiato, e perciò richiede maggiore fermezza di voce.
Il basso però, a differenza del tenore, vanta una resistenza ed estensione eccezionali nel registro di petto, con cui copre tutta la zona grave e l’ottava centrale, ed assolutamente non passa mai al registro di testa – al massimo sugli acuti impiegherà una voce “mista”, ma non certo di pura “testa” come i tenori ed i soprani.
Lo dicono i Garcia quando parlano dei registri nelle voci maschili, e affermano che la voce del basso deve limitarsi al registro di petto, e lo dice chiaramente anche il celebre basso Luigi Lablache, nel secondo capitolo, paragrafo terzo, del suo “Metodo completo di canto”:
“Gli uomini hanno la facoltà di formar due serie di suoni, le quali serie si è convenuto chiamare Registri della voce. La prima serie comincia dalla nota la più grave, estendendosi per il Basso fino al mi sopra il rigo, e dicesi Registro di petto. Al di sopra di questo suono incomincia un’altra serie di suoni, che diconsi Registro di testa. Siccome però la voce di Basso ha una tal forza nel suo registro di petto, a segno da esser pressoché impossibile di ben unir ed eguagliar queste due qualità di suoni; perciò si è rinunciato all’idea di far uso, per la voce di Basso, de’ suoni di registro di testa.”
Per quanto riguarda il brano di Kipnis citato da Battistini, l’ho ascoltato e non ho sentito un solo suono di testa. C’è invece un uso magnifico dei colori della voce, e delle sue possibilità dinamiche (la mezzavoce).
A citare Lablache, bisogna anche sapere delle tante confusioni terminologiche che sono ben note a chi ha letto un pò di questa letteratura. Il trattato del più grande basso di tutti i tempi non è esente da tali mende (vedi colpo di glottide). Il registro di testa, ad esempio, non è (o non dovrebbe confondersi con) il falsetto. Comunque, purtoppo ho molta fretta adesso, me ne dispiace e me ne scuso. Ti cito solo una frase della grande Lehmann (neanche lei è la Bibbia, tuttavia):
"la voce di testa rappresenta per TUTTI i cantanti il tesoro più prezioso…deve essere guardata come una guida od angelo custode. Ed è solo grazie all'uso di tutti i registri che la voce acquista squillo, corre e si potrà mantenere giovane nel tempo".
Ciao, MB
Confusioni terminologiche?!
Il registro di testa nei trattati antichi talvolta è chiamato anche con il nome di "falsetto" (ad esempio, Mancini usa promiscuamente entrambe le espressioni, mentre Garcia a volte parla di falsetto-testa, altre volte invece di medium e testa). Si tratta però di un'espressione puramente convenzionale, tradizionale, metonimica, non certo fisiologica. Il "falsetto" infatti – nell'accezione odierna di imitazione femminea della voce di donna – non è ammesso nel canto all'italiana, salvo quando la voce deve piegarsi alle più sottili sfumature dinamiche a mezzavoce. Ricordiamoci che il celebre tenore Giovanni David veniva fischiato sonoramente, soprattutto alla Scala, quando per pigrizia si permetteva di eccedere nei falsetti (io stesso lo avrei fischiato). Certi effettini svenevoli ed eunucoidi potevano andare bene al massimo per qualche farsetta, non certo per l’opera seria. Già all'inizio del '600 il Caccini scriveva che "dalle voci finte non può nascere nobiltà di buon canto". Insomma, fin dai tempi dei castrati, si canta solo a voce spiegata, ed il falsetto è BANDITO.
Non credo affatto che Tosi, Mancini, Lablache, Garcia ecc., facciano "confusione" quando parlano dei registri della voce. Mancini dice che TUTTE le voci sono divise in due registri, chiamati petto e testa (o falsetto). Lablache parla di petto e testa per le voci maschili, per le femminili di petto, mezzo e testa.
Insinuare confusione terminologica in questi trattatisti significa suggerire che i cantanti a quell’epoca, donne e uomini, risolvessero il settore acuto falsettando, il che è un’assurdità impensabile. La vera confusione è quella che hanno OGGI nella testa i maestri di canto o presunti tali, ed i loro allievi, mostri vocali inqualificabili.
Quanto alla Lehmann, si tratta di un soprano ed inevitabilmente scrive sulla base delle proprie sensazioni. Quella frase in ogni caso è profondamente giusta, ma è da riferirsi alle voci che effettivamente fanno uso della voce di testa. Il basso ha sì una voce di testa, così come tutte le altre voci, ma di fatto non sfoga mai in tale registro. Lablache lo spiega chiaramente, senza nessuna confusione o fraintendimento. Ma voi quando mai avete sentito un basso cantare in registro di testa?!
Lablache tende a spostare in alto il passaggio di registro per tutte le voci. Ad esempio, come nota Juvarra nel testo "I segreti del Belcanto": "alla voce di soprano viene attribuita un'estensione della voce di petto che arriva fino al fa (mentre oggi si pensa non debba olprepassare il mi bemolle), al contralto addirittura fino alla nota mi dell'ottava più alta, mentre il baritono passerebbe in testa alla nota fa e il tenore alla nota sol".
Su quello che facciano in pratica i bassi, cito l'esempio noto a tutti dell'aria del Don Carlo. Un basso che non passi di registro sull'acuto della frase "Amor per me non ha" emetterebbe un suono greve e forzato. Il vero Don Antonio non l'avrebbe mai concesso ai suoi allievi… 😉
finalmente riesco a scrivere
che i bassi non passino di registro è una cianciafrustola oggi propagnadata anche dal un famoso soprano che si diletta a pagamento di insegnare canto e che in quanto vedova di un basso che non ha mai saputo cantare deve difendere la memoria della buonanima.
quanto a Lablache che lo scrisse nel suo trattato credo che si trattasse di una natura particolarmente dotata e mi rifiuto di credere che per cantare Assur non dovesse ricorrere al passaggio di registro. Forse lo faceva senza accorgesene come capita a molti cantanti. Sarebbe anche da riflettere sul fatto che Lablache scassato predilega scritture centrali come don Pasquale . E questa osservazione mi serve per riprendere quanto scritto su Levausseur. In genere le voci gravi sia maschili che femminili nel declino presentano lo scalino ovvero il buco sulle note centrali. Se dotata di buona tecnica come doveva essere Levausseur rimaneva integra quelal parte della voce che la tecnica aveva consentito di costruire.
ciao dd
Il trattato di Lablache effettivamente è viziato da un certo pressapochismo, ma questo non deve farci pensare che ciò che lui scrive sia solo un mucchio di sciocchezze che la nostra moderna "Scienza" – fondata, se va bene, sull’ascolto di cani e non di cantanti, ma più spesso del tutto slegata dall’ascolto consapevole – possa permettersi di snobbare…
Lablache era forse poco analitico e portato ad un empirismo facilone, però fu un grande cantante, ed ebbe modo di ascoltare – e cantare assieme a – cantanti anche più grandi di lui… Pertanto il suo trattato è una fonte che gli studiosi della storia del canto debbono tenere bene in considerazione. Cantando con Rubini e Tamburini evidentemente sentiva che queste voci, più acute, facevano un uso diverso dei registri della voce. Era questo che lo portava a scrivere che il baritono ed il tenore, voci più “dolci ed arrendevoli, possono liberamente usare ambidue questi registri (petto e testa, n.d.r.)”, mentre il basso, al contrario, deve limitarsi al petto. Lo stesso concetto, identico, viene espresso prima da Mengozzi, poi da Garcia padre, che nella sua classificazione dei registri vocali spiega che la voce del basso “deve essere confinata al registro di petto, che nei casi più fortunati si estende dal re bemolle sotto il rigo fino al mi sopra”, in ragione della difficoltà di unire ed omogeneizzare il colore del registro di petto con quello del registro di testa; anche Garcia Junior poi riprende lo stesso discorso, scrivendo che nelle voci maschili “predomina il registro di petto, essendo gli altri due registri (medium e testa, n.d.r.) rimasugli della voce infantile”, e prosegue poi dicendo che il tenore ha una maggiore facilità, rispetto alle voci gravi, nell’uso del falsetto e della voce di testa.
Sono forse tutte… “cianciafrustole”?
Quanto all’estensione che Lablache attribuisce ai diversi registri, talune anomalie si spiegano considerando che nella sua tavola egli indica solo i limiti estremi dei registri, e quindi fa iniziare la voce di testa solo sulla nota in cui il passaggio di registro è del tutto completato. Si tratta insomma di misure puramente schematiche ed indicative, in quanto il nodo centrale del suo metodo di canto non è l’estensione dei registri, ma la loro unione. E’ lo stesso Lablache a temperare la rigidità della sua classificazione, quando poco oltre spiega che dal nostro organismo è “concesso poter fare i suoni estremi d’un registro col prossimo registro”. Quanto alla voce del contralto, Lablache addirittura rifiuta di stabilirne l’estensione dei registri, in quanto “questa voce diversifica ne’ suoi mezzi pressoché in ogni individuo”. Quindi non attribuisce affatto un’estensione del registro di petto fino al MI acuto…
Resta ancora senza risposta la mia domanda: quando mai avete sentito un basso utilizzare il registro di testa?
Giovanni Battista Lamperti nel suo trattato di canto – 1905 – scrive che la vera voce del baritono e quella del tenore di grazia sono quasi scomparse, perché usurpate da tecniche forzose che privano il canto di dolcezza e morbidezza (gli epigoni di Duprez…). Vi propongo due ascolti esemplificativi di queste due classi vocali in via d’estinzione, nonché dell’uso del puro registro di testa:
– il baritono francese Jean Lassalle (1847-1909) ci fa sentire un uso esatto della voce di testa sulla puntatura al FA acuto, nella cadenza finale del brano. Il passaggio alla pure voce di testa, quindi, è sul FA acuto, e questo conferma lo schema di Lablache. E’ chiaro l’impiego della voce di testa, in quanto il rispetto della prescrizione “pianissimo” sullo spartito impone l’uso della risonanza di pura testa, segnalata dal timbro chiaro e dolce (oggi i baritoni sugli acuti sanno solo urlare). Tra i bassi non credo esista, documentato dal disco, l’uso di questo registro (il basso tutt’al più salendo agli acuti rinforza la voce di petto con le risonanze di testa, ma è sempre il petto a prevalere).
– il tenore francese David Devriès (1881-1936) con la voce fa tutto quello che vuole. Piano, forte, messa di voce, crescendo, diminuendo… il tutto con un legato ed una omogeneità impeccabili, ed un timbro dolcissimo. Perfetto è l’uso della voce c.d. “mista” e della voce di testa, le cui risonanze sono evidenti già dal MI acuto (nota su cui impiega tranquillamente anche il registro medio, a seconda delle esigenze). Il passaggio alla voce di testa è palese sul LA bemolle “pianissimo” al termine dell’arioso, prima che cominci l’andante, oppure alla settima misura dell’andante, dove il LA bemolle è attaccato piano e poi rinforzato. Sono suoni che solo un tenore può utilizzare, tutt’al più un baritono. Il basso non ne fa mai uso.
Il fatto che Lablache da vecchio prediligesse scritture centrali conferma la mia tesi per cui una voce di basso invecchiando farà fatica in acuto, ma non al centro (il contralto è diverso, usa il petto in un’estensione molto minore; l’unione del petto con il medium è critica nelle donne, mentre nell’uomo il punto critico è sul secondo passaggio, che il basso non deve affrontare).
Tanto per rimanare sugli ascolti proposti del celebre "Piff, paff", i bassi che ho sentito ieri (Didur, Sibiryakov e Mardones) cambiano tutti di registro almeno sul MI naturale della frase "che piangan, che MOran, ma grazia giammai". Ma forse abbiamo un concetto diverso di passaggio di registro…
Se poi vogliamo portare esempi più vicini a noi, per chi abbia assistito all'Attila scaligero, è proprio la mancata esecuzione corretta del passaggio di registro che rende così difficoltoso per Anastassov eseguire gli acuti della cabaletta di Attila (ascoltare Ramey per confronto…).
Nella meravigliosa esecuzione di Lassalle di "Chant Provencal", il FA è una nota in esclusivo registro di testa. Ma passare al registro di testa non significa utilizzare questo tipo di suono (se vogliamo, questo è un caso estremo, da utilizzare per particolare effetti espressivi), ma passare ad un registro nel quale prevalgono le risonanze di testa rispetto a quelle di petto. Per farla semplice, riprendo la spiegazione che Juvarra dà del passaggio di registro in un'intervista: "Il passaggio di registro è un 'cambio di marcia' dei muscoli interni laringei che interviene naturalmente nella voce a determinate altezze. In molte voci questo passaggio è automatico, e quindi non è necessario soffermarvisi per analizzarlo, in altre voci non lo è, ma bisogna indurlo consapevolmente."
Non avevo mai ascoltato la "Berceuse" di Devries. E' di una bellezza assoluta!
divinaaaaaaaaaaaaaaaaaa!
Egregio Cotogni, vedo che ci intendiamo. Il passaggio di registro, come ben dici, è completato quando prevalgono le risonanze di testa su quelle di petto (il FA acuto di Lassalle è di pura testa).
Nei bassi però prevale sempre la voce di petto, anche sugli acuti. Non c'è mai nei bassi lo squillo trascendentale della voce di testa, appartenente invece ai baritoni ed ai tenori.
Tu mi parli di Ramey, ma lui era un baritono più che un basso.
Anastassov non sa fare gli acuti (e credo che non sappia fare neanche il resto) perché la voce non è poggiata sul fiato ma è ingolfata nella gola. "Posare" la voce è il primo pilastro della tecnica di canto all'italiana, mentre il "canto" degli odierni can-tanti è privo di qualsiasi fondamento.
La frase acuta "che piangan, che moran" non è cantata in registro di testa, ma in registro di petto arricchito delle consonanze di testa. Possiamo anche chiamarlo registro "medio", ma NON è voce di testa sfogata. L'unico che effettivamente si avvale di un suono quasi di testa è Plançon, per il quale, a cinquant'anni suonati, arrivare al MI acuto con la piena voce di petto sarebbe stato troppo oneroso (secondo Celletti anche Lablache avrebbe usato il registro di testa, o come Celletti lo chiamava, il "falsettone", sulle note immediatamente successive al mi acuto, fino al sol). Ma Plançon poteva permettersi queste sonorità armoniose anche in ragione del suo timbro molto chiaro, dolce e morbido, quasi baritonale, non propriamente da basso, per cui non era impossibile unire le ultime note di petto con le prime note di testa. Sfido chiunque di voi a dirmi che il MI di Plançon e quello di Didur siano uguali (Didur emette un suono gigantesco e fortissimo, pettoruto, mentre Plançon usa più la testa).
P.S. guardate che i vari Garcia, Mengozzi, Lablache ecc., non erano mica dei cretinotti qualsiasi… Se scrissero che il basso canta solo nel registro di petto, una ragione c'è, e va compresa, senza bisogno delle "correzioni" degli odierni Juvarra, che, pur io stimandoli, dubito conoscano l'arte del canto come la conoscevano quegli antichi maestri…
Non è stato menzionato Vladimir Kastorsky. Ascoltatelo, è l'unico ad eseguire i trilli sui SOL gravi:
http://www.youtube.com/watch?v=1Y8M9Q_M268&feature=related
Caro Mancini, tu parli di voce di testa sfogata. A mio parere, la voce di testa sfogata si può avere solo quando il passaggio di registro è totalmente completato e si entra in pieno registro di testa. Probabilmente questa cosa non la si avverte spesso nei bassi, perchè il pieno passaggio al registro di testa lo hanno solo sul Fa – FA# (si tratta comunque di una cosa abbastanza soggettiva) e non capita spesso che un basso debba toccare certe note. Tuttavia, un esempio lo abbiamo proprio nella serie di ascolti del "Piff, paff": il clamoroso SOL di Didur è in pieno registro di testa e mi sentirei tranquillamente di attribuirgli quello che tu chiami "squillo trascendentale della voce di testa"! 😉
Ma caro Cotogni, Didur era un fenomeno della natura… la voce di basso canonica arriva al massimo, in extremis, al FA acuto… il SOL è una nota da baritono!
Peraltro, stilisticamente quel SOL è orrendo, ed anche vocalmente io lo trovo decisamente sopra le righe… è una nota violenta, sparata senza controllo… il registro di testa è un'altra cosa.
In ogni caso, quello che volevo dire è che per un basso cantare nel medium della voce non dovrebbe essere un problema. Semmai, con l'età sarà la zona acuta a perdere smalto ed estensione. Plançon, che incide i suoi dischi ad età avanzata, ne è esempio preclaro.