E per rimanere in tema di “filologia”, probabilmente per farci sentire sulla pelle l’atmosfera della Firenze secentesca o di quella Venezia del Teatro dei SS Giovanni e Paolo dove ebbe la sua prima assoluta, la dirigenza del teatro si è premunito di non riparare l’impianto di areazione e di non acquistare acqua fresca a sufficienza per l’arsura del povero pubblico convenuto, trasformando così la sala in un enorme forno di marmo e legno, forse più adatto a chi si diletta di cannibalismo visto che le persone stipate sulle calde poltrone di velluto hanno subito letteralmente una lenta cottura di oltre tre ore neanche fossimo costolette di maiale o arrosti di vitello.
Ringrazio l’eccellenza (?) della macchina organizzativa del Maggio Musicale Fiorentino a nome di tutto il pubblico pagante.
Ho evitato accuratamente, dopo aver assistito ad una sciaguratissima ripresa di “Tosca” che non meritava commenti, gli spettacoli successivi proposti nel Teatro Comunale; i quali, come dimostrano le cronache e gli ascolti radiofonici, non hanno avuto un grande riscontro in termini di commenti lusinghieri da parte del pubblico (se si esclude l’incoraggiante prova di Hui He in “Aida”); dunque tornavo al Maggio Musicale per due ragioni: assistere ad un’opera di Monteverdi, “L’incoronazione di Poppea” per le cure del direttore Alan Curtis, in una edizione che si preannunciava “innovativa”, e per ascoltare dal vivo il mezzosoprano Susan Graham, interessante e non banale star internazionale.
Il direttore e musicologo Alan Curtis è partito dalla sua edizione critica pubblicata nel 1989 e basata sulle varie e differenti edizioni dei libretti (almeno una decina), e, per quanto attiene il basso continuo e la linea vocale, sugli studi effettuati sui due manoscritti, quello veneziano ritrovato nel 1888 e datato 1650, curato da Francesco Cavalli e conservato nella Biblioteca Marciana il quale si differenzia in alcune linee dal manoscritto napoletano risalente al 1651 utilizzato per una ripresa e ritenuto da Curtis più autentico.
Curtis opta per un organico ridotto all’osso, una ventina di elementi in tutto, così suddivisi: a destra gli archi dell’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino ed un cembalo; a sinistra il secondo cembalo suonato dallo stesso direttore, violone, lirone, le tiorbe, l’arpa, rigorosamente d’epoca, de “Il complesso barocco”, creato da Curtis stesso, a formare l’accompagnamento del basso continuo. Non tutto è “filologico” e integrale come ci si aspetterebbe in effetti: ad esempio, Curtis si aspettava di trovare tra le file dell’orchestra fiorentina archi antichi e flauti dolci, come si fa in Europa, cosa che già con Bolton nella “Poppea” del 2000 era stato impossibile da realizzare; dunque, taglio drastico dei fiati e degli ottoni; soppressione di due personaggi: Mercurio, nella scena del secondo annuncio di morte a Seneca, e Venere, con il coro che segue, nel tripudio che anticipa il finale; qualche piccolo taglio di frasi e ripetizioni di alcuni momenti comici e corali, cosa però già presente in alcune edizioni critiche.
Più problematica la scelta della vocalità dei protagonisti qui sottoposta ad alcune modifiche: Nerone, composto per voce di soprano-castrato e cantato più volte da soprani e mezzosoprani (come nell’edizione discografica di Curtis), qui è interpretato da un tenore, strada già intrapresa ad esempio da Harnoncourt; in questo caso scellerato l’affidare ad un cantante di dubbia classificazione e gusto (tenore corto? Controtenore? Attore di prosa?) un ruolo dalla tessitura contraltile e creato per un castrato come quello di Ottone; per le anziane nutrici la filologia è chiara: possono essere interpretate sia da voci contraltili, sia da voci tenorili, in questo caso un tenore (Arnalta) ed un controtenore (Nutrice di Ottavia); mentre nessun dubbio su Fortuna/Valletto, alla prima interpretato da un castrato-soprano e dunque accessibile sia per voce bianca che da una voce femminile.
Cosa ascoltiamo allora? Curtis riduce al minimo gli interventi degli archi “moderni” ad una manciata di note udibili brevemente in alcune sporadiche introduzioni e all’inizio di qualche momento solistico, mentre tutta l’opera è retta dal basso continuo; il quale non suona male, ma nemmeno tanto bene; le note ci sono tutte, sono ben scandite nell’agogica dilatatissima fino alla stasi impressa dal direttore: ma sono note bianche e tendenzialmente stridule, tipiche dei complessi barocchi, prive di qualunque morbidezza, prive del minimo spessore nella loro secchezza alla varecchina, eseguite in un grigiore cromatico esasperante; come esasperante nella totale incapacità di fraseggi, di colori, di sensualità, di accenti risulta la direzione di Curtis. Un suono, in breve, nella sua monotonia interpretativa, che pian piano sparisce, diventando nebuloso durante gli accompagnamenti, tanto che dopo essersi abituati, in pratica sembra di assistere ad un’opera “a cappella” per soli voci accompagnate da una nota ribattuta in perpetuo. Lettura scientifica? Lettura intimista? Interpretazione analitica? NO! Noiosa, narcolettica, testimoniata dalla moltitudine di persone cadute tra le braccia di Morfeo durante il primo e secondo atto, o da coloro che, a un quarto d’ora dall’inizio del terzo, hanno abbandonato il Teatro, vuoi per l’afa insostenibile, vuoi perché è meglio dormire in un letto con il condizionatore, che in una scomoda poltrona di caldo velluto dentro una sauna.
Una breve parentesi la meritano le “voci”.
Gli albori dell’opera, il “recitar cantando”, non c’era ancora il Garcia con il suo manuale: e quindi?
Tra la “Dafne” di Peri (1598), storicamente riconosciuta come “la prima opera” e la “Poppea” di Monteverdi (1642) c’è una differenza di ben quarantacinque anni! Un periodo in cui si arriva al “cantar recitando”, in cui l’evoluzione della tecnica era andata avanti, in cui il canto dei castrati era diventato paradigmatico e avrebbe gettato le basi per la scuola stessa dei cantanti contemporanei e futuri (sette e ottocento) e oggetto di studio dei grandi insegnanti, i quali, a loro volta scriveranno fior di trattati, di cui il Garcia è solo la summa applicata ad un’altra epoca e ad un altro stile! Un’epoca talmente vivace che fece nascere il mito della “primadonna” incarnata nel soprano Anna Renzi: carriera ventennale, applaudita ed idolatrata, prima Ottavia e dedicataria di odi, poesie, sonetti, uno dei quali trovato in un libretto della “Poppea”, e protagonista di opere brillanti e tragiche!
Con questa premessa come giudicare “questi” cantanti?
Cosa dire di Serena Malfi, sostituta della prevista Marina Comparato, nei ruoli di Fortuna e Valletto, di Anna Kasyan (Virtù/Pallade), di Francesca Lombardi Mazzulli (Amore), di Ana Quintans (Drusilla), Maria Laura Martorana (Damigella) di fronte a timbri tanto pallenti e filiformi, ad un registro grave parlato ed acuti che fanno rimpiangere il suono di un trapano e ad un conglomerato così evidente di fissità, tanto da far passare, ad esempio, inosservato, dunque inutile, il bellissimo duettino tra il Valletto e la Damigella?
Cosa dire delle pur scenicamente godibili Nutrici: il fragile e non molto intonato tenore Krystian Adam, costretto a cantare la nenia in un terrificante falsetto, e del controtenore (categoria che faccio fatica ad ascoltare) Nicola Marchesini?
Come definire la vocalità ruvida, “digestiva” e secca del Seneca monocromatico di Matthew Brook?
Soprattutto come definire quella “cosa” grottesca rappresentata da Anders Dahlin, la cui interpretazione è lamentosa oltre ogni umana idea arrivando a superare in noia persino Curtis? “Tenore” (sic!) sulla carta, Dahlin, ma attore di prosa nei fatti, che “parla” con la sua voce afonoide emettendo gli acuti in un delirante falsetto calante o crescente.
Non sarebbe stato meglio abbassare la parte, allora, o usare un mezzosoprano onde evitare inutili e imbarazzanti “rumori” stilisticamente molto dubbi ed evitare le molte sofferenze uditive?
Un supplizio “filologico”!
Meglio allora l’Ottavia piena di aristocratico temperamento di José Maria Lo Monaco, dotata di una buona proiezione e di un timbro suadente nonostante pecchi e faccia penare con la fissità, che potrebbe facilmente evitare, negli acuti e nei portamenti; ma ha cantato con proprietà, compostezza e giusto accento entrambi i “lamenti”, ritagliandosi un buon successo personale.
Meglio allora il tenore Jeremy Ovenden, Nerone: non trascendentale quanto a vocalità e tecnica, tanto da arrivare stanco alla fine del primo e del terzo atto, incontrando qualche svarione nell’intonazione soprattutto durante il “processo” a Drusilla e nel duetto conclusivo; eppure gradevole timbricamente e duttile nelle agilità, riuscendo ad evitare, quando può, i suoni fissi, e regalandoci una interpretazione dell’imperatore tutta incentrata su una ironica ambiguità sensuale e sessuale in cui la morte di Seneca é solo il perfido capriccio di un bambino perverso; molto riusciti i duetti con Poppea ed il sorprendente duetto, qui omoerotico e ad alto tasso di erotismo, con Lucano, l’agile e languido Nicholas Phan.
Migliore tra tutti Susan Graham, grazie al cielo! La Graham ha principalmente due difetti: una percettibile ingolatura nel registro centrale, che si manifesta all’inizio di ogni attacco, ed il timbro da soprano lirico, probabilmente corto, più che da mezzosoprano, categoria in cui si è maggiormente identificata in questi anni. Ha quasi del miracoloso, ai giorni nostri e con cantanti che si sfasciano nel giro di cinque o dieci anni, il fatto che questa cantante, in carriera da vent’anni, abbia mantenuto la voce timbricamente inalterata senza quei segni d’usura che affliggono cantanti più giovani di lei o a lei contemporanei. Non è una grande virtuosa nell’utilizzo della veloce coloratura monteverdiana, che la mette un po’ a disagio, ma nulla di preoccupante né di scandaloso, nonostante nel secondo atto si lasci trascinare dall’azione interpolando gemiti e gridolini; ma il resto è cantato con serietà e dignità che riescono a isolarla, per fortuna, dal mediocre panorama attuale dei cantanti “baroccari” vuoti e intercambiabili.
Timbro sopranile, quindi, che corre senza sforzo nella sala della Pergola, ambrato quel tanto che serve per renderlo naturalmente sensuale, ma mai monotono, né tantomeno algido, al contrario estremamente femminile. L’emissione è morbida, controllata, così la voce si presenta omogenea, il che ci risparmia, ed è l’unica in questo, da suoni stridenti o fissi sostituiti da piani e pianissimi molto suggestivi. L’interprete disegna una Poppea, consapevole del proprio potere di seduzione e manipolazione, che rivendica la propria libertà e la propria posizione politica più con l’egocentrismo e la determinazione che con il cinismo. Un’abile e irresistibile doppiogiochista, una Venere dorata, resa fragile solo dalla acerba passionalità di Ottone, presto cancellato dal sorriso per la vittoria ottenuta.
Senza essere la Sutherland o la Horne, si può cantare bene questo repertorio evitando i vezzi, le caccole e le incrostazioni “baroccare” dure a morire o a evolversi.
Pierluigi Pizzi colloca l’azione su una pedana circolare che, ruotando, mostra i tre ambienti principali in stile black-neoclassico: un doppio ordine di colonne per le sale nella reggia di Nerone; una facciata stilizzata e marmorea per gli appartamenti di Poppea; un muro dotato di biblioteca per la casa di Seneca. Quando vuole Pizzi, ispirato anche da Carsen invero e dai movimenti coreografici di Roberto Maria Pizzuto, crea un’azione che per fortuna non conosce momenti di stanchezza, i cui intenti sono l’esaltazione dell’eleganza formale delle scene e degli splendidi costumi, e movimenti appropriati per far muovere i singoli ed i loro sentimenti allo scopo di differenziarli e renderli coerenti. Non manca un tocco di ironia maliziosa nel delineare, oltre che i protagonisti, anche i gustosi e numerosi comprimari, le due Nutrici su tutti; quella di Ottavia quasi una monaca con la passione per il ballo, quella di Poppea, più smaliziata, dalle pose plastiche e “divine” e dai vestiti sgargianti da drag-queen nel finale. Qualche licenza al contemporaneo solo nei costumi di Ottone e in alcuni famigliari. Le luci di Sergio Rossi sono praticamente fisse con qualche cono di luce o tagli argentei a isolare qualche duetto o qualche momento solitario.
Quando l’opera termina, il pubblico dormiente si risveglia applaudendo un po’ a casaccio tutto il cast e non decretando i soliti dieci minuti di applausi stavolta, nonostante il trionfo per la Graham e Ovenden, il buon successo per la Lo Monaco, quello di simpatia per le due Nutrici (soprattutto l’Arnalta di Adam) e quello realmente inspiegabile per Dahlin, forse applaudito per l’avvenenza più che per la bravura; ma si sa, oggi conta più questo del canto o della filologia probabilmente!
Gli ascolti
Monteverdi – L’Incoronazione di Poppea
Atto I
Disprezzata Regina – Teresa Berganza (1961)
Atto III
Addio Roma – Leyla Gencer (1967)
Idolo del cor mio – Maria Vitale & Carlo Bergonzi (1954)
Adoro il barocco fatto dai NON baroocari.
Che lusso la Gencer, la Vitale e Bergonzi…
Le orchestruzze baroccare sono davvero tremende. Ma lo scempio più grande compiuto dai baroccari è aver voluto "barocchizzare" anche lo strumento voce, producendo dei veri e propri mostri vocali. E' un modo di "cantare" storicamente inesistente, fisiologicamente assurdo e dannoso, acusticamente osceno e ridicolo.
Ecco, io credo che per eseguire Monteverdi in modo decente si debba partire da una impeccabile competenza musicologica: altrimenti escono orrori come Bergonzi, Gencer e Vitale…
Monteverdi non è Massenet o Mascagni…occorre una realizzazione musicale – dato che la partitura scritta comprende solo basso numerato e linea vocale (a differenza de L'Orfeo, che contiene indicazioni in merito all'orchestra – sappiamo esattamente l'organico della prima esecuzione – L'incoronazione di Poppea richiede un lavoro di vera e propria realizzazione musicale, che non può risolversi ovviamente in una riorchestrazione moderna, che sarebbe una porcheria fatta e finita).
Quanto a Curtis – che ritengo essere soporifero in ogni repertorio affrontato – non c'era da aspettarsi niente di meglio. Mentre nelle incisioni è abbastanza rispettoso delle esigenze filologiche (pur risultando sempre noiosissimo), dal vivo si permette libertà inaccettabili.
Un piccolo appunto all'amica Marianne: non è che Curtis ha eliminato fiati e archi…semplicemente perché la partitura non prevede né gli uni né gli altri. Liberissimo di non usarli (la realizzazione musicale di Vartolo – splendida per me – è quasi interamente affidata a liuti tiorbe regali spinette cembali…). Probabilmente Curtis non avrà avuto voglia e tempo di insegnare a fiati e archi dell'orchestra fiorentina (abbastanza scalcinata) come eseguire musica senza usare il vibrato di Bruckner…
Del resto non ci si può aspettare – assistendo ad un'opera di Monteverdi – di ascoltare portamenti e picchettati liberty, o colorature rossiniane e cavate verdiane. Si tratta di "recitar cantando" e la resa del testo e la sua comprensione, hanno la prevalenza sulla musica…ovvio dunque una impostazione vocale differente. Ovviamente non significa "cantare male" o recitare… Tuttavia quel che esce dalla bocca di Bergonzi e Gencer è semplicemente grottesco…
Verissimo Duprez. Però andrebbe aggiunto che il "recitar cantando" dovrebbe essere riservato a interpreti di madre lingua o che abbiano una dizione italiana impeccabile. Se penso a certe edizioni del Combattimento di Tancredi e Clorinda, con tenori tedeschi che cantano "Tankrredi ke Klorrinda un uuomo schdima", li trovo molto, ma molto più grotteschi di Bergonzi (che con questo repertorio non ha nulla a che fare, sia chiaro).
Sono entrambe oscenità…trovo intollerabile il canto impostato e verdiano di Bergonzi in Monteverdi, così come i "teteski"
Non sono affatto d'accordo con Mancini: per eseguire un dato repertorio occorre un linguaggio adeguato. E' inutile e poco coerente cincischiare con la tecnica (e strapparsi i capelli per un passaggio di registro scorretto o una coloratura appannata) e poi ritenere accettabili orchestrone mahleriane per Handel, Mozart o Bach, oppure strumenti modernissimi su cui trascrivere Monteverdi. Sulle voci bisogna intendersi, il recitar cantando NON è melodramma. E bisogna distinguere caso per caso…poi potrà anche piacere la melassa tardo ottocentesca con cui si è interpretato tutto (da Mozart a Puccini), ma da qui a farla passare per verità…
Partendo da alcune interviste rilasciate a quotidiani toscani, Curtis evidentemente voleva trarre dal basso continuo monteverdiano (ovvero l'unica cosa che ci ha lasciato Monteverdi nelle sue "partiture" della "Poppea) un suono nuovo ed una orchestrazione diversa che comprendesse anche strumenti a fiato e ottoni da integrare alla sua edizione critica.
Non trovando questi strumenti nell'ambito dell'orchestra del MMF idonei alla sua "nuova visione", Curtis ha deciso di eliminarli e lasciare il tutto al basso continuo con sporadiche note (due note due) affidate agli archi.
L'orchestrazione con Ottoni e Fiati, se non erro, in passato, ma anche in anni recenti, per quest'opera, è stata già utilizzata.
Marianne
Ma infatti non è un problema filologico l'utilizzo o meno di strumenti a fiato (li usano Vartolo, in modo assai parco, e Gardiner; Cavina invece no)…non c'è un'orchestrazione e si sa che all'epoca delle rappresentazioni, a Venezia, nei teatri pubblici l'orchestra era composta da 8 o 10 strumentisti e non c'erano fiati o percussioni (molto diverso il caso dell'Orfeo, scritto per una corte). Il problema resta l'opportunità di far eseguire questo repertorio su orchestre inadatte (come lo sono quelle moderne) e, nel caso della maggior parte delle orchestre dei teatri italiani, assai scadenti.
Se filologia deve essere allora:
1) Diapason più basso, come nel '600-'700; e va bene.
2) Strumenti originali a ranghi ridotti, a patto che si cerchi di trovare un suono più rotondo, espressivo e meno cigolante, cosa che a Firenze non è stato possibile ottenere con Curtis ed i suoi maestri.
3) Solo perché "in Inghilterra piace fisso" non credo proprio che i suoni fissi siano da associare a questo repertorio. Intendiamoci: non servono Bergonzi e la Nilsson per cantare Monteverdi o Haendel o Vivaldi o Lully o Rameau: servono voci comunque impostate.
La Graham non ha emesso UN SUONO FISSO, ha utilizzato la declamazione monteverdiana con gusto ed espressività, ha "recitato cantando" e "cantato recitando" senza sforzare nulla e senza mai "parlare" e vi assicuro era piacevolissimo, dimostrando che questo repertorio può essere cantato con garbo! Avere anche il diapason basso comporterebbe la scrittura di voci duttili e dai centri un minimo sonori, non di voci evanescenti e intercambiabili.
Almeno così la penso io.
Marianne
Secondo me non è questione di "se filologia dev'essere", ma piuttosto di "se non si fa così non si esegua Monteverdi", però:
1) in realtà il diapason di Monteverdi era più alto del nostro (oscillava tra 440 e 450); ..e quindi se Curtis non l'ha abbassato ha fatto solo una scelta corretta.
2) gli strumenti originali sono condicio sine qua non: tuttavia non so quali rotondità si possano cavare da tiorbe, cembali, arciliuti, organi positivi e archi senza vibrato (che è pacifico non si usasse all'epoca, non essendo Bruckner). Questo non significa "stonature", ma significa comunque un suono aspro e più asciutto, screziato e contrastato… Del resto nell'Incoronazione di Poppea gli strumenti sono chiamati ad un compito diverso rispetto all'epoca successiva: si può giocare sui timbri, sulle associazioni strumentali, su alcuni effetti.
3) non c'entra l'Inghilterra. E' che il suono rotondo e "operistico" mal si accorda al "recitar cantando", proprio per l'importanza dell'intelleggibilità del testo: Monteverdi stesso lo scrive che "l'armonia è serva di oratione" e che la voce non deve perdere la naturalezza del parlato. Ora non credo che si possa tacciare Monteverdi di essere "scorretto" o di essere un "baroccaro". Ripeto: è recitar cantando, non la Manon di Massenet! Ovvio che il suono non deve essere fisso come una sirena, ma neppure può essere accettabile la Nilsson o Bergonzi o la Sutherland (con i relativi orrori di dizione) in un repertorio dove il rapporto testo/musica è opposto a quello odierno. Sarebbe come far cantare Radames a Vasco Rossi. Suvvia, non si può pensare che anche Monteverdi vada eseguito come sarebbe piaciuto a Rossini…
La verità è che questa Incoronazione di Poppea, probabilmente, è stata un'operazione da terzo mondo musicale, senza alcuno scrupolo filologico e mascherando l'inadeguatezza orchestrale con la foglia di fico di Curtis (direttore che è noto per essere "filologico" e che invece è solo noioso). Il fatto che molti si siano annoiati è sintomo di tale scempio: giacché un lavoro di tale ricchezza teatrale e musicale, con un testo splendido per giunta, non può risultare soporifero! A patto di farlo con criterio naturalmente. Il punto è che Monteverdi va eseguito in un certo modo e con musicisti specializzati: altrimenti o è una palla o è una schifezza…
Ps: ti consiglio l'ascolto della versione di Vartolo, ossia Monteverdi come deve essere eseguito…
Ecco, con Curtis il suono non era nemmeno aspro, nemmeno contrastato, nemmeno asciutto, nemmeno screziato: era solo secco, grigio, monotono, ogni suono omologato, come se ci fosse appunto una nota sola ribattuta.
Harnoncourt, Gardiner, Haim sembrano un altro pianeta da questo punto di vista nonostante possano destare perplessità (sia musicale sia filologica) nel loro approccio.
Monteverdi, come tu spieghi puntualmente, sapeva perfettamente per quali voci e tipologie stesse componendo; ma nel 1642 Monteverdi non è più il compositore del "recitar cantando" di "Orfeo" oppure e l'opera, il suo linguaggio, si erano evoluti della "Euridice" di Peri.
Si parla di cantanti diversi, il che non vuol dire appunto suoni fissi e voci senza corpo, poiché questi erano adusi anche al madrigale come al canto gregoriano che comunque impostava le voci.
Ovviamente non sto dicendo che bisogna cantare Monteverdi come Rossini e con le voci come quelle di Bergonzi-Sutherland-Nilsson. Monteverdi sfrutta cantanti differenti dai primi del '600: sfrutta il canto dei castrati, sfrutta il canto di un soprano "nuovo" come Anna Renzi, realizza il Cantar recitando, come spiega Annibale Gianuario, il quale scrive "Nel «parlar cantando» il musicista capta le sonorità e gli accenti emotivi della articolazione verbale realizzando la melodia in senso platonico nei termini fissati dal concetto di imitazione (mimèsi) e secondo due secoli di tradizione umanistica ('400-'500) italiana (Poliziano, Vincenzo Calmeta etc.) – II Pratica -; nel «cantar parlando» si ha invece una unione di parola alla linea musicale più o meno aderente al significato del testo – I Pratica -. In quest'ultimo caso si ricerca un rapporto più o meno stretto fra testo letterario ed espressione musicale, mentre nella II Pratica abbiamo la realizzazione della unicità poesia-musica; e questa non si riscontra nella Incoronazione di Poppea."
Il che non va assolutamente contro o non nega ciò che dice Monteverdi, anzi lo rafforza e lo approfondisce sia a livello stilistico, sia a livello canoro e interpretativo!
Un modo di comporre per la voce, quindi, innovativo rispetto al se stesso pionieristico dei primi lavori e dei "lamenti" ad esempio.
Sul resto concordo in pieno e accetto ben volentieri il consiglio di ascoltare il Monteverdi di Vartolo.
Marianne
Sulla questione della vocalità, il problema della voce impostata/non impostata è una fisima che ci poniamo noi perché i canzonettari – e con loro i baroccari (che altro non sono che canzonettari travestiti da intellettuali) – ci fanno credere che esista una dicotomia tra canto lirico/impostato e canto leggero/naturale. In verità, anche i canzonettari, se vogliono cantare bene e preservare il loro organo, devono studiare la tecnica allo stesso modo in cui dovrebbero studiarla i cantanti d'opera. Finché non esisteva il microfono, non si parlava mai di canto impostato o non impostato, si parlava solo di canto.
Ma è una cosa talmente semplice e banale che mi vergogno a dirla. Esiste forse uno studio del pianoforte "impostato", ed uno no? Si studia forse il violino "impostato", ed il violino "leggero"? La voce è lo strumento per cantare, ed al di là del repertorio, quello strumento funziona in un modo solo.
Il testo non è fondamentale solo in Monteverdi, ma in tutta la musica vocale, poiché il canto non è solo musica ma è anche parola. L'importanza fondamentale della dizione è fatta oggetto di studio in tutti i trattati di canto, dal più antico al più moderno. La dizione della Sutherland è un difetto grave in qualsiasi repertorio (anche in Rossini). L'intelligibilità della parola è fondamentale sempre (dal momento che le opere nell'Ottocento non erano sottotitolate…).
A tal proposito, consiglio l'ascolto del Monteverdi di Teresa Berganza.
P.S. Bergonzi non è affatto orribile. Per cantare Verdi la parola è fondamentale, e Bergonzi in questo è stato un grande esempio, anche se non perfetto.
Aggiungo un'altra considerazione.
Ogni cantante ed ogni complesso orchestrale deve adattarsi all'ambiente in cui la musica viene eseguita. In una chiesa o in un teatro di medie dimensioni, i cantanti baroccari con le loro orchestrine striminzite, non si sentono.
L'organico delle orchestre deve essere commisurato all'ambiente, ed un cantante professionista deve essere in grado di adattarsi alle condizioni più disparate. E' chiaro quindi che per cantare in una stanza, a cappella, non serve avere voce da Otello… Mentre per cantare di fronte ad un pubblico numeroso, in ambienti più ampi, serve inevitabilmente più voce.
Mancini, checché tu ne dica, Monteverdi non è Rossini. Punto. E i madrigali non sono la Norma. Punto di nuovo. Per fare un certo repertorio occorre un certo linguaggio. A meno che tu ne sappia più di Monteverdi (cosa di cui dubito), o non lo accusi di essere un "baroccaro", direi che è inutile cercare di dimostrare l'indimostrabile, ossia la fesseria per cui nel '500 le orchestre usassero il vibrato di Bruckner e i madrigali si cantassero come la Manon di Massenet. Il testo, allora, era il fulcro del teatro, in quanto si parlava di un "parlare intonato" ossia il recitar cantando, poi, con l'Opera Seria, il rapporto cambia.
Quelle che tu chiami orchestrine baroccare, si sentono eccome: ascoltai un ottimo Orfeo a Cremona, eseguito con criteri filologici (ossia gli unici corretti). E di grazia come eseguiresti Monteverdi, con organici verdiani…? E farlo cantare al sapor di lambrusco da Bergonzi? Non è obbligatorio ascoltare Monteverdi. Se il genere non si capisce bisogna farsene una ragione…
La cosa divertente è che da una parte si spacca il capello (e non solo quello) in quattro per trilli, colorature e canto sul fiato…stracciandosi le vesti per la minima incertezza, invocando "stragi e morti" e ululando maledizioni ai tempi di odierna decadenza; dall'altra c'è un menefreghismo totale di ALTRE questioni tecniche fondamentali che dovrebbero avere la medesima rilevanza per l'appassionato consapevole: ossia organici strumentali, altezza del diapason, sonorità di strumenti particolari. Per la cronaca, Mozart, Rossini e Verdi eseguivano le loro opere nei medesimi spazi in cui si eseguono oggi, la fesserie per cui oggi gli organici andrebbero aumentati perchè quelli dell'epoca sarebbero inadeguati è una pura scemenza! Così pure Bach, Handel etc…eseguivano i loro lavori in spazi grandi (e, sembrerà incredibile, senza organici mahleriani).
Caro Mancini mi sa che hai pasticciato un po' e non poco!
Le opere pre-barocche e barocche non vantavano affatto orchestre di millemila elementi, ma erano appunto molto contenute tanto che a volte non si arrivava nemmeno alla decina di strumenti!
Quanto agli spazi, in un altro intervento io stessa parlai della dimensione dei teatri barocchi in Italia e in Inghilterra ed erano luoghi che potevano accogliere centinaia di persone e che all'occorrenza, con opportuni lavori, potevano essere ampliati.
La stessa Pergola, teatro appunto barocco, ne é l'esempio pratico (1000 posti) e la piccola compagnia di Curtis che suonava il basso continuo si sentiva perfettamente così come le voci dei cantanti, che saranno state anche pessime (se escludiamo le tre che mi hanno stupito), ma almeno erano udibili in ogni angolo della sala e si sarebbero udite sia in una chiesa sia nel Teatro Comunale.
C'é anche da dire che opere come "Euridice" di Peri o "Orfeo" ebbero la loro "prima" nei saloni adibiti all'uso di grandi palazzi signorili, come Palazzo Pitti, che non erano esattamente sale da Té, ma nemmeno mastodonti come il Met!
E' vero che il testo é importante per TUTTI i compositori, ma é anche vero che lo stile monteverdiano del recitar-cantanto o cantar-recitando non é assolutamente assimilabile allo stile rossiniano-belliniano-donizettiano che arriverà 200 anni dopo: sono due epoche con esigenze, stili e cantanti diversi.
Ed é per questo che i cantanti da me citati pur non essendo Sutherland, Horne e Bergonzi hanno saputo senza far soffrire cantare con proprietà Monteverdi e padroneggiare lo stile!
Ed é su questo che occorre interrogarsi e approfondire, non é una questione di volume, acuti, voci agili in Rossini che, dunque, possono cantare lo scibile, spazi sconfinati o sgabuzzini, di dizione o di orchestre wagneriane.
Se sai cantare Rossini non é detto che tu abbia le basi automaticamente per padroneggiare lo stile monteverdiano visto che parliamo del primo secolo in cui nacque l'opera!
Marianne
Non comprendo il tono pretestuosamente accanito della vostre risposte.
Non credo di dire una fesseria, quando affermo che la riproduzione sonora della musica, quella barocca in particolare, debba tener conto dei contenitori nei quali avviene, ed avveniva, l'esecuzione musicale. L'impiego di strumenti d'epoca e di organici ridotti, secondo la presunta corretta prassi esecutiva, impone perlomeno una corretta ambientazione. I saloni signorili o i teatrini veneziani del tardo Rinascimento non sono certo paragonabili acusticamente ai teatri ottocenteschi o alle moderne sale da concerto. Se si vuole ripristinare l'organico esatto della prima esecuzione di un'opera barocca, sarebbe necessario rivisitare una sede architettonicamente idonea.
A me per esempio è capitato di assistere ad un concerto di Fabio Biondi, con la sua Europa Galante, all'interno di una chiesa. E posso assicurarvi che non si capiva niente, il suono era tutto confuso e lontanissimo. Lo stesso vale per i cantanti d'estrazione barocchista – e qui ho seri dubbi sulla correttezza della loro prassi tecnico-vocale, fondata in molti casi sulla mancanza di appoggio e vibrazione della voce, aspetto che non trova nessun riscontro nella trattatistica antica: peraltro, io le parole le capisco meglio nel canto di Schipa che nei miagolii baroccari – che nelle chiese non si sentono. La voce dei baroccari funziona solo nella sala d’incisione, con un microfono ben vicino.
Quanto al fatto che Bach lavorasse in spazi grandi, a me non risulta. Gli spazi della Thomaskirche sono tra i più ampi nei quali lui si sia trovato a fare musica, ma si tratta comunque di un ambiente non difficilmente colmabile da un organico piccolo (anche se certamente la musica corale non era eseguita a parti reali). In ogni caso, anche per cantare in questi spazi non si può fare a meno di appoggiare la voce sul fiato, pena l’inudibilità dei solisti. Prima di Lipsia Bach si trovò a lavorare presso la corte di Weimar, nella deliziosa cappella Himmelsburg, poi andata distrutta. Era un ambiente di modeste dimensioni, acusticamente riempibile con pochi strumenti e pochi cantanti.
Ciò che l’ideologia autenticista a volte non riesce a capire, è che nel periodo barocco l’organico di un dato componimento musicale era fissato solo al momento dell’esecuzione, e dipendeva innanzitutto da ragioni contingenti legate all’occasione, al luogo ed alle disponibilità materiali, senza discendere da alcun ideale artistico ed interpretativo.
P.S. nelle incisioni di Vartolo canta Matteuzzi.
So di essere una voce fuori dal coro ma io ho trovato lo spettacolo di Pizzi davvero meraviglioso….forse un po' noiosa la direzione…soprattutto nel primo atto ma , complessivamente l'opera mi ha molto emozionato.
Ma non c'e problema ad essere una voce fuori dal coro, é una opinione in più che può offrire nuovi spunti di discussione. Benvengano.
La vostra discussione, perdonatemi, difetta nel punto essenziale: quel che si faceva era legato al gusto dell'epoca e non si può giudicare il passato con il metro di oggi. Alzi la mano chi non è collassato durante una rappresentazione classica, fosse anche Le Baccanti o l'Edipo Re (due drammi che adoro); non mi venite a dire: "si però i tragici scrivevano pure la musica", perché è evidente che la noia non stia lì. Rubini, ben più recente, era un tenore "zanzara" (cito Bergonzi) che non si sentiva quasi per nulla, ma nessuno ne faceva un dramma. Allo stesso modo tutti giustamente criticano il Mahler ridotto e riorchestrato, ma poi la gran parte degli italici uditori pretende Vivaldi eseguito da un organico di 40 o 60 strumentisti, e possibilmente un ruolo per castrato affidato a Placido Domingo. Io sono un Monteverdi-fanatic, posseggo decine di registrazione dell'Incoronazione, da quelle piratate della versione scaligera di Maderna fino alle ultime di Vartolo (meravigliosa), Curtis, Christies, etc. passando per i grandiosi allestimenti della mitica coppia Harnoncourt-Ponelle e la controversa versione di J. Eliot Gardin; insomma, ne ho viste e sentite di cotte e di crude (pure quella del Real Teatro del 2010, che ho recensito). Alla fine dei conti si deve ammettere che un'opera come l'Incoronazione non possa essere inquadrata, come ci si ostina a fare in Italia, nei canoni di quel che i più credono essere l'"opera": è una rappresentazione musicale che non ha alcunché di melodrammatico, giocata a livello musicale su salti di registro (usati fino a Bellini e poi quasi scomparsi), fioriture fluidissime e recitativi serrati. Io dubito altissimamente che questi effetti possano essere resi dai cantanti moderni (di tecnica moderna intendo), ed infatti anche un Matteuzzi non ha osato cantare Ottone a voce piena, come un melomane di mia conoscenza auspicava, ma giustamente l'ha fatto in falsettone, in un brutto falsettone a dire il vero, che mi lascia preferire infinitamente la resa di Cencic, ch'è di indubbia bellezza. Ma anche qui: non possiamo fare un discorso de gustibus, perché sarebbe improprio, dobbiamo fare un'analisi tecnica. L'autore dell'articolo si meraviglia che Arnalta debba sfalsettare nella famosa ninnananna "Oblivion soave", ma desidero chiedere: ha letto la partitura? Vuol dirci come si dovrebbe sillabare sul La acuto con un tempo lentissimo ed un testo che vuole delicatezza? Lo stesso vale per altri ruoli monteverdiani, come Pisandro, etc.; se oggi esistessero tenori come De Lucia che hanno fatto del falsetto(ne) vera arte, è mio avviso che verrebbero certamente fischiati senza nessun ritegno. Seneca è un ruolo morto con la corda di Basso: se i bassi la smettessero di fare i baritoni ed i baritoni d'improvvisarsi tenori, forse si potrebbe sperare di vederlo rivivere. Nerone è un ruolo scritto per castrato, punto: Ottone può essere sostituito anche da una donna, Nerone no, o si perde davvero il senso del dramma che, come si è notato, è tutto giocato sull'ambiguità; idem per il Nerone-tenore, che non rende sia per la tessitura che per il totale travisamento del testo. Mi dispiace farvelo notare, storcerete il naso, ma è un'ipotesi in cui davvero quel che ci vuole è un falsettista.
Perdonatemi il poema, desideravo solo condividere le mie impressioni, del resto questo è un blog che leggo assiduamente proprio per la bellezza degli articoli ;-).
Ciao Udatorbas e grazie per il tuo interessante intervento e non ti preoccupare della lunghezza.
In realtà nella discussione è emerso proprio questo: cioè queste rappresentazioni hanno motivo di esistere solo se si guarda al passato, al gusto dell'epoca in cui è stata composta l'opera, e alle sue regole, evitando in questo modo di trasformarla in un ibrido barocco-romantico con orchestre di millemila elementi e suono wagnerian-mahleriano.
Il "collasso" durante la serata è da imputare alla lentezza e asetticità di Curtis oltre che al calore disumano della Pergola, che difatti hanno decimato almeno un terzo del pubblico!
Io stessa, poi, non mi sono lamentata del volume delle voci: conosco l'acustica della Pergola e le voci non facevano alcuna fatica a "passare", come ho scritto anche in un mio precedente intervento.
Per quanto riguarda i registri vcali: personalmente eviterei, (oltre che per gusto personale, ma questo è un altro discorso) anche perchè storicamente e filologicamente non venivano proprio usati, l'utilizzo dei falsettisti.
Per loro sono state scritte altre composizioni e la differenza tra il canto di un castrato (dunque con emissione e voce naturale) ed un falsettista era ben chiara fino ad allora, altrimenti lo stesso Monteverdi avrebbe utilizzato un falsettista e non un castrato; il quale difatti veniva, in caso di mancanza, sostituito da una voce femminile grave, cosa difatti auspicabile e ben documentata in discografia!
Non concordo sull'indubbia bellezza della voce di Cencic, ma questo riguarda il mio gusto.
Per quanto riguarda Arnalta e la ninnananna sfalsettata, come ho scritto nella recensione, non mi sono affatto stupita del falsetto: ho sottolineato solo che il brutto falsetto del tenore, nemmeno tanto intonato, non rendesse giustizia al brano, il che è diverso.
In più se si deve cantare in queste condizioni allora meglio sarebbe, anche in questo caso, utilizzare una voce contraltile onde evitare emissioni innaturali e forzate con il rischio di affossare l'intero ruolo
Marianne
Che Rubini fosse un tenore zanzara che non si sentiva quasi per nulla non è assolutamente vero. I si bemolle ed i si naturali di Rubini il caro Bergonzi se li poteva solo sognare.
Per il resto non c'è peggior abominio dell'affidare un ruolo per castrato a gente come Domingo o peggio ancora ai falsettisti. Ricordo che il bando di Caccini risale ai primi del Seicento.
Gentile Marianne Brandt, il mio pessimo carattere e la ristrettezza dello spazio mi hanno reso poco chiaro: molte delle mie obiezioni erano rivolte agli altri interlocutori e non al tuo cortese articolo. Quanto ai tempi di Curtis, purtroppo sono una pecca di (quasi) tutte le versioni moderne del repertorio preromantico: anche Bellini, mio concittadino che conosco bene, è martoriato senza ritegno da tempi lunghissimi o velocissimi, basti guardare alle esecuzioni schizofreniche del coro di guerra della Norma cui siamo stati abituati nell'ultimo secolo. Non mi trovo d'accordo invece riguardo al problema dei ruoli d'Arnalta (e della simile Nutrice) e di Ottone, che a dire il vero presentano caratteristiche complessità che sarebbe troppo lungo elencare ma che sono certo tu stessa conosci. Non è mia intenzione ricadere nell'ormai trita diatriba tra pro-falsetto ed anti-falsetto (tra l'altro gli aut-aut mi sanno di limitatezza artistica, prima di tutto), ma se è vero che la tua osservazione riguardo l'indole del ruolo di Ottone, che non fu pensato certamente per un falsettista, è condivisibile, è pur vero che non giurerei sull'assoluta mancanza di questo genere di voci dalle compagnie monteverdiane. Se già solo facciamo un discorso di chiavi (nella certezza che si noterà in esso una certa approssimazione) notiamo come l'uso della chiave di Alto sia in Monteverdi spesso e volentieri slegato dall'effettiva acutezza della parte; intendo dire che anche Lucano nell'Incoronazione prende un La acuto e va a sillabare sul Sol, ma è scritto in chiave di Tenore. Se leggessimo Arnalta in una chiave ottavizzata probabilmente avremmo la netta impressione che si tratti d'un ruolo prettamente tenorile. Arnalta, tra l'altro, canta note mediamente più gravi di Pisandro ne Il Ritorno d'Ulisse, dove compare anche un famoso Sib acuto: si dica ciò che si vuole, ma se ancora il primo Rubini non possedeva quella nota di petto (o in un qualche simile registro "forte"), è difficile credere che il "tenore acuto" barocco fosse molto diverso da un comune falsettista. Certo, non era forse un falsettista paragonabile a quelli odierni (ma anche qui vi sarebbe da studiare approfonditamente, il che manca) e senza dubbio non adoperava un unico registro, ma è palese che l'effetto doveva essere più simile a questo che alla voce d'un tenore moderno o d'un contralto donna, il cui uso per Arnalta mi pare poco probabile, atteso che nella versione Napoletana la parte risulta definitivamente alzata per divenire sostanzialmente un mezzosoprano (anche nella versione Veneziana del resto vi sono annotazioni d'analogo tenore). Certo, se poi mettiamo in dubbio l'altezza del La, facendolo divenire un Sol#, il problema praticamente scompare, ma i più ritengono che il diapason Monteverdiano fosse davvero a 440 o addirittura a 450, come pure si commentava prima, quindi la portata della questione aumenta sensibilmente. Dirò per me che mi pare assurdo un diapason tanto alto, perché la parte di Nerone con le correzioni apportate a margine del manoscritto veneziano finirebbe per contemplare note assolutamente altissime e non attestate altrove nella letteratura contemporanea.
Quanto ad Ottone è un ruolo palesemente scritto per contralto castrato, cioè – come notava il Tosi – per il soprano che aveva perso gli acuti ed aveva difficoltà già a fare il Do; del resto i castrati, come argutamente s'è notato, erano tutti "soprani", tranne rarissime eccezioni, ed in generale il nome di contralto era usato abusivamente (certo, bisogna vedere che si intende per soprano e per contralto, ma ascoltando il madrigale palestriniano registrato da Moreschi e da un ignoto collega castrato credo possa venirne un'idea). Il fatto che sia stato sovente affidato a tenori sfalsettanti è a mio credere da attribuirsi ad un pionieristico studio di Gaetano Cesari dei primissimi del '900 che fece da preludio ad una parziale esecuzione con alcuni cantori della Sistina (purtroppo nessun castrato, ma l'ottimo Primo Vitti che registrò con Moreschi); il Cesari fu il primo a vedere in Arnalta come in Ottone "un tenore che sappia usare il falsetto" (cito a memoria). In realtà nel secondo caso si sbagliava evidentemente. Quanto alla tua avversione a Cencic, con particolare riferimento a questo ruolo non posso che invitarti, se già non l'hai fatto, ad ascoltarlo, perché a mio avviso è ben superiore alla resa di molti contralti o sedicenti tali; in generale, tra l'altro, devo dire che le critiche mosse a questo cantante, a differenza di quanto avviene per altri falsettisti, sono assai vaghe, anche perché tecnicamente è difficilmente attaccabile. La resa di Matteuzzi a suo tempo è stata invece assai carente, fiatata, davvero vacillante nonostante l'estremo trasporto e le indubbie doti dell'interprete. Ho trovato chi al contrario lodava Matteuzzi e snobbava Cencic: qui è ovvio che si tratti di pregiudizi, e non di giudizi sic et simpliciter. Il falsettista non sarà un surrogato storicamente valido, ma è espressione dei tempi presenti e spesse volte, proprio per pararsi dalle critiche, canta con più attenzione delle voci piene. Del resto vorrei sapere se v'è certezza sull'uso del diaframma ai tempi di Monteverdi, sulla copertura del suono, vibrato, esatta composizione del continuo, etc.; dire che quando mancavano i castrati si usavano donne è parzialmente accettabile, perché quando i castrati mancarono davvero si finì, di certo gradualmente, a non scrivere più parti maschili in chiave di soprano. Ci sarebbe da chiedersi se, con la mentalità pratica dell'epoca, avendo a disposizione le attuali voci controtenorili ne avrebbero fatto qualcosa. Se è vero però che Tancredi fu sempre donna, il Fa sopracuto di Arturo mi lascia sempre il solito dubbio: siamo sicuri che Rubini, la cui voce sembrava in acuto quella d'un castrato a detta dei critici, non sia stato visto piuttosto alla stregua d'un moderno falsettista? E chi ricorda tra i moderni che quando mancava un cantante del medesimo calibro Arturo diveniva improvvisamente un contralto?
Caro udatorbas la storia ci insegna che Monteverdi usasse (tollerandoli) si i falsettisti, ma per ruoli minori e comunque avevano già allora il loro repertorio, come gli oratori, i cori ecclesiastici, certe cantate di Bach, diverso dai castrati e purtroppo molte notizie storiche sui cantanti monteverdiani sono da ricostruire in base ai dati dell'epoca.
Nessuno mette in dubbio la vocalità di Arnalta, ma è appunto una questione di chiavi e se non erro sia Arnalta che la Nutrice sono state scritte in chiave di Do (o sul terzo o sul quarto rigo) quindi accessibile sia a tenori che a contralti: ovviamente si parla di tenori barocchi, diversi per stile e concezione canora dal tenore odierno indubbiamente, che dovevano certamente usare un registro di testa in falsetto, ma, ripeto, QUEL falsetto dell'interprete di Arnalta non era gradevole per nulla oltre che di dubbia intonazione!
E' appurato che il diapason monteverdiano oscilasse tra i 440 ed i 450 Hz e non mi pare ci siano problemi come dimostrano anche le incisioni: il nostro attuale diapason è a 440hz.
Cencic, assieme a tutti i falsettisti di ogni generazione (eccetto Oberlin) ascoltati in tutte le salse, purtroppo non mi piacciono, mi danno proprio fastidio, è più forte di me e non trovo in loro nemmeno quella "grande perizia tecnica" che molti critici giurano e spergiurano ci sia nella loro vocalità; si parla tanto di filologia, allora facciamo cantare loro le composizioni scritte appositamente per la loro voce! Haendel stesso e molti compositori preferivano voci femminili in mancanza di castrati evitando accuratamente l'utilizzo dei falsettisti: se dobbiamo essere filologici allora facciamolo fino in fondo!
Non è pregiudizio, è esperienza di ascolto, buonsenso e storia!
Mi pare anche azzardato mettere castrati-falsettisti-Rubini in un unico calderone: capisco che Rubini avesse timbro chiaro e emettesse le note con il registro di testa "in falsettone"; capisco che all'inizio, secondo le cronache avesse voce piccola; ma lavorò come per alcuni anni pur di dare maggiore spessore e potenza allo strumento privileggiato, e riusciva a raggiungere anche il Si naturale con voce piena ed usava un "falsettone" per i sovracuti!
Azzardare che fosse un falsettista mi pare capzioso perchè allora dovremmo considerare "falsettista" un baritono come Tamburini visto che cantò in falsetto, secondo leggenda, anche la parte della primadonna duettando con se stesso sostituendo Caterina Lipparini gelosa del suo successo!
Bellini scrive CHIARAMENTE in chiave di tenore i ruoli "Rubini": se avesse voluto scrivere per i falsettisti o i castrati, ormai all'epoca in piena decadenza, avrebbe richiesto uno di loro non credi.
Basta attenersi ai fatti.
Semplicemente il "falsetto" di un Rubini e dei tenori a lui contemporanei era a mio parere più simile a quello di un Lauri-Volpi, di un Gigli che riuscivano a legare i suoni di testa al registro centrale in maniera omogenea, come appunto riusciva a fare Rubini secondo le cronache, senza però perdere lo squillo. Nulla di trascendentale, solo ottima tecnica!
Mi piacerebbe che approfondissi la storia dell'Arturo-Contralto, grazie.
Marianne
Per completezza di cronaca e di provocazione cito un ottimo e approfondito pezzo del nostro Antonio Tamburini su Cencic per rispondere al tuo "le critiche mosse a questo cantante, a differenza di quanto avviene per altri falsettisti, sono assai vaghe, anche perché tecnicamente è difficilmente attaccabile.":
http://ilcorrieredellagrisi.blogspot.com/2008/07/max-emanuel-cencic-canta-rossini-atro.html
"La parte, squisitamente contraltile, vede Cencic anche in maggiore affanno rispetto a prima, segnatamente nel recitativo della sortita. Il cantabile "Elena! O tu ch'io chiamo" si segnala per le agilità assai poco fluide (anzi, decisamente ingorgate) e per la difficoltà a legare acuti maldestramente accennati e gravi prossimi all'inesistente (timidi quanto brutti i suoni di petto su "se l'idol mio"), compromettendo così ulteriormente la tenuta dell'intonazione. La cabaletta, staccata dal direttore a tempo garibaldino, sorte un effetto quasi comico: "tutto detesto", che ancora una volta insiste sul registro grave, seguito dai soliti melismi striduli fa pensare al lupo travestito da nonna di Cappuccetto Rosso. Dopo ulteriori gorgoglii di gola spacciati per agilità, suoni faticosi e tirati conducono il pezzo a conclusione (e sommessamente ringraziamo per la schivata puntatura finale). "
E anche
"Per riassumere il contributo offerto da un celebre e celebrato esponente della new wave controtenorile al Belcanto rossiniano: una voce malferma, a disagio nel canto di agilità e senza la cavata necessaria ai passi declamati, stridula in acuto e inesistente nel grave, un interprete indifferente alle indicazioni espressive, estremamente cauto – per non dire latitante – quanto a variazioni e di conseguenza inesistente sotto il profilo interpretativo. Che dire? Avanti così!!!"
Mi pare abbastanza argomentata 😉
Marianne
P.S. Tu scrivi: "se oggi esistessero tenori come De Lucia che hanno fatto del falsetto(ne) vera arte, è mio avviso che verrebbero certamente fischiati senza nessun ritegno".
Non ne sarei così sicuro: molti tenori odierni, anche iperblasonati, sfalsetteggiano senza pudore, con meno perizia tecnica di un De Lucia, Lauri-Volpi o Gigli, e vengono accolti come novelli messia delle "nuances" e sconvolgimenti naturali di portata cosmica.
Probabilmente Haendel, Vivaldi, Monteverdi, Cavalli, Hasse, Lully etc. fischierebbero senza alcun ritegno anche e soprattutto i falsettisti a noi contemporanei trovandoli inaccettabili 😉 chi lo può dire