Antonietta Meneghel, in arte Toti dal Monte, fu l’altra alunna di Barbara Marchisio. Per il pubblico italiano la più famosa, idolatrata, tanto da essere chiamata la Toti e basta ed anche uno dei più imitati soprani della storia del canto, anche da soprani, come la Callas, che leggeri non erano, ma che alle prese con il repertorio del cosiddetto leggero, ritennero il soprano veneto modello insuperato.
La fama di Toti dal Monte fu essenzialmente italiana. Dal 1916 al 1942 calcò tutti i palcoscenici italiani, onnipresente nei maggiori come nei più piccoli. Costantemente applaudita e celebrata per quella sua voce bianca e dolcissima, espressione, secondo il canone del tempo, di dolcezza, castità e candore.
I rapporti con i teatri stranieri furono saltuari: una tournée in Australia dove trovò anche il tempo di convolare a nozze con il tenore de Muro Lomanto (unico marito, ma non unico amore ufficiale della cantante) ed un’altra in Russia e Giappone, descritta dalla stessa cantante in maniera divertente nella propria autobiografia, qualche stagione al Colón e nel 1924-‘25 toccata e fuga al Met (impero ancora dei resti di Amelita Galli-Curci) con due recite di Rigoletto ed una di Lucia, qualche recita di più a Chicago, nel 1929, sotto la guida di Toscanini, la tournée della Scala a Berlino e nel 1935 a Vienna per il Barbiere e la Sonnambula, concerti di canto per tutta Europa.
La breve registrazione della Sonnambula viennese, Toti ultraquarantenne, con vent’anni di carriera alle spalle, che, per dirla con Rodolfo Celletti, già “totidalmonteggiava” può aiutare a comprendere il mito, ancor oggi vivo, della cantante. Perché sia chiaro dai dischi, pure registrati un decennio prima ed in condizioni vocali integre, della grandezza della cantante si può legittimamente dubitare. In quel frammento di Sonnambula sentiamo una voce chiara, dolce, morbida un poco sbiancata è vero, ma anche un’ampiezza e sonorità inconsuete per un soprano di coloratura, avvertiamo anche che al di là delle indubbie sbiancature la voce era sostenuta ed amplificata a regola d’arte. Come per tutti i cantanti di estrazione belcantista, questa fu la “scuola” di Barbara Marchisio, che consentì ad Antonietta Meneghel di reggere vent’anni di grande ed acclamata carriera. Non per nulla il soprano di coloratura aveva nei primissimi anni di carriera approcciato Butterfly (poi abbandonata e ripresa con molte recite nella fase finale di carriera) e aggiunto al repertorio Manon, Traviata, quest’ultima eseguita moltissimo dal 1935 in poi. Certo la scuola della Marchisio si era fermata lì ed è per quello che ritengo la vera ed autentica allieva sia Rosa Raisa, sia pure spesso dedita ad un repertorio alieno dal cosiddetto belcanto. In tal senso basta confrontare l’esecuzione della Cavatina di Norma delle due cantanti.
Soprano leggero per colore di voce e talora per gusto. Poco o nulla soprano d’agilità, ove per soprano d’agilità debba intendersi la cantante in grado di eseguire le più complete ed ardue figure acrobatiche e, magari, essere in grado di dare loro senso ed espressione drammatica. Basta considerare che nel repertorio della Toti mai comparvero Puritani, Lakmè, Crispino e la Comare piuttosto che Ugonotti o Dinorah, ovvero i titoli, che altre dive come la Hempel, la Galli Curci e persino la Pons imponevano e pretendevano dai teatri abitualmente frequentati. Basta ancora considerare come in nessuna incisione della Toti compaiano trilli, come terzine e quartine siano proposte -diciamo- al minimo sindacale e solo se previste dal testo a favore di staccati e picchettati.
La famosa pazzia della Toti e segnatamente la cadenza per lei preparata da Paolantonio (ed in quanto cadenza della Toti e, poi, della Callas eseguita praticamente da ogni Lucia, sull’errato presupposto che quella sia “la cadenza”) vede una interprete aggraziata e tenera, nulla più. La cadenza, poi, nulla aggiunge al personaggio, né astrattezza, né drammaticità né, tanto meno l’ammirazione per un’esecuzione di grande capacità virtuosistica. Tacciamo, poi, dei sovracuti che suonano schiacciati e bianchi. Sarà anche colpa della registrazione, ma la riprova che la signora non li gradisse granchè risiede nella assoluta parsimonia con cui li interpola. Nella Butterfly non esegue la variante acuta all’ingresso!
Prendiamo un’altra pagina donizettiana, la cavatina di Linda. L’hanno eseguita tutti i soprani d’agilità e non solo queste perché se una Galli-Curci è esemplare per precisione di esecuzione, gusto e misura degli abbellimenti, una Tetrazzini per la prestanza dell’ottava superiore, la Toti perde colpi persino e più dinnanzi ad un’altra esecuzione “espressiva” ovvero quella di Rosina Storchio. Certo è aggraziata, dolce nel timbro, accorata nell’espressione. Tutto qui, però, e se proprio devo essere pignolo nella zona medio grave c’è anche il sospetto di qualche suono aperto, le quartine della seconda strofa sono abbastanza pasticciate, mentre il si nat delle battute di conducimento è smorzato con precisione, ma la cadenza è, per essere gentile, da principiante del canto d’agilità.
Le cose vanno un po’ meglio con la Maria della Figlia del reggimento, soprattutto nel “Convien partir” dove il gioco di piani e pianissimi è suggestivo, insomma abbiamo un interprete. Allorchè la cantante esegue la seconda aria di Maria il “Le ricchezze ed il grado” ed in particolare l’allegro conclusivo si sentono bene i limiti della virtuosa. Nella prima parte la cantante riesce ad essere varia e sfumata senza bamboleggiare (era il 1928) salvo che in qualche acuto, quando arriva l’allegro conclusivo lo slancio, il mordente, lo sfoggio acrobatico, che il passo e la situazione richiedono le sono assolutamente estranee anche se all’incipit della cabaletta la Toti interpola a piena voce un mi bem facilissimo e squillante. Per contro niente sovracuto in chiusa.
L’interprete nella cavatina di Norina del don Pasquale aria piccante e che ironizza sulla prima donna (e che primadonna trattandosi di Giulia Grisi) omette i trilli, l’unico che tenta è, poi, una acciacatura, non è ironica e, talvolta, indulge ad effetti da soubrette e non da prima donna seria in vena di autoironia. Insomma è il principio di una serie di interpreti, che fanno pensare che Giulia Grisi sia stata il primo soprano “coccodè” della storia e non già il paradigma della interprete da opera seria. All’ascoltatore moderno tutto questo può avere un pregio perchè la Toti non indulge mai ai vezzi ed alle iperboli vocali dei soprani di coloratura coevi, è rispettosa della linea musicale, non è quasi mai arbitraria, ma il brivido della coloratura, l’interpretazione ricercata e raffinata, il gioco, magari esagerato, di colori o la spontanea qualità del timbro hanno altre titolari, che possono chiamarsi Regina Pacini, Frida Hempel, Amelita Galli-Curci, Selma Kurz. Che poi non sono indenni da altri difetti.
Chiaro che una cantante di queste caratteristiche compiti un brano che, invece, dovrebbe essere il “defilé” della cantante come il Carnevale di Venezia. E’ buona la prima perché tocca la corda patetica e consente suoni raccolti e castigati, ma nella sezione conclusiva non basta e le acrobazie sono sempre e solo staccati e picchettati anche se un paio di effetti d’eco sono ragguardevoli ed il suono almeno sino al si nat è controllatissimo. E’ una della più acclamate esecuzioni della Toti, ma Luisa Tetrazzini con i suoi suoni in zona grave dall’emissione poco ortodossa rende in maniera unica il senso del brano che è in primo luogo spettacolo dell’esecutrice. Non dimentichiamoci che il Carnevale di Venezia era l’aria sostitutiva della Toti nella lezione del Barbiere.
Ho detto in apertura di queste riflessioni, che per certo dispiaceranno a molti, che la fama della Toti si può intuire dal frammento della Sonnambula viennese 1935. Nella propria autobiografia la cantante racconta che fu “Ah non credea mirarti” l’aria-studio prescelta dalla Marchisio. Ovvia la scelta: la scrittura è centrale e richiede un legato (ossia una capacità polmonare) di scuola ovvero il giovane cantante si può ben esercitare con questo passo. L’esecuzione ufficiale della Toti evidenzia esercizio costante e severo, si sente l’espansione della voce, il legato, il gusto sobrio si sente, insomma, che è una tetragona professionista e magari anche qualche cosa di più. Sulla levatura storica, continuo ad avere molti dubbi.
La fama di Toti dal Monte fu essenzialmente italiana. Dal 1916 al 1942 calcò tutti i palcoscenici italiani, onnipresente nei maggiori come nei più piccoli. Costantemente applaudita e celebrata per quella sua voce bianca e dolcissima, espressione, secondo il canone del tempo, di dolcezza, castità e candore.
I rapporti con i teatri stranieri furono saltuari: una tournée in Australia dove trovò anche il tempo di convolare a nozze con il tenore de Muro Lomanto (unico marito, ma non unico amore ufficiale della cantante) ed un’altra in Russia e Giappone, descritta dalla stessa cantante in maniera divertente nella propria autobiografia, qualche stagione al Colón e nel 1924-‘25 toccata e fuga al Met (impero ancora dei resti di Amelita Galli-Curci) con due recite di Rigoletto ed una di Lucia, qualche recita di più a Chicago, nel 1929, sotto la guida di Toscanini, la tournée della Scala a Berlino e nel 1935 a Vienna per il Barbiere e la Sonnambula, concerti di canto per tutta Europa.
La breve registrazione della Sonnambula viennese, Toti ultraquarantenne, con vent’anni di carriera alle spalle, che, per dirla con Rodolfo Celletti, già “totidalmonteggiava” può aiutare a comprendere il mito, ancor oggi vivo, della cantante. Perché sia chiaro dai dischi, pure registrati un decennio prima ed in condizioni vocali integre, della grandezza della cantante si può legittimamente dubitare. In quel frammento di Sonnambula sentiamo una voce chiara, dolce, morbida un poco sbiancata è vero, ma anche un’ampiezza e sonorità inconsuete per un soprano di coloratura, avvertiamo anche che al di là delle indubbie sbiancature la voce era sostenuta ed amplificata a regola d’arte. Come per tutti i cantanti di estrazione belcantista, questa fu la “scuola” di Barbara Marchisio, che consentì ad Antonietta Meneghel di reggere vent’anni di grande ed acclamata carriera. Non per nulla il soprano di coloratura aveva nei primissimi anni di carriera approcciato Butterfly (poi abbandonata e ripresa con molte recite nella fase finale di carriera) e aggiunto al repertorio Manon, Traviata, quest’ultima eseguita moltissimo dal 1935 in poi. Certo la scuola della Marchisio si era fermata lì ed è per quello che ritengo la vera ed autentica allieva sia Rosa Raisa, sia pure spesso dedita ad un repertorio alieno dal cosiddetto belcanto. In tal senso basta confrontare l’esecuzione della Cavatina di Norma delle due cantanti.
Soprano leggero per colore di voce e talora per gusto. Poco o nulla soprano d’agilità, ove per soprano d’agilità debba intendersi la cantante in grado di eseguire le più complete ed ardue figure acrobatiche e, magari, essere in grado di dare loro senso ed espressione drammatica. Basta considerare che nel repertorio della Toti mai comparvero Puritani, Lakmè, Crispino e la Comare piuttosto che Ugonotti o Dinorah, ovvero i titoli, che altre dive come la Hempel, la Galli Curci e persino la Pons imponevano e pretendevano dai teatri abitualmente frequentati. Basta ancora considerare come in nessuna incisione della Toti compaiano trilli, come terzine e quartine siano proposte -diciamo- al minimo sindacale e solo se previste dal testo a favore di staccati e picchettati.
La famosa pazzia della Toti e segnatamente la cadenza per lei preparata da Paolantonio (ed in quanto cadenza della Toti e, poi, della Callas eseguita praticamente da ogni Lucia, sull’errato presupposto che quella sia “la cadenza”) vede una interprete aggraziata e tenera, nulla più. La cadenza, poi, nulla aggiunge al personaggio, né astrattezza, né drammaticità né, tanto meno l’ammirazione per un’esecuzione di grande capacità virtuosistica. Tacciamo, poi, dei sovracuti che suonano schiacciati e bianchi. Sarà anche colpa della registrazione, ma la riprova che la signora non li gradisse granchè risiede nella assoluta parsimonia con cui li interpola. Nella Butterfly non esegue la variante acuta all’ingresso!
Prendiamo un’altra pagina donizettiana, la cavatina di Linda. L’hanno eseguita tutti i soprani d’agilità e non solo queste perché se una Galli-Curci è esemplare per precisione di esecuzione, gusto e misura degli abbellimenti, una Tetrazzini per la prestanza dell’ottava superiore, la Toti perde colpi persino e più dinnanzi ad un’altra esecuzione “espressiva” ovvero quella di Rosina Storchio. Certo è aggraziata, dolce nel timbro, accorata nell’espressione. Tutto qui, però, e se proprio devo essere pignolo nella zona medio grave c’è anche il sospetto di qualche suono aperto, le quartine della seconda strofa sono abbastanza pasticciate, mentre il si nat delle battute di conducimento è smorzato con precisione, ma la cadenza è, per essere gentile, da principiante del canto d’agilità.
Le cose vanno un po’ meglio con la Maria della Figlia del reggimento, soprattutto nel “Convien partir” dove il gioco di piani e pianissimi è suggestivo, insomma abbiamo un interprete. Allorchè la cantante esegue la seconda aria di Maria il “Le ricchezze ed il grado” ed in particolare l’allegro conclusivo si sentono bene i limiti della virtuosa. Nella prima parte la cantante riesce ad essere varia e sfumata senza bamboleggiare (era il 1928) salvo che in qualche acuto, quando arriva l’allegro conclusivo lo slancio, il mordente, lo sfoggio acrobatico, che il passo e la situazione richiedono le sono assolutamente estranee anche se all’incipit della cabaletta la Toti interpola a piena voce un mi bem facilissimo e squillante. Per contro niente sovracuto in chiusa.
L’interprete nella cavatina di Norina del don Pasquale aria piccante e che ironizza sulla prima donna (e che primadonna trattandosi di Giulia Grisi) omette i trilli, l’unico che tenta è, poi, una acciacatura, non è ironica e, talvolta, indulge ad effetti da soubrette e non da prima donna seria in vena di autoironia. Insomma è il principio di una serie di interpreti, che fanno pensare che Giulia Grisi sia stata il primo soprano “coccodè” della storia e non già il paradigma della interprete da opera seria. All’ascoltatore moderno tutto questo può avere un pregio perchè la Toti non indulge mai ai vezzi ed alle iperboli vocali dei soprani di coloratura coevi, è rispettosa della linea musicale, non è quasi mai arbitraria, ma il brivido della coloratura, l’interpretazione ricercata e raffinata, il gioco, magari esagerato, di colori o la spontanea qualità del timbro hanno altre titolari, che possono chiamarsi Regina Pacini, Frida Hempel, Amelita Galli-Curci, Selma Kurz. Che poi non sono indenni da altri difetti.
Chiaro che una cantante di queste caratteristiche compiti un brano che, invece, dovrebbe essere il “defilé” della cantante come il Carnevale di Venezia. E’ buona la prima perché tocca la corda patetica e consente suoni raccolti e castigati, ma nella sezione conclusiva non basta e le acrobazie sono sempre e solo staccati e picchettati anche se un paio di effetti d’eco sono ragguardevoli ed il suono almeno sino al si nat è controllatissimo. E’ una della più acclamate esecuzioni della Toti, ma Luisa Tetrazzini con i suoi suoni in zona grave dall’emissione poco ortodossa rende in maniera unica il senso del brano che è in primo luogo spettacolo dell’esecutrice. Non dimentichiamoci che il Carnevale di Venezia era l’aria sostitutiva della Toti nella lezione del Barbiere.
Ho detto in apertura di queste riflessioni, che per certo dispiaceranno a molti, che la fama della Toti si può intuire dal frammento della Sonnambula viennese 1935. Nella propria autobiografia la cantante racconta che fu “Ah non credea mirarti” l’aria-studio prescelta dalla Marchisio. Ovvia la scelta: la scrittura è centrale e richiede un legato (ossia una capacità polmonare) di scuola ovvero il giovane cantante si può ben esercitare con questo passo. L’esecuzione ufficiale della Toti evidenzia esercizio costante e severo, si sente l’espansione della voce, il legato, il gusto sobrio si sente, insomma, che è una tetragona professionista e magari anche qualche cosa di più. Sulla levatura storica, continuo ad avere molti dubbi.
Gli ascolti
Toti dal Monte
Bellini – La Sonnambula
Atto I – D’un pensiero e d’un accento (live con Aldo Sinnone – 1935)
Atto II – Ah non credea mirarti – (studio-1929, live-1935)
Bellini – Norma
Atto I – Casta Diva (1933)
Donizetti – Lucia di Lammermoor
Atto III – Splendon le sacre faci (1926)
Donizetti – La figlia del reggimento
Atto I – Convien partir (1926)
Atto II – Le ricchezze ed il grado fastoso…Di gioia bramata (1928)
Donizetti – Linda di Chamounix
Atto I – O luce di quest’anima (1929)
Donizetti – Don Pasquale
Atto I – Quel guardo il cavaliere (1941)
Verdi – Rigoletto
Atto I – Caro nome (1924)
Benedict – Il Carnevale di Venezia (1926)
Caro Domenico la tua analisi della vocalità e del percorso interpretativo della Toti è serenamente lucida, fa giusta chiarezza e riposiziona meglio un' artista a mio avviso sopravvalutata. Ho sentito, in disco, per la prima volta la Toti proprio in Norma che tu ci riproponi e la sensazione rimane la stessa di delusione rispetto ala fama conquistata, sensazione rimasta proseguendo nell' ascolto degli altri suoi celebri personaggi. Leziosità e manierismo non scompaiono neanche nelle sue registrazioni migliori. La sua voce e le sue interpretazioni non sono certo da buttare, ma a me continuano a sembrare avvolte dal fascino del vecchio per come sono datate.
Caro Domenico, la tua analisi della vocalità e del percorso interpretativo della Toti è serenamente lucida e fa giustizia di tanti fraintendimenti e riposiziona storicamente questa cantante in maniera adeguata. Ho sentito la Toti, in disco, la prima volta proprio nella Norma da te riproposta e la sensazione rimane sempre la stessa di delusione rispetto alle attese, alla fama, sensazione che si è poi ripetuta anche nell' ascoltare le altre registrazioni. Voce dalla tecnica buona, ma sempre leziosa e manierista anche nelle sue interpretazioni migliori, il loro carattere al confronto anche di interpreti coeve risulta limitato.