Ernani, come saprete, era uno spagnuolo eroico e ardente, ma anche masnadiero suo malgrado, nonostante la nobile discendenza. Nacque dalla scandalosa e innovativa penna di Victor Hugo prima e dal vivace e giovanile pentagramma di Giuseppe Verdi coadiuvato dall’estro del librettista Francesco Maria Piave, in quel 1844 che lo consegnò alla storia dell’opera e ad un imperituro successo.
Visse bene, in salute e floridamente Ernani, ripetendo per più di un secolo e mezzo la sua cruenta ed eccentrica leggenda, ricca di tinte fosche e appassionate nei teatri di tutto il mondo e raccogliendo onori e gloria per mezzo delle inebrianti voci di illustrissimi et lodevolissimi interpreti.
Ahimé, tale messe di successi era purtroppo destinata a volgere al crepuscolo non bruscamente, ma in modo subdolo e lento come la peggiore delle torture medioevali: un cancro inesorabile e corrosivo si è fatto strada su quegli stessi palcoscenici che prodigamente avevano coperto di allori il nostro proscritto. Invano le amorevoli cure di Festival, artisti e direttori di chiara fama e presunta maestria, accorsi al capezzale del moribondo onde trovare una cura a base di canto e musica, unica soluzione al male che provocava la consunzione delle iberiche carni, ha lenito tali sofferenze. Tutto fu vano. Il corpo, già piagato dall’effetto deleterio delle recite americane (Licitra, Radvanovsky, Daniel, Hvorostovsky, etc . etc. ) avevano inferto un’ulteriore purulenta ferita che, alla luce degli avvenimenti felsinei, ha infettato e incancrenito i resti del martoriato corpo che si è spento sotto i poco pietosi colpi inferti del malcanto.
Il cadavere, composto sul palcoscenico del Teatro Comunale di Bologna adibito a camera ardente, è stato deposto in una semplice bara rivestita di tele dipinte, cartapesta, strass e paillettes, è stato portato in spalla da un quartetto di artisti, gli stessi che hanno purtroppo decretato la sua condanna a morte, a cui hanno fatto seguito un folto pubblico accorso per rendere omaggio con sincero e caloroso affetto alla salma e il direttore d’orchestra che ha eseguito l’ormai decomposta partitura, in ricordo dei tempi in cui fu grande… e tagliuzzata dei “da capo”.
Il lutto si addice a Dimitra, la quale con spietato cinismo, nel sollevare la bara sulla spalla, ha deciso che tutto sommato il personaggio di Elvira andasse riscritto e riadattato alla sua voce ed al suo “temperamento”; temperamento che si estingue allorquando la cantante, ormai per contratto, decide di scagliare un pezzo di scenografia su un altro cantante o sul palcoscenico: in questo caso un tonico al IV atto.
La Theodossiou ha così incautamente deciso di polverizzare ciò che restava del personaggio cardine di Elvira trasformata, per la funerea occasione, in una pupattola lamentosa e bamboleggiante, dotata di un timbro che definire ormai querulo sarebbe già un complimento ed uno “slegato” esemplare nel suo continuo spezzettare ogni frase in frammenti rimbalzanti; come definire poi ciò che ha escogitato per risolvere i gravi letteralmente immaginati, gli acuti nella reiterata e poco simpatica imitazione delle unghie sulla lavagna o nelle colorature, se così vogliamo chiamarle, così chiocce, calanti e talmente male in arnese quanto a fiato da richiedere d’urgenza la presenza di una salvifica bombola d’ossigeno? Rimane allora un registro centrale percettibile e la presenza di pianissimi presi in prestito dalla solita Caballé fine anni ’90 che galleggiano compiaciuti nel nulla di un sostegno inesistente. E l’accento? Basterebbe la squisita distaccata cordialità con la quale invita il Re a non insistere con le profferte poco regali di prenderle l’onore, per rimanere attoniti.
Il lutto si addice ancor di più a Marco di Felice, che affianca la Theodossiou nella prima fila del trasporto della bara. Baritono nominale, di fatto un tenore non sfogato, per tutta la recita ci si chiede ascoltandolo “perché?”; perché in condizioni del genere è stato l’unico a beneficiare del “da capo” della sua aria al II atto, il cui risultato era già scarso in partenza? Voce piccola così, circoscritta ad un gorgogliante registro centrale, poiché né in acuto, né nel grave ci è data la possibilità di udirlo. A peggiorare le cose una dizione in cui vengono pronunciate solo le vocali “E”, “O”, “U”, ed un fraseggio bolso. Almeno ha saputo sopportare il fardello della salma.
Dietro di loro il peso è stato equamente distribuito tra Ferruccio Furlanetto ed il rinato, dai malanni, Roberto Aronica, che in parte ringrazio per avermi risparmiato l’ascolto dei suoi “esotici” colleghi sostituti.
Furlanetto ha puntato sulla presenza scenica, sull’eleganza del portamento, sul carisma del pianto facile, sostenuti da un canto come filtrato da una purea abbastanza densa di patate, cifra stilistica ormai imprescindibile della sua voce, ma questo lo sapevamo da sempre, resa però traballante soprattutto in alto e ruvida in basso in virtù dell’età. L’eloquio, la potenza dello strumento e certi inserimenti “veristi”, meno grevi rispetto ai Filippo II di New York e Londra, hanno portato al visibilio il pubblico commosso.
Aronica, ancora in ripresa dai malanni, rispetto al Pollione zurighese è qui un po’ più a suo agio. Il suo Ernani è sempre tribunizio nell’accento e molto monocorde nel fraseggio, ma almeno il tenore dimostra di possedere le note della parte, almeno nel registro centrale e grave, comunque timbrati, sonori, e dotati di una certa robustezza, anche se molto ruvidi e non proprio finissimi. Resta un passaggio di registro purtroppo irrisolto e dall’intonazione precaria, con acuti nasali e tutt’altro che belli da ascoltare, ovviamente sempre un po’ al limite.
Chiude il corteo funebre, subito dopo comprimari di dubbio gusto e un coro sufficientemente preparato malgrado qualche tragico svarione al II e IV atto da parte delle voci maschili, la presenza invero catartica di una bacchetta di ottimo mestiere e preparazione, ovvero quel Bartoletti che avrebbe dovuto essere presente fin dalla prima recita (affidata, come le altre, al maestro Polastri, previsto per il secondo cast) e che finalmente si è riappropriato del podio proprio per quell’ultima recita che ha sancito, quasi fosse un requiem, la discesa nel sepolcro dell’opera in questione.
Una direzione quella di Bartoletti basata sulla pulizia e preziosità del suono, sul gesto netto, sulla precisione di un cantabile avvolgente votato al sostegno delle voci dei cantanti prima di tutto, aiutandole spesso soprattutto nei concertati e nei momenti d’insieme e fraseggiando sovente, anzi più che volentieri, al posto loro. Lungi da essere rivoluzionario o stilisticamente appropriato o filologico (i tagli di tutti i da capo, ma in questo contesto… e la presenza di puntature non richieste e spesso fuori dalla grazia del cielo!) Bartoletti si lascia apprezzare per il gusto antico, per il taglio narrativo, ma immediatamente comunicativo nei riguardi del pubblico, il quale comprende, ringrazia e lo omaggia di conseguenza.
Poiché trattasi di funerale, il “regista” Beppe de Tomasi, ha pensato bene, forse per timore, forse per reverenza, forse per troppo dolore, di stare a guardare la cerimonia in costume regolando gli ingressi, le uscite di scena, le mani sul cor, il flusso delle lagrime, le spade sguainate e le cadute da suicidio, coadiuvato in questo dalle luci fondamentalmente insipide di Daniele Naldi.
Così il povero, ma bravo Francesco Zito ha dovuto fare tutto da solo con le sue colorate e fantasiose scenografie dipinte che riempivano il sofferto vuoto causato dal caro estinto, adornate da costumi un tantinello carnevaleschi, ma efficaci nella macabra economia dell’evento.
Il pubblico pregante, al termine della cerimonia e della deposizione nella semplice e anonima tomba allestita per l’occasione, ha infine salutato i commossi e provati Bartoletti, Aronica e Furlanetto con i toni prolungati del trionfo; lancio di fiori, probabilmente garofani e crisantemi estirpati dai cuscinetti e corone funebri al posto di più adeguati frutti marci, all’indirizzo della Theodossiou; cordialità nei riguardi di di Felice.
Qui giace “Ernani”, nobile eppur eroico e fiero bandito, opera ruspante e appassionata del battagliero Giuseppe Verdi che la compose, con il pensiero rivoltò a rendere immortale con la musica e la poesia la sua sanguigna storia regalandola con generosa modestia alla posterità. Stroncato da male lento e incurabile, tra sovrumane fatiche, il pubblico, i musicisti, i direttori, i cantanti, gli artisti, gli amici, i colleghi ed i melomani tutti, prostrati da questa perdita in quel di Bologna, a onor di vita esemplare, commossi posero. Amen.
Una prece.
Marianne Brandt
Lasciato alla collega Brandt l’onore e l’onere della trattazione del primo cast, mi accingo a riferire della recita fuori abbonamento di mercoledì 18, che schierava, accanto al direttore e al tenore già uditi in occasione della diretta radiofonica (e in quella occasione già doviziosamente commentati in chat), un’allieva della Scuola dell’Opera Italiana (l’ormai celebre accademia del Comunale) e due cantanti da diversi anni in carriera, e in teatri di un certo livello.
Intervistato negli intervalli della prima, il neo sovrintendente, omonimo del titolo affrontato, non ha fornito risposte chiare e precise circa il destino della Scuola dell’Opera. Ci auguriamo che il cambio di dirigenza porti con sé una riflessione sul significato e più ancora sugli esiti di questa istituzione, tenacemente sostenuta dalla precedente gestione. Valentina Corradetti non è certo l’elemento peggiore esibitosi in questi ultimi anni sulle tavole del Comunale, tuttavia non possiede, al momento, un’organizzazione tecnica che possa consentirle di gettare le basi di una solida carriera, obiettivo che dovrebbe essere primario per un’accademia musicale. La voce, che s’intuisce di solida e corposa natura, come sembra indicare anche la salda complessione fisica della signorina, appare in difetto di appoggio, si riduce spesso e volentieri a un mormorio ovvero evoca suoni di natura più felina che umana. Lo strumento, da lirico leggero più che da lirico pieno, suggerirebbe poi tutt’altro repertorio, non certo il primo Verdi, impietoso per chi non possieda perfetto controllo della prima ottava e sicurezza, specie d’intonazione, nella zona dei primi acuti. Ne risulta un’Elvira che risolve scolasticamente, appunto, la cabaletta d’entrata, eseguita una volta sola e semplificando le scalette ascendenti, e per il resto dell’opera non solo non trova l’ampiezza e il legato richiesti dalla partitura (limite massimamente evidente nei duetti con baritono e tenore), ma risulta poco o nulla udibile in ensemble. Una prova che suscita dubbi e perplessità non solo sull’allieva, quindi, ma sui precettori. Del resto è plausibile che il modello vocale e interpretativo, proposto alla signorina Corradetti, sia riconducibile alla blasonata collega del primo cast. Questo spiegherebbe, in effetti, molte cose.
Minori giustificazioni, e quindi maggiore biasimo, per i signori uomini. Giovanni Battista Parodi, la cui età anagrafica non tocca la quarantina, esibisce ormai la radiografia di una voce, svuotata e legnosa, di scarso corpo e quindi limitato impatto, affetta da un fastidioso vibrato in tutta la gamma. Riesce se non altro ad evitare le accentuazioni plebee e le cadute di gusto del suo collega del primo cast, ma un Silva così malfermo imporrebbe, almeno, l’omissione della cabaletta, e questo non per ragioni filologiche, ma per banale risparmio energetico.
Quanto a Ivan Inverardi, confesso che mi mancano gli aggettivi e persino i sostantivi per descrivere la sua prova, specie nella grande scena del secondo atto, ovviamente proposta in versione integrale. Quando si vuole censurare la rozzezza di emissione, la mancanza di musicalità, il cattivo gusto e magari le urla e i berci di un cantante, si usa tacciarlo di essere verista. Peccato che i grandi baritoni veristi, capitanati da Mario Sammarco e Carlo Galeffi, possedessero non solo un’organizzazione musicale di prim’ordine, ma fossero sempre espressivi. Riascoltati oggi, alcuni, i migliori, appaiono anche dei modelli di misura e sobrietà. Che nel canto del signor Inverardi, come nel suo modo di stare in scena, ad esempio quando deve minacciare Silva, non vi sia traccia dell’elegante tracotanza di don Carlo, non è una cosa che possa sconvolgere o stupire. Lascia per contro impietriti il ricorso, nell’azzimata seduzione di Vieni meco sol di rose, a suoni spoggiati e afonoidi, a mezza via tra il falsetto e lo sbadiglio, ben poco sonori e tuttavia rochi per lo sforzo richiesto in fase di emissione. Non siamo al teatro di prosa, forse neppure alla cosiddetta declamazione, propugnata da certi auto-eletti maestri dell’avanguardia operistica, sempre pronti a sottolineare la miseria degli spettacoli, da cui non sperino congrui motivi di soddisfazione. Quel che è certo, è che con simili presupposti non si affronta Verdi né il verismo, né altro repertorio, almeno in un contesto professionale.
Considerazione finale: che in un teatro di modeste dimensioni, per un titolo come Ernani, proposto oltretutto con sconti cospicui, praticati in biglietteria come su Facebook, non si riesca a fare il tutto esaurito, è cosa che dovrebbe indurre chi di dovere a riflettere. Se non altro per non ritrovarsi a celebrare, dopo il funerale di Ernani, quello del teatro felsineo.
Antonio Tamburini
Gli ascolti
Verdi – Ernani
Atto I
Mercè diletti amici…Come rugiada al cespite – Pier Miranda Ferraro (1965)
Surta è la notte…Ernani, Ernani involami – Margherita Roberti (1960)
Fa’ che a me venga…Da quel dì che t’ho veduta – Mario Zanasi & Rita Orlandi-Malaspina (1967)
Che mai vegg’io?…Infelice, e tu credevi – Giorgio Tozzi (1962)
Atto II
Vieni meco, sol di rose – Carlo Meliciani (1969)
Atto III
E’ questo il loco…Oh, de’ verd’anni miei – Piero Cappuccilli (1972)
Ad augusta!…Si ridesti il Leon di Castiglia – Thomas Schippers (1962)
O sommo Carlo – Giuseppe Taddei (con Gino Penno, Caterina Mancini, Giacomo Vaghi – 1950)
Atto IV
Solingo, errante, misero…Ferma, crudele, estinguere – Giorgio Casellato-Lamberti, Mauro Rinaudo & Angeles Gulin (1978)
Leoncavallo – Pagliacci
Atto I
Sei là? Credea che te ne fossi andato – Rosetta Pampanini & Carlo Galeffi (1930)
beh non esageriamo con i necrologici sennò andiamo in depressione.
Meglio le recensioni cattive niente rassegnazione Ernani è cantato in modo scandaloso,ma la speranza rimane perche resti in vita..
belli gli ascolti molto brava Margherita Roberti
Se fossi Turandot ti risponderei "La speranza che delude sempre…" per poi magari sciogliermi nell'atto successivo 😀
Ma si, Pasquale, ho voluto scrivere un pezzo dall'amara e macabra ironia un po' per provocazione un po' per celiar con voi, ma anche io spero sempre in qualcosa di bello o positivo.
La Roberti ha sorpreso anche me sia per qualità voce che per l'accento. Un'ottima Elvira davvero… mi sono preparata anche con lei per questo Ernani… forse dovevo volare più in basso ^_^
Marianne Brandt