Dopo il buon successo dell’Oberto, la seconda opera di Verdi fu un fiasco completo. L’agiografia ufficiale del “cigno di Bussetto”, nonché la vulgata più comune e superficiale, hanno cercato di attribuire le ragioni di tale débâcle a circostanze contingenti, come il poco tempo a disposizione e la vetustà del libretto, ovvero agli avvenimenti luttuosi che afflissero Verdi in quel periodo della sua vita (la morte della prima moglie e dei due figli). In realtà i motivi dell’insuccesso stanno tutti nell’inesperienza del compositore e nelle carenze tecniche dovute ad una formazione quasi da autodidatta, oltre che dall’impaccio nel gestire le rigide convenzioni che ancora governavano il mondo dell’opera (quella buffa in particolare).
L’opera italiana, negli anni ’40, si trovava in una situazione critica: il grave ritardo culturale rispetto al resto d’Europa, aveva rinchiuso la fantasia dei compositori nella routine dell’innocua ripetizione di formule e convenzioni (che affondavano le radici nel secolo precedente), trasformandoli più in mestieranti, in abili artigiani, piuttosto che musicisti. Bellini e Donizetti avevano spostato da tempo il loro campo d’azione (l’uno nell’aldilà, l’altro a Parigi e Vienna) e mancavano personalità tali da raccoglierne l’eredità. Ancora venivano ripetuti i vecchi schemi rossiniani (senza ovviamente, riuscire a replicarne l’originalità e perfezione), soprattutto nell’opera comica che pareva del tutto impermeabile alle novità (strutturali, caratteriali, orchestrali) che stavano rivoluzionando la musica europea.
Certo non mancarono i capolavori, come Sonnambula (1831), Elisir d’Amore (1832), Don Pasquale (1843), caratterizzati tutti, però, da un uso spregiudicato di quelle vecchie convenzioni, giocando con l’ambiguità, le sfumature, i toni e la sapienza compositiva. Il resto – ossia la musica di largo consumo – non aveva pretese maggiori di un innocuo svago. Tuttavia quei compositori minori che riempivano le stagioni dei tanti teatri della penisola, possedevano qualcosa che al povero Verdi faceva difetto: mestiere e conoscenza del pubblico. Nel 1840, pur nell’utilizzo delle sclerotizzate formule del secolo precedente, non era pensabile accontentarsi di melodie brillanti ed effettacci bandistici (che pure non mancavano mai): il pubblico voleva anche leggerezza e grazia, non certo la stanca riproduzione (malriuscita) delle carambole rossiniane. Il libretto di Un Giorno di Regno – dalla solita vulgata additato come principale responsabile dell’insuccesso dell’opera – è in realtà del tutto analogo a quelli usati nel periodo (con risultati più lusinghieri): non è nuovo (risale al 1818), non è un capolavoro, ma è ben congeniato (certo, Romani lo scrisse quando trionfava l’opera buffa di Rossini e il distacco temporale è ben percepibile: soprattutto nella distribuzione interna di arie e concertati).
La trama è abbastanza lineare e semplice mentre la struttura rispetta le esigenze estetiche dell’epoca in cui venne predisposto: protagonista (e motore della vicenda, attraverso equivoci e stratagemmi) un baritono un po’ cialtrone che si finge sovrano di Polonia; due primedonne intraprendenti, emancipate e per nulla rassegnate (modellate sulla Rosina del Barbiere), l’una giovane vedova innamorata del baritono di cui teme le infedeltà, l’altra, figlia dell’immancabile basso buffo (che progetta di sposarla, suo malgrado, ad un vecchio, altro basso, per vantaggi meramente economici), innamorata, corrisposta, del classico tenore “piagnucoloso” con la testa tra le nuvole. Alla fine, dopo i consueti intrecci, “i nodi vengono al pettine”, il finto Stanislao sveste i panni del re e si riconcilia con l’amante, mentre i giovani, finalmente, possono sposarsi senza più ostacoli e i vecchi fanno buon viso a cattivo gioco. Un materiale innocuo, dunque, per nulla diverso dalla maggior parte dei titoli del periodo (lo stesso Don Pasquale, con il topos del vecchio rimbambito che si crede ancora giovane e aitante e si lascia buggerare da tutti, sino all’agrodolce finale, non è certo più originale: anzi, risale alla tradizione dell’opera buffa napoletana, anche se la materia è poi trattata con una sensibilità modernissima), e che non può essere l’unico colpevole dei difetti dell’opera. La strumentazione – giudicata vittima della fretta compositiva (ancora una volta si cercano scuse alle mancanze verdiane) – è certo rozza, bandistica, triviale, primitiva, stracolma di errori e ingenuità (avrebbe fatto ribrezzo a Donizetti), ma non è peggiore della stragrande maggioranza delle partiture coeve: dai fratelli Ricci (lo stesso Crispino e la Comare, del 1850, non è certo un trattato di orchestrazione: anche se, nonostante il vuoto spinto di contenuti musicali e l’uso pedissequo di formule abusate, resta un capolavoro di ironia) a Petrella, da Cagnoni a Mercadante.
Cosa manca quindi? Lo si capisce dal semplice ascolto, a cominciare dalla Sinfonia. La musica è brillante, orecchiabile, di gusto primitivo, ma accattivante. L’Introduzione, con il coro come da prassi, è ugualmente piacevole: la musica è movimentata e l’orchestra saltellante. Il problema è che questo sarà l’unico colore della partitura: una generica allegria, marcette, ritmi scanditi con la vanga, impasti timbrici da banda di paese…dopo dieci minuti ci si annoia. Arie, cabalette, cori, pezzi d’insieme sono tutti movimentati e ripetitivi, manca il lato patetico (anche nei punti in cui le convenzioni lo imporrebbero): l’intento di imitare Rossini e certi tormentoni donizettiani è evidente (sino all’eccesso). Per non parlare dell’imbarazzo nell’imbattersi, nel 1840, nei recitativi secchi al cembalo (Rossini li abbandonò a partire da Elisabetta, regina d’Inghilterra, ossia più di 20 anni prima): tanto per fare paragoni, Wagner, in quegli anni, stava ultimando Rienzi e iniziando Die Fliegende Hollander. A ciò si aggiungano gli “strafalcioni” musicali dell’autore inesperto. “Lavoro da apprendista” lo giudicherà il Budden, e pure la critica del tempo non avrà parole più lusinghiere. In qualche brano emerge – ovviamente – l’ombra di quel che diverrà lo stile verdiano, ma è più un miraggio che si percepisce a posteriori. Così pure talvolta traspare un trattamento più delicato e originale della materia musicale: il bel tema lirico del sestetto del primo atto; la melodia del cantabile del tenore all’inizio del secondo atto o l’andante della Marchesa Del Poggio e poco altro.
Eppure Un giorno di Regno è un passo avanti rispetto ad Oberto: e le ragioni del fiasco, dunque? Non certo i lutti (peraltro la leggenda ha forzato la realtà dei fatti: i due figli morirono nel ’38 e nel 39, addirittura prima dello stesso Oberto, che, evidentemente, non ne risentì), non la fretta e neppure il libretto di Romani, ma perché, come suggerisce il Budden, “non vi è nessuna crescente marea di emozioni drammatiche che lo trasporti al di là delle goffaggini armoniche, e naturalmente il pubblico cominciò a innervosirsi, non tanto al ricordo delle opere degli altri compositori, quanto alla loro superiore abilità”. Un giorno di Regno andò in scena alla Scala la sera del 5 settembre 1840: il pubblico ne decretò il fiasco completo. Senza appello, giacché l’opera non sopravvisse alla prima. Dopo 40 anni il rancoroso e presuntuoso Verdi ritornò a quella sua sfortunata creazione (dopo che già nel ’59 lamentò con Ricordi l’atteggiamento del pubblico milanese che “maltrattava l’opera di un povero malato”), e ancora una volta per autoassolversi, attribuendo parte dell’insuccesso alla musica e parte all’esecuzione (affermazione curiosa, poiché la stessa compagnia, poche settimane prima, eseguiva con esito trionfale Il Templario di Nicolai: opera di assoluta mediocrità). Evidentemente non riusciva ad ammettere i fallimenti (e da ciò l’addossare la colpa ad altri o le scuse predisposte a tavolino). L’opera, però, andò in scena di nuovo – ribattezzata Il finto Stanislao – a Venezia, 4 anni dopo, e piacque (come pure nel ’49 a Napoli), ma allora Verdi era già Verdi, c’era stato il trionfo di Nabucco, Lombardi ed Ernani, e il pubblico fu più indulgente e meglio disposto a trovare (pur con fatica) scampoli e preavvisi di un “nuovo stile” che, nel frattempo, aveva imparato ad amare.
L’opera italiana, negli anni ’40, si trovava in una situazione critica: il grave ritardo culturale rispetto al resto d’Europa, aveva rinchiuso la fantasia dei compositori nella routine dell’innocua ripetizione di formule e convenzioni (che affondavano le radici nel secolo precedente), trasformandoli più in mestieranti, in abili artigiani, piuttosto che musicisti. Bellini e Donizetti avevano spostato da tempo il loro campo d’azione (l’uno nell’aldilà, l’altro a Parigi e Vienna) e mancavano personalità tali da raccoglierne l’eredità. Ancora venivano ripetuti i vecchi schemi rossiniani (senza ovviamente, riuscire a replicarne l’originalità e perfezione), soprattutto nell’opera comica che pareva del tutto impermeabile alle novità (strutturali, caratteriali, orchestrali) che stavano rivoluzionando la musica europea.
Certo non mancarono i capolavori, come Sonnambula (1831), Elisir d’Amore (1832), Don Pasquale (1843), caratterizzati tutti, però, da un uso spregiudicato di quelle vecchie convenzioni, giocando con l’ambiguità, le sfumature, i toni e la sapienza compositiva. Il resto – ossia la musica di largo consumo – non aveva pretese maggiori di un innocuo svago. Tuttavia quei compositori minori che riempivano le stagioni dei tanti teatri della penisola, possedevano qualcosa che al povero Verdi faceva difetto: mestiere e conoscenza del pubblico. Nel 1840, pur nell’utilizzo delle sclerotizzate formule del secolo precedente, non era pensabile accontentarsi di melodie brillanti ed effettacci bandistici (che pure non mancavano mai): il pubblico voleva anche leggerezza e grazia, non certo la stanca riproduzione (malriuscita) delle carambole rossiniane. Il libretto di Un Giorno di Regno – dalla solita vulgata additato come principale responsabile dell’insuccesso dell’opera – è in realtà del tutto analogo a quelli usati nel periodo (con risultati più lusinghieri): non è nuovo (risale al 1818), non è un capolavoro, ma è ben congeniato (certo, Romani lo scrisse quando trionfava l’opera buffa di Rossini e il distacco temporale è ben percepibile: soprattutto nella distribuzione interna di arie e concertati).
La trama è abbastanza lineare e semplice mentre la struttura rispetta le esigenze estetiche dell’epoca in cui venne predisposto: protagonista (e motore della vicenda, attraverso equivoci e stratagemmi) un baritono un po’ cialtrone che si finge sovrano di Polonia; due primedonne intraprendenti, emancipate e per nulla rassegnate (modellate sulla Rosina del Barbiere), l’una giovane vedova innamorata del baritono di cui teme le infedeltà, l’altra, figlia dell’immancabile basso buffo (che progetta di sposarla, suo malgrado, ad un vecchio, altro basso, per vantaggi meramente economici), innamorata, corrisposta, del classico tenore “piagnucoloso” con la testa tra le nuvole. Alla fine, dopo i consueti intrecci, “i nodi vengono al pettine”, il finto Stanislao sveste i panni del re e si riconcilia con l’amante, mentre i giovani, finalmente, possono sposarsi senza più ostacoli e i vecchi fanno buon viso a cattivo gioco. Un materiale innocuo, dunque, per nulla diverso dalla maggior parte dei titoli del periodo (lo stesso Don Pasquale, con il topos del vecchio rimbambito che si crede ancora giovane e aitante e si lascia buggerare da tutti, sino all’agrodolce finale, non è certo più originale: anzi, risale alla tradizione dell’opera buffa napoletana, anche se la materia è poi trattata con una sensibilità modernissima), e che non può essere l’unico colpevole dei difetti dell’opera. La strumentazione – giudicata vittima della fretta compositiva (ancora una volta si cercano scuse alle mancanze verdiane) – è certo rozza, bandistica, triviale, primitiva, stracolma di errori e ingenuità (avrebbe fatto ribrezzo a Donizetti), ma non è peggiore della stragrande maggioranza delle partiture coeve: dai fratelli Ricci (lo stesso Crispino e la Comare, del 1850, non è certo un trattato di orchestrazione: anche se, nonostante il vuoto spinto di contenuti musicali e l’uso pedissequo di formule abusate, resta un capolavoro di ironia) a Petrella, da Cagnoni a Mercadante.
Cosa manca quindi? Lo si capisce dal semplice ascolto, a cominciare dalla Sinfonia. La musica è brillante, orecchiabile, di gusto primitivo, ma accattivante. L’Introduzione, con il coro come da prassi, è ugualmente piacevole: la musica è movimentata e l’orchestra saltellante. Il problema è che questo sarà l’unico colore della partitura: una generica allegria, marcette, ritmi scanditi con la vanga, impasti timbrici da banda di paese…dopo dieci minuti ci si annoia. Arie, cabalette, cori, pezzi d’insieme sono tutti movimentati e ripetitivi, manca il lato patetico (anche nei punti in cui le convenzioni lo imporrebbero): l’intento di imitare Rossini e certi tormentoni donizettiani è evidente (sino all’eccesso). Per non parlare dell’imbarazzo nell’imbattersi, nel 1840, nei recitativi secchi al cembalo (Rossini li abbandonò a partire da Elisabetta, regina d’Inghilterra, ossia più di 20 anni prima): tanto per fare paragoni, Wagner, in quegli anni, stava ultimando Rienzi e iniziando Die Fliegende Hollander. A ciò si aggiungano gli “strafalcioni” musicali dell’autore inesperto. “Lavoro da apprendista” lo giudicherà il Budden, e pure la critica del tempo non avrà parole più lusinghiere. In qualche brano emerge – ovviamente – l’ombra di quel che diverrà lo stile verdiano, ma è più un miraggio che si percepisce a posteriori. Così pure talvolta traspare un trattamento più delicato e originale della materia musicale: il bel tema lirico del sestetto del primo atto; la melodia del cantabile del tenore all’inizio del secondo atto o l’andante della Marchesa Del Poggio e poco altro.
Eppure Un giorno di Regno è un passo avanti rispetto ad Oberto: e le ragioni del fiasco, dunque? Non certo i lutti (peraltro la leggenda ha forzato la realtà dei fatti: i due figli morirono nel ’38 e nel 39, addirittura prima dello stesso Oberto, che, evidentemente, non ne risentì), non la fretta e neppure il libretto di Romani, ma perché, come suggerisce il Budden, “non vi è nessuna crescente marea di emozioni drammatiche che lo trasporti al di là delle goffaggini armoniche, e naturalmente il pubblico cominciò a innervosirsi, non tanto al ricordo delle opere degli altri compositori, quanto alla loro superiore abilità”. Un giorno di Regno andò in scena alla Scala la sera del 5 settembre 1840: il pubblico ne decretò il fiasco completo. Senza appello, giacché l’opera non sopravvisse alla prima. Dopo 40 anni il rancoroso e presuntuoso Verdi ritornò a quella sua sfortunata creazione (dopo che già nel ’59 lamentò con Ricordi l’atteggiamento del pubblico milanese che “maltrattava l’opera di un povero malato”), e ancora una volta per autoassolversi, attribuendo parte dell’insuccesso alla musica e parte all’esecuzione (affermazione curiosa, poiché la stessa compagnia, poche settimane prima, eseguiva con esito trionfale Il Templario di Nicolai: opera di assoluta mediocrità). Evidentemente non riusciva ad ammettere i fallimenti (e da ciò l’addossare la colpa ad altri o le scuse predisposte a tavolino). L’opera, però, andò in scena di nuovo – ribattezzata Il finto Stanislao – a Venezia, 4 anni dopo, e piacque (come pure nel ’49 a Napoli), ma allora Verdi era già Verdi, c’era stato il trionfo di Nabucco, Lombardi ed Ernani, e il pubblico fu più indulgente e meglio disposto a trovare (pur con fatica) scampoli e preavvisi di un “nuovo stile” che, nel frattempo, aveva imparato ad amare.
Gli ascolti
Crispino e la comare
Melodramma fantastico-giocoso in quattro atti
Testo Francesco Maria Piave
Musica Federico Ricci & Luigi Ricci
Prima rappresentazione Venezia, Teatro San Benedetto, 28 febbraio 1850
Atto I
Fermo là! – Irma Mion & Salvatore Baccaloni (1930)
Atto II
Io non sono più l’Annetta – Lucia Aliberti (1979)
Di Pandolfetti medico – Antonio Magini-Coletti, Ferruccio Corradetti & Oreste Luppi (1905)
Atto III
Piero mio, go qua una fritola – Lucia Aliberti (1979)
Non ha gioia in tal momento – Lucia Alberti (1979)
Un altro post interessante: questo blog è una miniera!
con riferimento al giorno di regno una volta effettuata l'attività di scavo la delusione è cocente credevo fosse oro ed invece era ……un roba gialla solida, ma non oro….
ma se verdi ha scritto pure questa onestà vuole che se ne parli!
ciao dd