Al Met la direzione è stata affidata al veterano James Levine che ha essenzialmente deluso per l’assenza di concentrazione drammatica e, spesso, di un’elementare nettezza di suono (i primi a tradire sono, come sempre, gli ottoni). Non è che il suo celebre primo Ring al Met fosse stato un capolavoro intoccabile di direzione wagneriana, ma stavolta il risultato sembra più che discreto.
Molto problematico anche il cast. Senza esitazione si può dire che il Wotan di Bryn Terfel è il peggiore fra i Wotan attualmente presenti sui palcoscenici. Voce ingolata e ormai anche molto invecchiata, in breve, una voce addirittura indurita nella gola, berciante ed abbaiante in ogni registro, brutale con il fraseggio. Questo Wotan che non ha niente di divino (e nemmeno di umano), sarebbe piuttosto adatto al ruolo di Alberich, perche la voce è da caratterista.
Quale padre tale figlia. Deborah Voigt nel suo debutto conferma ancora una volta di essere una cantante sostanzialmente “finita”. Urla e balla in acuto, è incerta nel resto della gamma e non possiede nemmeno delle risorse particolarmente drammatiche per compensare una vocalità dalla Strega del Hänsel und Gretel, nel suo inascoltabile “Hojotoho!” guarnita pure dai risi che invece di una giovane e gioconda valchiria sembravano la parodia delle valchirie fatta da Anna Russell.
Un poco meglio la Fricka di Stephanie Blythe. Eppure, nonostante che possieda una voce abbastanza importante, si dimostra assolutamente incapace di effettuare il passaggio fra il suo registro grave molto particolare (ma anche assomigliante ad una parodia dei gravi della Horne) ed il registro superiore che risulta piuttosto bianco e sovente poco sostenuto.
In quanto alla triade umana, il Hunding di Hans-Peter König suona composto sia vocalmente sia sul piano drammatico. La sua moglie, incarnata da Eva-Maria Westbroek, è stata annunciata malata ed ha dovuto essere sostituita nel secondo e terzo atto, ma la vocalità che la signora Westbroek ha dimostrata non solo il 22 aprile, quindi giorno del malessere fisico, ma anche in quello che sentiamo da una registrazione dell’anteprima, è, come nella maggior parte dei cantanti odierni, piuttosto un generale malessere vocale. Sentita dal vivo a Bayreuth nel 2009 quale Sieglinde ed all’inizio di 2010 quale Crisotemide a Bruxelles, si può affermare che la Westbroek possiede una voce da completo soprano spinto, di notevole ampiezza, dal timbro spontaneamente scuro e caloroso. In qualsiasi allestimento è quasi sempre stata la migliore nel campo, ma per la frequentazione di un repertorio molto pesante con premesse tecniche molto imperfette, il soprano olandese inizia ormai a dimostrare delle difficoltà che evocano dei dubbi anche sui suoi prossimi impegni, come ad esempio il suo debutto nel ruolo di Isotta in 2013… Pur avendo delle belle intenzioni ed uno strumento per realizzarle, il suo canto “emozionato” e poco coordinato la lascia stanca già alla fine del primo atto della Valchiria. Nel terzo, come dimostra la registrazione dell’anteprima, la Westbroek arriva completamente ballante e stonata alla scena con le valchirie. Gli acuti, sia alla prima sia all’anteprima, risultano privi di sicurezza e la mancanza di un’efficace coordinazione vocale è compensata da un canto pericolosamente spinto. Stridula ed urlante negli acuti pure la sua sostituita Margaret Jane Wray.
E’ in queste condizioni disastrose che il Siegmund del debuttante Jonas Kaufmann emerge come “l’evento vocale” della serata. Canta come canta sempre – ingolato, gemendo e singhiozzando sui primissimi acuti, sfalsettando subito quando tenta un piano – ma almeno dimostra di avere un minimo senso di fraseggio e di linea vocale. Di una voce adatta per Siegmund ha solo il timbro artificiosamente scurito, facendo credere il pubblico e forse anche lui stesso che sia un autentico tenore spinto invece di un lirico. E per questo la sua prestazione rimane sempre al confine col forzato e, a causa della permanente lotta con il peso vocale della parte, rende abbastanza monotono anche il personaggio.
Dall’altra parte dell’Atlantico il Maestro Scaligero Daniel Barenboim ha proposto al pubblico berlinese la Valchiria con cui aveva già aperto l’attuale stagione milanese. Trattandosi di una collaborazione del Teatro alla Scala e della Staatsoper unter den Linden, la regia è rimasta sempre la stessa, quella inutile ed inguardabile di Guy Cassiers, violentemente contestata alla prima berlinese. Sono rimasti identici anche due elementi del cast, ossia l’ormai irrinunciabile star wagneriano Simon O’Neill e la garbata Ekaterina Gubanova quale Fricka. Quest’ultima ci è apparsa meno solida del suo debutto alla Scala dove vocalmente era stata addirittura la migliore. Invece, Simon O’Neill, esibendosi stavolta nella piccola sala del Schillertheater (dove funziona da quasi un anno la Staatsoper per causa di restauri nel suo proprio edificio), non ha dovuto spingere tanto per farsi sentire come nell’ampia sala Piermarini. Ma alla fine il risultato è sempre lo stesso. O’Neill possiede la voce di un tenore caratterista, adattissima al ruolo di Mime, e finisce per essere grotesco quale Siegmund sia per il timbro chiaro e nasale-gutturale sia per la tecnica dilettantesca con cui affronta il repertorio.
Decisamente meglio la sua sorella, interpretata da Anja Kampe. Anche in questo caso le discrete dimensioni della sala hanno avuto un effetto positivo ed hanno messo a disposizione uno spazio adeguato ad una voce non grande e non proiettata. Il soprano italo-tedesco ha dimostrato delle belle intenzioni che ha anche saputo realizzare nei maggiori casi. Soprattutto nel duetto del primo atto ha fatto sentire delle inflessioni e piccole enfasi nel fraseggio che erano tanto più piacevoli che si trattava di inflessioni fatte con la voce e non con qualche trucco fuori vocalità. Eppure, si chiede che senso può avere per una voce di tale ampiezza sia di praticare un repertorio pesante come la signora Kampe lo pratica (da Lisa fino ad Isotta) sia di esibirsi addirittura con questo repertorio da soprano spinto e soprano drammatico in teatri tre e quattro volte più ampi del Schillertheater.
Inascoltabile il Hunding di Mikhail Petrenko – voce non da basso autentico, inutilmente aggressivo e con un insopportabile accento russo. Assolutamente inaccettabile la Brunnhilde di Irene Theorin per il cui “Hojotoho!” io personalmente non trovo parole. Urla senza eccezione ogni frase acuta (non urla neanche, come riusciva ad urlare “bene” una Gwyneth Jones) ed è spoggiata e piuttosto vuota nel centro ed in basso.
Una sorpresa positiva è stato invece il Wotan di Rene Pape che, tutto come gli altri cantanti della serata, ha trovato uno spazio di dimensioni adeguate per la sua voce piuttosto piccola e non secondata da una tecnica di proiezione. Mentre aveva dovuto permanentemente forzare nel Rheingold scaligero, rinunciando pure alla Valchiria inaugurale per motivi sicuramente ben diversi, e alla fine anche molto giusti, di una “malattia”, nella sala del Schillertheater ha avuto la possibilità di cantare liberamente un personaggio adatt(at)o alla sua vocalità. Il suo Wotan, pur non privo di qualche stonatura in acuto, è nel complesso risolto lirico e fraseggiato con nobiltà. E’ forse anche per l’esagerata liricizzazione del ruolo che il suo Wotan è rimasto una caratterizzazione piuttosto incompleta ed unilaterale. In ogni caso, è evidente che con il Wotan della Valchiria Rene Pape arriva ai limiti dei suoi mezzi e che lui lo si può permettere solo nelle condizioni cameristiche come al Schillertheater o nell’altrettanto piccola sala della Staatsoper.
Last but not least, Daniel Barenboim. Se alla Scala disponeva di un’orchestra con cui è riuscito di concertare una delle Valchirie più noiose, secche ed incoerenti, con la Berliner Staatskapelle – orchestra di riferimento per il repertorio operistico tedesco – si è trovato davanti ad un complesso che fa il suo lavoro anche “da solo”, un poco come i Wiener Philharmoniker. Facendo un primo atto abbastanza intenso, dal secondo in poi Barenboim non è più riuscito a produrre qualcosa di più di un mero allineamento generico di “bei passaggi” che non si lasciavano condensare in una forte linea drammatica.
Insomma, due serate parallele con direzioni piuttosto deludenti, dei cast per la maggior parte disastrosi e qualche positiva sorpresa vocale da due star maschili, proclamati dal marketing quale autentici miracoli, che pure con il loro lavoro rimangono lontani anni luce da qualsiasi prestazione di riferimento e restano colati all’etichetta tutt’altro che stellare e sensazionale, ossia la triste parola: “sufficiente”.
insomma di bene in meglio e pensare che new york per molti anni è stata la patria di un grande wagner. Anche se lo tagliavano……
dd
eh, domenico, se la belcanto renaissance può ancora essere consideerato come un passato "recente", quel wagner del met è ormai un passato senza ogni speranza di un ravvivamento. parlo della parte vocale, ovviamente. i tagli me gli scordo con piacere.
davanti a lieder flagstad melchior onegin schorr e direttori come furtwangler, walter, szell chi cazzo se ne frega dei tagli anzi peccato che ci siano, ma basta quel che sentiamo
W Anna Russell!
Quante verità…
peccato però, caro Domenico, che quei grandi direttori che andavano al Met, fossero costretti a dirigere una bandaccia vergognosa (che tale era quell'orchestra almeno sino a Levine), e in Wagner un'orchestra scadente è peccato mortale…
Ps: Melchior non lo sopporto…è un pezzo di legno (vocalmente parlando)
…..io non sento mica sempre bandacce vergognose…anzi….suonano assai meglio della scala oggi, del maggio etc…