Non è questa la sede per indagare i motivi della sopravvivenza di Ernani, compito, eventualmente di chi tratterà il titolo in quanto tale. Credo, con buona pace dei detrattori del mito del cantante d’opera, che parte del fenomeno debba attribuirsi, almeno in Europa, a Mattia Battistini che in tutti i teatri famosi o meno per mezzo secolo vestì sovrano i panni sovrani di Carlo V. Per altro -Battistini si, Battistini no- il titolo verdiano conobbe grandi edizioni in grandi teatri: cito senza approfondimenti le edizioni del Met nel 1903 e nel 1929, della Scala 1917 e della Staatsoper di Vienna nel 1925.
Due conseguenze ci interessano: quantità e qualità delle registrazioni a 78 giri (e non solo delle singole romanze, ma anche di alcuni ensemble) e la possibilità di indagare come venisse eseguito quel repertorio. Non dimentichiamo, anzi cerchiamo di avere sempre presente che dalla prima dell’opera (9 marzo 1844) ad alcune registrazioni proposte corre un lasso di tempo inferiore a quello che ci separa, oggi, dalla prima di Turandot o di Dafne.
Ancora: non dimentichiamo che la proposta di ascolti è un’antologia e potrebbero esser offerte altre compilations, di eguale valore artistico e storico. Nessuna presunzione, quindi di completezza e neppure visto la qualità degli ascolti il singolo commento. Basti pensare che, nostro malgrado, abbiamo dovuto escludere le esecuzioni di un de Luca ed un Pinza nei rispettivi ruoli.
L’ascolto delle registrazioni a 78 giri enuclea tre problemi. La vocalità dei due protagonisti, le modalità interpretative di quegli interpreti, ossia di come si eseguisse Verdi sino al 1930 circa e, da ultimo, le modalità esecutive rispecchiate da quelle registrazioni con particolare riferimento ad inserimenti ed ornamentazioni.
La vocalità dei protagonisti, ove con protagonisti si intendano gli amorosi.
Carlo Guasco , primo interprete di Ernani era un grande tenore donizettiano, celebre Riccardo della Rohan. E se la situazione e l’ambientazione di “cappa e spada” della Rohan può apparentarsi con Ernani, la vocalità dei due amorosi diverse assolutamente, atteso che Ernani è assai più centrale di Chalais e richiede un impeto sconosciuto al personaggio donizettiano. Le opere sono di fatto contemporanee, anzi la versione definitiva della Rohan (Parigi 1845) di poco successiva ad Ernani. Conseguenza un tenore come Guasco poteva emergere nella cavatina, nel duettino con Elvira “ah morir potessi adesso”, arrivavano, poi, le frasi epiche “oro quant’oro ogn’avido”, la stretta “la vendetta più tremenda” e l’apostrofe “io son conte duca sono” dove i tenori cosiddetti di grazia -Guasco in primis- penavano. Di qui l’appropriarsi progressivo da parte dei cosiddetti tenori drammatici o di forza della parte. Solo che se il tenore drammatico sa cantare il risultato è pregevole, quando non di levatura storica, se, invece, principiante sortiremo un Verdi in cattiva salsa verista.
Alla prova del 78 giri quando Fernando de Lucia, prototipo di tenore di grazia pre Caruso, canta la sortita abbiamo un canto a fior di labbro estatico e sognante. Bastano frasi con “del mio cor gli affanni” del recitativo, “Appassito fior” ed “aragonese vergine” dell’aria per avere il ritratto dell’eroe romantico solingo e pensoso. A questa idea di fondo rispondono i rallentando e gli stringendo di cui l’aria è disseminata nell’esecuzione del tenore napoletano, per altro, morigerato rispetto ad altre, che rendono de Lucia un cantante difficile al gusto attuale. Forse il personaggio e la tradizione cui de Lucia si riallacciava (Raffaele Mirate ad esempio) imponevano sobrietà e misura rispetto alle libertà che de Lucia si prendeva in brani di opere coeve delle quali si sentiva coautore ( vedi Fedora, Iris, Tosca).
A categorie ben differenti appartengono gli altri Ernani proposti di Leo Slezak e Giovanni Martinelli, entrambi protagonisti in scena del titolo verdiano, entrambi tenori cosiddetti di forza o drammatici. Eppure l’esecuzione di Slezak, accompagnata da un timbro di rara bellezza, raffigura l’eroe romantico, da dramma cavalleresco, figlio del romanticismo di Victor Hugo, con la stessa dinamica sfumata ed eleganza di de Lucia alternata a vigore e slancio e con un gusto moderno. Ove per moderno intendo quella che dovrebbe essere l’esecuzione filologicamente congrua, come accade con il gruppetto che Slezak inserisce nel recitativo o le filature fra le due sezioni dell’aria. In difetto di questi elementi dubito che il Verdi, di sapore donizettiano, come Ernani venga differenziato dal tardo Verdi.
Una simile esecuzione, al di là dell’ammirazione per il canto, serve soprattutto ad illuminare l’ascoltatore sul pensiero e sull’estetica dell’autore a creare i criteri di discernimento fra grande e mediocre esecuzione. Con queste premesse è chiaro che Giovanni Martinelli, giovane ed adamantino nella zona acuta (un poco nasale in quella di passaggio, invece) risulti, anche se canta benissimo, monotono e squadrato rispetto a Leo Slezak. Basta confrontare i due cantanti nelle battute di conducimento fra le due sezioni dell’aria dove i preziosi inserimenti del tenore boemo sono strumenti espressivi. Regge meglio il confronto con il passato Marcel Wittrisch (non per nulla con Slezak e pochi altri, protagonista di una grande registrazione del duettone degli Ugonotti), che nel duetto del corno con Silva appare aggressivo, eroico eppure vocalmente vario e per nulla stentoreo. In una pagina che la stentorietà e il declamato hanno fatto propria e, conseguentemente, scempiato. Sentire Plácido Domingo.
Una sorta di caso analogo lo offre il personaggio di Elvira. Nella prima ripresa al Met fu affidato a Marcella Sembrich soprano di agilità modello indiscusso delle colorature successive. Una sorta di Sutherland del tempo. Al disco la Sembrich approdò dopo trent’anni di carriera alla soglia e talora superata la cinquantina. Eppure il timbro conserva una freschezza che ricorda, per esemplificare agli ascoltatori quella di un’altra sempre verde come Edita Gruberova. La cavatina di Elvira vanta molte esecuzioni da parte di soprani impropriamente definiti leggeri, alcuni dei quali come Selma Kurz eseguirono la parte in scena, mentre altre come la Tetrazzini si limitarono all’incisione della cavatina. Di Marcella Sembrich colpisce la sonorità del timbro, la risonanza ed ampiezza al centro e si capisce per quale motivo un soprano di quel tipo potesse cantare la parte senza soffrire orchestra e masse corali (lo documenta il concertato atto terzo). In questo senso nessuno degli altri soprani proposti, neppure quelli di linea vocale curatissima e sobria come Giannina Arangi – Lombardi o Rosa Raisa, può vantare la gamma egualmente sonora ed egualmente penetrante del soprano polacco. A chi si occupa di tecnica di canto in particolare non può sfuggire che i suoni gravi della Sembrich, a differenza di quelli dei soprani delle generazioni anche immediatamente successive, suonino in una posizione assolutamente più alta, che esclude la taccia (anche questa luogo comune) che solo dopo la Callas i soprani abbiamo appreso a cantare le note basse. Francamente credo, proprio sulla base di queste registrazione e di altre coeve, che la Callas non abbia inventato nulla e che i soprani del dopo Callas, per contro, abbiano smesso di emettere le note basse. Anche qui soccorre il confronto Sembrich – Freni.
Uno dei luoghi comuni più diffusi è che le registrazioni a 78 giri siano solo esibizioni vocali, inficiate da abusi musicali, dettati dal solo fine di esibizione vocale. In base a questo assioma il Carlo V, ritenuto esemplare per realizzazione interpretativa, prima che vocale di Mattia Battistini potrebbe essere liquidato. Siccome Battistini cantò Carlo V per quasi mezzo secolo ne registrò più volte, a partire dal 1906, tutti i brani in cui il baritono abbia parte. I vizi e vezzi di Battistini sono ben noti, tuttavia nessun baritono è così vario da passare dalla lusinga erotica di “vieni meco sol di rose”, allo sdegno regale di “Lo vedremo o veglio audace” all’ironia del “vedi come il buon vegliardo” come il baritono reatino. Chiunque voglia divertirsi può, spartito alla mano segnare gli arbitri e gli inserimenti di Battistini (sui quali rifletteremo anche oltre), ma deve anche domandarsi, per onestà intellettuale, se il comportamento musicale sia solo arbitrio o se il supposto arbitrio risponda ad una valenza espressiva e drammatica. Io credo che il più delle volte Battistini sia prima di tutto un interprete che ha ben chiaro come la sovranità del personaggio possa manifestarsi in varie forme. Poi si può anche eccepire su qualche singola scelta non sull’impostazione generale del personaggio. L’eccezione o quanto meno il dubbio ha un fondamento ovvero il comportamento vocale e musicale di altri grandi. Uno in primis Giuseppe Kaschmann, che a differenza di Battistini registrò pochissime facciate una delle quali l’aria del terzo atto “oh de’ verd’anni miei”. Confronto fra giganti quello Battistini –Kaschmann, che suona più misurato nelle libertà agogiche, un po’ meno oratorio nella prima sezione dell’aria, ma ugualmente sfumato e regale; arrivato alla peroratio finale sfoggia, secondo il consolidato metodo del contrasto, un’ampiezza ed un vigore, che forse mancano a Battistini. Tecnica esemplare in entrambi i casi, salito agli acuti sistematicamente preparata dal do diesis re naturale. Alla cadenza per la cronaca Kaschmann la esegue in tempo mentre Battistini inserisce dapprima un accellerando e poi un allargando, secondo un procedimento spesso usato dal baritono reatino.
L’esemplare quadratura tecnica è comune a tutti i baritoni proposti nel ruolo di Carlo V. L’aria eseguita di Giuseppe Danise rende più di tutti, anche in virtù di una voce scura, il solenne distacco del re, la sua nobiltà; divengono espressive persine le “erre” arrotate di ascendenza partenopea. Mario Sammarco nell’eseguire il “lo vedremo o veglio audace” si rifà al vezzo di Battistini di emettere qualche suono in centro aperto in particolare sulla vocale a, ma il piglio, lo slancio e lo sdegno di questo re sono regali anch’essi , ma all’opposto di quello distaccato, aulico e solenne del re dei baritoni. Siamo, certo, all’inizio di una nuova epoca.
Quella nuova epoca è quella per usare categorie generali e come sempre un po’ grossolane del Verdi come scritto, con la conseguente lotta all’ornamentazione aggiunta dagli esecutori, la predilezione per le cadenze dell’autore i tagli dei da capo che tanto servivano solo per mettere in rilievo la bravura e l’arbitrio del cantante e negare la verità drammatica. Non è questa la sede per affrontare il problema. Mi permetto solo alcune chiose ossia come la verità drammatica muti di autore in autore e molto spesso specie per un longevo in ogni senso come Verdi da una fase all’altra dell’esperienza compositiva, come le cadenze spesso non sono scritte, ma previste dal segno di corona e, quindi, rimesse all’esecutore (poi di esecutori ve ne sono di grandi, di mediocri e di pessimi) e quando scritte possano, comunque, essere amplificate dall’esecutore, senza che ciò sia una reato di lesa maestà dell’autore. E lo stesso valga per le indicazioni di tempo di cui gli spartiti sino al 1850 sono assolutamente avari.
Mi limito all’Ernani e mi limito ai 78 giri proposti. Nell’ottica di “così come è scritto” i degni dell’Inquisizione sono Battistini, Marcella Sembrich e de Lucia. In buona posizione per il rogo anche Leo Slezak e Mario Ancona. Ovvero i cantanti più antichi e mi fermo nelle considerazioni. A parte, poi, il caso del reato collettivo commesso da Luigi Mancinelli al Met e documentato dai cilindri Mapleson.
Marcella Sembrich inserisce trasporti nell’aria quando lo spartito prevedrebbe un do grave, la cadenza è una rielaborazione di quella di Verdi e soprattutto nella cabaletta eseguita, una sola volta, compare insieme ad un paio di staccati di dubbio gusto l’inserimento di trilli veramente granitici e qualche parca riscrittura del testo sia per rispondere all’esigenza di non cantare in zona grave della voce sia per arricchire la linea vocale. Più cospicui al di là delle cadenze gli interventi di Battistini in “Vieni meco sol di rose” e nel finale terzo “oh sommo Carlo”. Anche Battistini esegue una strofe sola delle pagine per motivi di durata del disco, non sono in grado di documentare se anche in teatro si attenesse a questa scelta o se, invece, eseguisse la versione completa dell’aria. Le suadenti fiorettature interpolate, le soste, gli accelerando del “vieni meco sol di rose” di fatto una riscrittura del passo esemplificano la seduzione regale e la puntatura al sol della ripetizione del “oh sommo Carlo” sono un’altra manifestazione della regalità, ovvero la storicizzazione in vita. Carlo V niente meno che un nuovo Carlo Magno.
Per ripetere un concetto enunciato all’inizio questi comportamenti sono sempre stati qualificati come arbitri del cantanti. Sbagliato, l’arbitrio veniva da ben altri luoghi ossia dal podio. Ai segni di espressione manchevoli, rimessi alla prassi, all’esecutore era ovvio per non annoiare, per esprimere, ovviare, ossia che vi provvedesse l’autore in sede di esecuzione o i cosiddetti maestri al cembalo poi divenuti direttori d’orchestra. I cilindri Mapleson, famosi perché conterrebbero gli Ugonotti di De Reszke e della Melba (nel primo caso non si sente proprio nulla) sono assai più interessanti per gli ensemble, fra questi appunto la grande scena che chiude il terzo atto dell’opera. Nel cast Marcella Sembrich e Carlo V Antonio Scotti, che non esegue le puntature di tradizione (preciso che non è il solo Battistini a seguire tale prassi) ma sopra tutti la direzione di Luigi Mancinelli. Chi volesse un dettaglio sulla direzione deve leggere quanto scrisse su Musica, nel 1991, Michael Aspinall. Pur dal difficile ascolto emerge il maestro orvietano per la congiunta capacità di concertazione e l’assoluto rispetto del canto. Dal fruscio della fortunosa registrazione non si sentono entrate fuori tempo eppure il direttore consente un rallentando su “imitator” del baritono, consente ai solisti, capitanati da una svettante Sembrich di emergere sul coro, che pure suona pieno, solenne e corposo e in grado al tempo stesso di assottigliarsi in un istante prima degli interventi dei solisti.
Ovvero qualcosa nel campo della concertazione di straordinariamente drammatico, vivo e pulsante ed al quale siamo assolutamente disabituati e che, al tempo stesso, fa saltare sulla sedia assai più delle rumorose e farraginose bande d’oggigiorno.
Verdi – Ernani
Atto I
Mercè, diletti amici…Come rugiada al cespite – Leo Slezak (1907), Giovanni Martinelli (1915), Fernando de Lucia (1917)
Surta è la notte…Ernani, Ernani, involami – Selma Kurz (1902), Marcella Sembrich (1908), Rosa Raisa (1923), Rosa Ponselle (1928)
Fa’ che a me venga…Qui mi trasse amor possente – Francesco Cigada & Celestina Boninsegna (1905), Enrico Molinari & Giannina Arangi-Lombardi (1930)
Che mai vegg’io…Infelice! e tuo credevi – Adamo Didur (1908), Lev Sibiryakov (1910), José Mardones (1918)
Uscite…Vedi come il buon vegliardo – Mattia Battistini (con Elvira Barbieri, Giuseppe Tommasini & Vincenzo Bettoni – 1913)
Lo vedremo, oh veglio audace – Mattia Battistini (1906), Mario Sammarco (1911), Riccardo Stracciari (1914)
Vieni meco, sol di rose – Mattia Battistini (1906)
Esci, a te, scegli…seguimi…Iddio n’ascolti, e vindice – Wilhelm Strienz & Marcel Wittrisch (1935)
Atto III
Gran Dio!…O de verd’anni miei – Giuseppe Kaschmann (1903), Mario Ancona (1907)
O sommo Carlo – Antonio Scotti (con Marcella Sembrich, Emilio de Marchi & Edouard de Reszke – Mapleson – 1903), Mattia Battistini (con Emilia Corsi, Luigi Colazza & Aristodemo Sillich – 1906), Carlo Galeffi (1927)
Atto IV
Solingo, errante, misero – Antonio Melandri, Corrado Zambelli & Iva Pacetti (1930)
Splendidi ascolti. Tutto questo dimostra che la filologia non è solo mera ricerca del suono antico, come usa oggi.
grazie per gli ottimi ascolti..