Cenerentola torna a Bologna per la terza volta in meno di vent’anni e per la terza volta con un allestimento scenico differente. Dato che la produzione di Roberto de Simone riposa giustamente in magazzino dopo essere stato ripresa in svariate occasioni (mai, salvo che per una tournée giapponese), ed essendo quella griffata Irina Brook un’importazione da altri teatri, si è pensato bene di ricorrere a un nuovo allestimento, affidato anche stavolta a un figlio d’arte (papà!), Daniele Abbado. Scelta obbligata quella della bacchetta, essendo Michele Mariotti non solo il direttore principale del teatro, ma soprattutto l’erede di quella tradizione esegetica che, archiviata per sempre l’ingombrante stagione degli anni Ottanta, attivamente provvede, con l’ausilio della terza e in parte anche della quarta generazione di esecutori rossiniani, a disegnare gli scenari presenti e futuri dell’interpretazione del genio pesarese.
Lo spettacolo presentato al Comunale è il fedele specchio e l’esatto compendio del portato filologico, esecutivo e di conseguenza interpretativo delle più recenti stagioni del Rof, e questo non solo per la presenza in palcoscenico (con una sola eccezione, almeno nelle prime parti) di cantanti tutti regolarmente coinvolti nelle produzioni del festival adriatico.
Innanzitutto la bacchetta. Al solito, ci ripetiamo e non potremmo fare altrimenti, atteso che le caratteristiche delle letture rossiniane del giovane Mariotti permangono le medesime di anno in anno e produzione dopo produzione. E quindi ancora una volta rileviamo come non abbia senso avviare un crescendo partendo dal mezzoforte, perché siffatta limitazione della gamma dinamica immiserisce la struttura della frase e di conseguenza il suo impatto. Osserviamo quindi che la riproposta tenace e costante, in sede di cadenza e di coda orchestrale, di soluzioni, quale un improvviso stentando seguiti da un repentino accelerando, finisca per conferire alla musica un carattere monotono e squadrato, peggio che se l’esecuzione fosse rigidamente metronomica. Ripetiamo anche qui sino allo sfinimento che la principale difficoltà di pagine quali il finale primo e il temporale non risiede nella necessità di tenere il tempo (altra esigenza non banale, che l’altra sera si è manifestata segnatamente nel tempo di mezzo del sestetto), ma in quella di trovare un colore orchestrale consono alla musica e alla circostanza drammatica. Annotiamo infine, e questa è la vera novità della serata, come l’imitazione del gesto di Abbado (papà!), presente fin dagli esordi, si stia fondendo a un’attiva partecipazione alle dinamiche dello spettacolo, il che porta il direttore non solo a indicare gli attacchi sospirando rumorosamente e bofonchiando, ma ad accompagnare i solisti canticchiando spesso in maniera percettibile. Insomma Abbado e Daniel Oren si danno idealmente la mano per il tramite del maestro Mariotti.
Le note più amare vengono però dal palcoscenico, e non parliamo solo delle sorellastre, signore Markova e Bridelli, che a lungo dovrebbero ancora studiare e meditare, onde evitare i suoni emessi ad esempio sul la4 nel concertato all’entrata di Dandini e nel finale primo. Fra l’altro siamo grati al direttore di avere risparmiato a questa Clorinda e di conseguenza al pubblico l’aria del sorbetto. In questa scelta ravvisiamo prudenza e autocoscienza, assenti in una recentissima edizione del festival pesarese.
Medesima prudenza e analoga autocoscienza sono però mancate nella riproposta della grandiosa aria di Alidoro. Come si sa il brano fu composto da Rossini per una ripresa del titolo, in luogo del più abbordabile assolo concepito per la prima romana dal collaboratore Luca Agolini, che sapeva di non poter disporre che di un mediocre cantante. Peraltro l’esecuzione di Lorenzo Regazzo avrebbe giustificato non solo la soppressione dell’aria (rossiniana o d’altra mano), ma severi tagli equamente distribuiti lungo tutta la partitura. Voce a stento udibile oltre le prime file di platea, come accade a chi non canti sul fiato e non possegga dote naturale in grado di compensare le carenze tecniche, riduce la coloratura a un borbottio indistinto e risulta marcatamente bianca e spoggiata in acuto. Come questo cantante possa affrontare regolarmente, e con il pieno consenso di critica e pubblico, il repertorio rossiniano e mozartiano, togliendosi pure lo sfizio di alternare Leporello e Don Giovanni, è cosa che desta meraviglia, per non dire altro.
Voci di maggiore impatto quelle degli altri due bassi, Paolo Bordogna e Simone Alberghini, che poi bassi in senso stretto non sono, da partitura, cantando per quasi tutta la sera (Dandini soprattutto) nella zona superiore della voce, con abbondanza di mi e fa acuti. Di maggiore impatto non significa ipso facto penetranti e sonore. Nel caso in questione abbiamo due voci che sarebbero di tenore centrale, se i possessori sapessero correttamente respirare (è sufficiente osservare i movimenti, o meglio l’immobilità, della regione toracica per verificarlo) e di conseguenza effettuare il passaggio di registro. Il risultato è che in zona acuta si manifestano suoni chiocci e spesso stonacchianti, l’esecuzione della coloratura risulta abborracciata come neanche nelle vituperate esecuzioni pre-Rossini Renaissance, la corretta scansione del sillabato si riduce (specie nel finale della terza aria di Bordogna) a una pia illusione. Detto questo va rilevato come i due cantanti recitino con convinzione e innegabile abilità, specie nel duettone, ma questo non può bastare a riscattare le sorti della serata.
Le cose vanno significativamente meglio per l’altra voce maschile del cast. Rispetto all’Otello di tre anni fa, Michael Spyres sembra avere irrobustito la voce, specie nel registro basso, seppur con occasionali opacità. Il passaggio superiore non è altrettanto sicuro, il che produce ancora, specie nel duetto con Cenerentola, suoni talora bianchi e un po’ aperti, e impedisce al cantante di salire con sistematica facilità agli acuti. L’impressione è che il passaggio sia risolto in maniera non sufficientemente meditata, e solamente quando l’operazione riesce, la voce abbia agio di espandersi in tutta la sua potenzialità (sibem3 “in me la speme accende” al finale primo, di certo il suono più penetrante udito nell’intera serata). Molto bella la sezione centrale dell’aria, in cui Spyres riesce a fraseggiare e a cantare piano senza risultare eunucoide o smanceroso come certi Ramiri del passato e del presente. Senza contare che la voce svetta decisamente sugli altri solisti in tutti gli ensemble (salvo che nel duettino con Dandini all’inizio del finale primo). Se la voce trovasse il corretto sfogo in acuto, il cantante potrebbe anche riconsiderare i propri impegni in ruoli di scrittura marcatamente centrale, che col tempo potrebbero risultare eccessivamente onerosi per la sua voce e comprometterne le qualità.
Quanto alla protagonista, Laura Polverelli, anche qui dobbiamo ripetere le impressioni negative registrate due anni fa al festival di Pesaro. La voce risulta microbica, ancor più di quella di Regazzo, specie in fascia medio-bassa. Più sonora in acuto, una volta superato il proverbiale “scalino” che qui si manifesta attorno al do3 (fin dall’Andantino “Una volta c’era un re”), e viene da chiedersi se non siamo in presenza di un soprano lirico che, non sapendo eseguire gli acuti, canta da mezzosoprano quando non da contralto. L’emissione veristeggiante è quanto mai inadatta al personaggio innocente e trasognato, mentre nella scena della festa si apprezza (si fa per dire) l’incapacità d’infondere al canto quel minimo di compostezza ed eleganza che la situazione esigerebbe, e altrettanto dicasi per le perorazioni rivolte rispettivamente al patrigno e allo sposo, con tanto di esecuzione aspirata della coloratura e acuti ghermiti (esempi: sol4 “portatemi a ballar” e la4 in cadenza “qualche amor per me portate”). Al rondò si somma la stanchezza e ne derivano i bofonchiamenti (con significativi sconti sulle quartine vocalizzate previste) e le urla sul si4 che la radio ha impietosamente trasmesso. Non si saranno forse colti i buh (due di numero) che hanno salutato questa esecuzione a dir poco surreale del finale dell’opera e che hanno persuaso i solisti a presentarsi alla ribalta tutti assieme, a prevenire possibili nuove contestazioni. Poi ha prevalso l’onestà e la corretta assunzione di responsabilità (a differenza di quanto avvenuto a Milano pochi giorni addietro) e si sono svolte le singole, peraltro non funestate da rinnovati “incidenti”. Successo pieno per tutti, con sporadici dissensi per il team registico. A volte più del salvagente conta… il parafulmine!
Lo spettacolo presentato al Comunale è il fedele specchio e l’esatto compendio del portato filologico, esecutivo e di conseguenza interpretativo delle più recenti stagioni del Rof, e questo non solo per la presenza in palcoscenico (con una sola eccezione, almeno nelle prime parti) di cantanti tutti regolarmente coinvolti nelle produzioni del festival adriatico.
Innanzitutto la bacchetta. Al solito, ci ripetiamo e non potremmo fare altrimenti, atteso che le caratteristiche delle letture rossiniane del giovane Mariotti permangono le medesime di anno in anno e produzione dopo produzione. E quindi ancora una volta rileviamo come non abbia senso avviare un crescendo partendo dal mezzoforte, perché siffatta limitazione della gamma dinamica immiserisce la struttura della frase e di conseguenza il suo impatto. Osserviamo quindi che la riproposta tenace e costante, in sede di cadenza e di coda orchestrale, di soluzioni, quale un improvviso stentando seguiti da un repentino accelerando, finisca per conferire alla musica un carattere monotono e squadrato, peggio che se l’esecuzione fosse rigidamente metronomica. Ripetiamo anche qui sino allo sfinimento che la principale difficoltà di pagine quali il finale primo e il temporale non risiede nella necessità di tenere il tempo (altra esigenza non banale, che l’altra sera si è manifestata segnatamente nel tempo di mezzo del sestetto), ma in quella di trovare un colore orchestrale consono alla musica e alla circostanza drammatica. Annotiamo infine, e questa è la vera novità della serata, come l’imitazione del gesto di Abbado (papà!), presente fin dagli esordi, si stia fondendo a un’attiva partecipazione alle dinamiche dello spettacolo, il che porta il direttore non solo a indicare gli attacchi sospirando rumorosamente e bofonchiando, ma ad accompagnare i solisti canticchiando spesso in maniera percettibile. Insomma Abbado e Daniel Oren si danno idealmente la mano per il tramite del maestro Mariotti.
Le note più amare vengono però dal palcoscenico, e non parliamo solo delle sorellastre, signore Markova e Bridelli, che a lungo dovrebbero ancora studiare e meditare, onde evitare i suoni emessi ad esempio sul la4 nel concertato all’entrata di Dandini e nel finale primo. Fra l’altro siamo grati al direttore di avere risparmiato a questa Clorinda e di conseguenza al pubblico l’aria del sorbetto. In questa scelta ravvisiamo prudenza e autocoscienza, assenti in una recentissima edizione del festival pesarese.
Medesima prudenza e analoga autocoscienza sono però mancate nella riproposta della grandiosa aria di Alidoro. Come si sa il brano fu composto da Rossini per una ripresa del titolo, in luogo del più abbordabile assolo concepito per la prima romana dal collaboratore Luca Agolini, che sapeva di non poter disporre che di un mediocre cantante. Peraltro l’esecuzione di Lorenzo Regazzo avrebbe giustificato non solo la soppressione dell’aria (rossiniana o d’altra mano), ma severi tagli equamente distribuiti lungo tutta la partitura. Voce a stento udibile oltre le prime file di platea, come accade a chi non canti sul fiato e non possegga dote naturale in grado di compensare le carenze tecniche, riduce la coloratura a un borbottio indistinto e risulta marcatamente bianca e spoggiata in acuto. Come questo cantante possa affrontare regolarmente, e con il pieno consenso di critica e pubblico, il repertorio rossiniano e mozartiano, togliendosi pure lo sfizio di alternare Leporello e Don Giovanni, è cosa che desta meraviglia, per non dire altro.
Voci di maggiore impatto quelle degli altri due bassi, Paolo Bordogna e Simone Alberghini, che poi bassi in senso stretto non sono, da partitura, cantando per quasi tutta la sera (Dandini soprattutto) nella zona superiore della voce, con abbondanza di mi e fa acuti. Di maggiore impatto non significa ipso facto penetranti e sonore. Nel caso in questione abbiamo due voci che sarebbero di tenore centrale, se i possessori sapessero correttamente respirare (è sufficiente osservare i movimenti, o meglio l’immobilità, della regione toracica per verificarlo) e di conseguenza effettuare il passaggio di registro. Il risultato è che in zona acuta si manifestano suoni chiocci e spesso stonacchianti, l’esecuzione della coloratura risulta abborracciata come neanche nelle vituperate esecuzioni pre-Rossini Renaissance, la corretta scansione del sillabato si riduce (specie nel finale della terza aria di Bordogna) a una pia illusione. Detto questo va rilevato come i due cantanti recitino con convinzione e innegabile abilità, specie nel duettone, ma questo non può bastare a riscattare le sorti della serata.
Le cose vanno significativamente meglio per l’altra voce maschile del cast. Rispetto all’Otello di tre anni fa, Michael Spyres sembra avere irrobustito la voce, specie nel registro basso, seppur con occasionali opacità. Il passaggio superiore non è altrettanto sicuro, il che produce ancora, specie nel duetto con Cenerentola, suoni talora bianchi e un po’ aperti, e impedisce al cantante di salire con sistematica facilità agli acuti. L’impressione è che il passaggio sia risolto in maniera non sufficientemente meditata, e solamente quando l’operazione riesce, la voce abbia agio di espandersi in tutta la sua potenzialità (sibem3 “in me la speme accende” al finale primo, di certo il suono più penetrante udito nell’intera serata). Molto bella la sezione centrale dell’aria, in cui Spyres riesce a fraseggiare e a cantare piano senza risultare eunucoide o smanceroso come certi Ramiri del passato e del presente. Senza contare che la voce svetta decisamente sugli altri solisti in tutti gli ensemble (salvo che nel duettino con Dandini all’inizio del finale primo). Se la voce trovasse il corretto sfogo in acuto, il cantante potrebbe anche riconsiderare i propri impegni in ruoli di scrittura marcatamente centrale, che col tempo potrebbero risultare eccessivamente onerosi per la sua voce e comprometterne le qualità.
Quanto alla protagonista, Laura Polverelli, anche qui dobbiamo ripetere le impressioni negative registrate due anni fa al festival di Pesaro. La voce risulta microbica, ancor più di quella di Regazzo, specie in fascia medio-bassa. Più sonora in acuto, una volta superato il proverbiale “scalino” che qui si manifesta attorno al do3 (fin dall’Andantino “Una volta c’era un re”), e viene da chiedersi se non siamo in presenza di un soprano lirico che, non sapendo eseguire gli acuti, canta da mezzosoprano quando non da contralto. L’emissione veristeggiante è quanto mai inadatta al personaggio innocente e trasognato, mentre nella scena della festa si apprezza (si fa per dire) l’incapacità d’infondere al canto quel minimo di compostezza ed eleganza che la situazione esigerebbe, e altrettanto dicasi per le perorazioni rivolte rispettivamente al patrigno e allo sposo, con tanto di esecuzione aspirata della coloratura e acuti ghermiti (esempi: sol4 “portatemi a ballar” e la4 in cadenza “qualche amor per me portate”). Al rondò si somma la stanchezza e ne derivano i bofonchiamenti (con significativi sconti sulle quartine vocalizzate previste) e le urla sul si4 che la radio ha impietosamente trasmesso. Non si saranno forse colti i buh (due di numero) che hanno salutato questa esecuzione a dir poco surreale del finale dell’opera e che hanno persuaso i solisti a presentarsi alla ribalta tutti assieme, a prevenire possibili nuove contestazioni. Poi ha prevalso l’onestà e la corretta assunzione di responsabilità (a differenza di quanto avvenuto a Milano pochi giorni addietro) e si sono svolte le singole, peraltro non funestate da rinnovati “incidenti”. Successo pieno per tutti, con sporadici dissensi per il team registico. A volte più del salvagente conta… il parafulmine!
Gli ascolti
Rossini – La Cenerentola
Atto I
Miei rampolli femminini – Cristiano Dalamangas (1949), Italo Tajo (1953)
Come un’ape nei giorni d’aprile – Afro Poli (1948), Saturno Meletti (1949)
Sprezzo quei don che versa – Giulietta Simionato (1949)
Atto II
Sì, ritrovarla io giuro – Chris Merritt (1988)
Temporale – Bruno Bartoletti (1967)
Sentendo alla radio questa Cenerentola, l'unico che mi è piaciuto è stato Spyres.
Gli altri cantanti, che tornino a studiare o eseguire ariette da camera prima di affrontare Rossini.
Ma che grande Afro Poli!!!
Come mai nella foto è stata messa la tomba di Rossini in Santa Croce????
Presagio di morte dell'opera????
I presagi riguardano eventi futuri ed incerti, la morte dell'opera è un fatto presente ed accertato.
non esagerare Mancini l'opera non è morta finche viene rappresentata.
Si puo criticare come e quando si vuole,ma proprio perche si critica l'opera è viva..
su ottimismo!
Qualche timido bu oggi alla pomeridiana con il secondo cast: infatti c'è clacque ovunque, specialmente intenta ad osannare Mariotti.
Vergognoso il mumero circense del saluto finale: prendersi dalle mani e correre a buttarsi sopra l'orchesta! Due volte! E la seconda con applausi ritmati da parte del "pubblico"! (volevo dire la sterminata claque). Ma non c'è più contegno? Siamo arrivati ad un punto in cui non c'è nessun rispetto per il pubblico che paga il biglietto e si comporta civilmente in teatro.
non farci caso e la musica di Rossini che fa questo effetto…