Il ruolo della appassionata sacerdotessa druidica è da sempre ammantato da un’aura non solo sacrale, ma anche di terrore e le cantanti che le si avvicinano lo fanno sempre in punta di piedi, con rispetto e timore reverenziale. Forse è esagerato, eppure Norma potrebbe diventare, per colei che ne ha le caratteristiche, il pesronaggio della vita, il personaggio con il quale verrà identificata dal pubblico, il personaggio che vale una carriera. L’Opernhaus di Zurigo ci prova presentando qualcosa di nuovo, puntando su una cantante di spiccata carriera belcantista, frequentatrice assidua e applaudita del palcoscenico zurighese.
Elena Mosuc, forte di una voce fino a poco tempo fa estesa e sufficientemente agile, probabilmente crede, o le hanno fatto credere, di essere colei che prenderà lo scettro di Edita Gruberova e Beverly Sills, con le quali condivide alcuni ruoli in repertorio, ma sicuramente non la sensibilità, l’intelligenza interpretativa o la perizia tecnica; e questa “sua” Norma è tragicamente qui a dimostrarlo.
Non so se per capriccio, per mancanza di alternative, per levarsi semplicemente uno sfizio, magari per la follia di un momento o, peggio ancora, per turpe consiglio, la Mosuc ha deciso di essere “Norma”: ed eccola qui “questa” Norma con la sua vocina piccina e carina, da soprano leggero, bianca, bianca, esile, esile, in posizione alta ed in maschera, certo, con tutte le sue notine più o meno belle e a posto, ovvio, con i suoi acutini in pianissimo lievi e soavi, sicuro; ma basta avere qualche nota per ESSERE Norma?
Per nulla, soprattutto se il registro grave è parlato o falsettante, gli acuti a piena voce tutti rigorosamente sostituiti da pianissimi flautati, suggestivi quanto si vuole, d’accordo, ma uno su tre di intonazione precaria oltre che di irritante monotonia espressiva, il legato funzionale a fasi alterne che sarebbe meglio chiamare “slegato” e quel vezzo di attaccare le note prima attraverso un suono fisso per poi farle vibrare.No, mi spiace, non basta!Ma allora c’è un fraseggio bruciante, un accento elettrizzante, una personalità travolgente, un’idea espressiva originale, altrimenti che senso ha questa figurina statica e pallente?
Vedete, la Cedolins, pur essendo fuori parte e in parte fuori stile, quando era in serata “si”, possedeva anch’essa le note, ma si sforzava con costrutto e sensibilità di infondere nella sua sacerdotessa druidica la sua personale visione; la Theodossiou, per quanto di canto sgangherato, possiede personalità e accento innegabili; la Anderson pur possedendo una voce limpida, più affine ad Adalgisa, sa padroneggiare lo stile, la tecnica e ha saputo scavare, nel tempo, il ruolo con rara sensibilità, anche arrivando un filo tardi; una Gruberova, per quanto discutibile vocalmente, oscillando tra i poli del grottesco e del sublime, ha sempre creduto nei suoi mezzi e nella SUA sacerdotessa, pur essendo lontana dalla quadratura del cerchio; una Dessì, quella della manciata di recite bolognesi, oscillando tra verismo e belcanto, e tenendo sotto controllo l’usura incipiente della voce, aveva temperamento da vendere, una femminilità incandescente, una sensualità del tutto naturale:
Ma la Mosuc… cos’è? Sotto quelle notine più o meno carine, sotto quella vocina delicata, sotto quei pianissimi cosa c’è?
Non la fantasia dell’interprete: le variazioni dei “da capo” sono avarissime, quasi minimaliste, e quando ci sono, ovviamente rivolte all’acuto o decorate con qualche sparuto vocalizzo, non possiedono alcun colore, alcuna vibrazione dell’anima, nessuna perentorietà; non si concede nemmeno un sovracuto fuori ordinanza, nei concertati magari, al termine delle scene, o delle arie, tanto per risvegliare i sensi assopiti del pubblico o per stupirlo. NIENTE! In tale monolitico contesto è c’è da sospettare che la Mosuc non abbia compreso il senso del libretto e delle parole, tanto care a Bellini e non è questione di debutto.
Così questa Norma diventa una macchina di note, un carillon sinistro, un file MIDI meccanico e raggelante nella sua totale assenza di accento, di tinta, di spessore, di commozione, di umanità, di carisma, tanto da sconsigliare vivamente la frequentazione della stessa Adalgisa, alla cui voce la Mosuc sarebbe destinata!
In definitiva la Mosuc è la figlioletta tascabile di Norma travestita da chierichetto e non so quanto sarebbe opportuno portare tale personaggio sulle tavole di altri teatri.
Per continuare sulla strada delle vocine, al fianco di questa Norma formato Zerlina (ogni riferimento è voluto) avrebbe dovuto esserci il nuovo super-tenore dei nostri giorni, Vittorio Grigolo, che ringrazio dal profondo del mio cuore e per aver con saggezza evitato, o rimandato, il debutto nel ruolo di Pollione.
Al suo posto un altro debuttante, Roberto Aronica, sonoro di voce e volume, di buona proiezione soprattutto nei registri centro-grave, ma stile e gusto allo stato brado, a volte palesemente rozzo nel suo canto perennemente paralizzato nel mezzo-forte con un accento mutuato dai marziali cinegiornali dell’Istituto Luce; ha quasi del virtuosistico l’uso del medesimo tono da “discorso in Piazza Venezia” sia per il corteggiamento di Adalgisa sia nelle risposte a Norma! Eviterò di infierire sul registro acuto crescente, fisso o calante secondo quanto suggerisce il momento drammatico.
Al suo fianco l’Adalgisa del mezzosoprano Michelle Breedt, già mediocre Fricka e Brangäne a Bayreuth, qui è solo di poco superiore. Gonfia le gote la signora Breedt pur di dimostrare che la voce c’è ed è sonora, almeno se circoscritta al solo registro centrale; peccato risuoni tutta in bocca, dunque velata, tanto da compromettere la dizione (molte consonanti sono opzionali) e la saldatura con il passaggio inferiore, vuoto, e superiore, stridente. Va, però, dato atto alla Breedt di essere l’unica sulla scena a possedere un minimo di accento, seppure aggressivo e non sempre a fuoco con l’azione, ma è già qualcosa.
Duro, arido e sgraziato l’Oroveso di Giorgio Giuseppini, che ha sostituito il basso László Polgár purtroppo deceduto nel Settembre dello scorso anno, in più il volume si è ridotto a tal punto che la voce è costantemente risucchiata dal coro; nella speranza che si sia trattata di una serata storta, è per me un vero peccato, visto che altrove ed in questi anni il cantante aveva offerto prove interessanti.
Liuba Chuchrova e Michael Laurenz interpretavano rispettivamente Clotilde e Flavio, la prima gorgogliando, il secondo nasaleggiando. Il coro diretto da Ernst Raffelsberger brilla per intonazione e compattezza, anche se suona un po’ esangue a causa di una direzione di rara sciatteria.
Il direttore Paolo Carignani, infatti, ha il pregio di regalarci una “Norma” praticamente integrale, con tanto di “da capo” e parche variazioni; peccato che si ricordi di essere un direttore d’orchestra soltanto nel Preludio del I atto e negli ultimi venti minuti finali (da “In mia man alfin tu sei”), alla luce dei fatti gli unici momenti in cui si sente un minimo di idea interpretativa ed un accompagnamento più mosso; purtroppo il resto è compitato, nota per nota, con un monocromatismo talmente pronunciato da sfiorare la narcolessia: tempi incoerenti nel loro perenne dibattersi tra velocità inconsuete e lentezze slabbrate, in puro stile “una nota al minuto” nel loro voler essere a tutti i costi forse sacrale o forse sublime, quando in realtà è soltanto insensibilità spinta fino al cinismo. Dopo un preludio suonato ottimamente dall’orchestra in un turbinio di colori al calor bianco e in un crescendo stringato e ricco di tensione, stesso trattamento che riceverà, anche se in maniera liofilizzata, il finale II, ecco che tutto si trasforma, perde ogni connotato diventando impersonale e profondamente noioso: l’aria e la cabaletta di Pollione, “Casta Diva”, arie, duetti e terzetti successivi, possiedono la stessa uniformità di un omogeneizzato, senza che nulla stravolga tale placido grigiore. Una implacabile trascuratezza espressiva davvero imperdonabile.
La regia anodina di Robert Wilson, con la sua immarcescibile astrattezza da teatro Nō giapponese, nulla può fare se non cercare di bombardare il pubblico con un simbolismo insistito.
Su una scena vuota, ma colorata da un accattivante disegno luci dello stesso Wilson, coadiuvato da AJ Weissbard e Hans-Rudolf Kunz si snoda una vicenda che contrappone il femminino sacro, rappresentato da Norma, incarnazione terrena e pallente della Luna e nelle sue fasi in un affascinante gioco di numeri, posizioni e rimandi, alla dimensione maschile connotandola sicuramente con Pollione e con il suo machismo sbruffone, ma anche con i guerrieri druidici dalle cui spalle di innalzano lunghe e minacciose lance.
Non solo, ma Pollione e Adalgisa, l’unica figura colorata, risultano figure mosse da pulsioni base, dall’istinto, dalla carne: così il primo troverà il suo corrispettivo in un candido leone dapprima e poi, durante il duetto con la giovinetta, in un fascinoso scambio di ruoli, entrambi vedranno tradotte le loro emozioni nei gesti eleganti di un unicorno, simbolo di purezza assoluta, ma anche fallico, ed un ariete, sia animale sacrificale, sia maschio dominante, in un continuo gioco di ruoli e scambi. Tutto molto elegante soprattutto nell’astrazione gestuale, tutto molto cervellotico e intellettuale in questa insistita metafora, certo, ma a lungo andare ci si ritrova a non capire le ragioni di Wilson, come i cubetti di ghiaccio sospesi nel vuoto, o quei mattoncini che volano verso un rosso ciel, oppure come possono essere mai nati quei due pargoletti se nessuno si guarda e nessuno si tocca. Così tra incoerenze tra quanto viene cantato e ciò che avviene in scena, con esiti a volte comici, e di fronte alle raffinatezze senza palpito di Wilson, si viene facilmente cullati dalle braccia di Morfeo.
Sublime noia d’autore.
Successo composto e cordiale alla fine, con una manciata di timidi buetti provenienti dalla platea e dalle gallerie a salutare Carignani alla sua uscita per i ringraziamenti: i contestatori non hanno pagato il fio della loro audacia con il sangue.
“Però la Callas… però la Milanov… però la Cerquetti… però la Sutherland… però la Scotto… però la Gencer… però la Caballé…” Già, “però”, questa parola che mette in discussione tutto, che fa riflettere, che rimanda a varie considerazioni anche storiche.
Quei “però” non erano miei: erano del pubblico zurighese, che evidentemente si aspettava altro, al termine della recita in riferimento alla presunta “adeguatezza” della protagonista.
“Però dovremmo ringraziare la Mosuc, che ci permette di ascoltare un’opera come Norma!”, ragionamento leggittimo e nel contempo accomodante; PERO’, appunto, siamo disposti, pur di rappresentare “Norma” ad ascoltarla in queste condizioni stilisticamente lontane e completamente travisate?
Con interpreti che non hanno nulla da spartire con i rispettivi ruoli?
Dobbiamo permettere e applaudire questi “Normicidi”, o altri esperimenti di tal fatta, pur di andare a teatro, accettando che “Le opere si fanno con i cantanti che passa il convento”, anche quando questi sono al di sotto delle aspettative o non hanno i requisiti richiesti?
Non era meglio, con una Mosuc, mettere in scena un’altra opera più adatta alle caratteristiche della cantante?
Non sono domande retoriche, rispondere NO sarebbe fin troppo facile, sono domande che mi sono posta per capire che importanza hanno il canto e lo stile oggi, per comprendere le ragioni di un teatro o di un artista, per conoscere i motivi che spingono a certe scelte, che non siano solo economiche.
Queste domande possono essere ovviamente estese a buona parte delle opere oggi ritenute giustamente “irrapresentabili”… con buona pace di coloro che parlano di “tempi d’oro!” e applaudono, giustificandola ed esaltandola perché “tal dei tempi è il costume” e va bene così, la mediocrità.
Elena Mosuc, forte di una voce fino a poco tempo fa estesa e sufficientemente agile, probabilmente crede, o le hanno fatto credere, di essere colei che prenderà lo scettro di Edita Gruberova e Beverly Sills, con le quali condivide alcuni ruoli in repertorio, ma sicuramente non la sensibilità, l’intelligenza interpretativa o la perizia tecnica; e questa “sua” Norma è tragicamente qui a dimostrarlo.
Non so se per capriccio, per mancanza di alternative, per levarsi semplicemente uno sfizio, magari per la follia di un momento o, peggio ancora, per turpe consiglio, la Mosuc ha deciso di essere “Norma”: ed eccola qui “questa” Norma con la sua vocina piccina e carina, da soprano leggero, bianca, bianca, esile, esile, in posizione alta ed in maschera, certo, con tutte le sue notine più o meno belle e a posto, ovvio, con i suoi acutini in pianissimo lievi e soavi, sicuro; ma basta avere qualche nota per ESSERE Norma?
Per nulla, soprattutto se il registro grave è parlato o falsettante, gli acuti a piena voce tutti rigorosamente sostituiti da pianissimi flautati, suggestivi quanto si vuole, d’accordo, ma uno su tre di intonazione precaria oltre che di irritante monotonia espressiva, il legato funzionale a fasi alterne che sarebbe meglio chiamare “slegato” e quel vezzo di attaccare le note prima attraverso un suono fisso per poi farle vibrare.No, mi spiace, non basta!Ma allora c’è un fraseggio bruciante, un accento elettrizzante, una personalità travolgente, un’idea espressiva originale, altrimenti che senso ha questa figurina statica e pallente?
Vedete, la Cedolins, pur essendo fuori parte e in parte fuori stile, quando era in serata “si”, possedeva anch’essa le note, ma si sforzava con costrutto e sensibilità di infondere nella sua sacerdotessa druidica la sua personale visione; la Theodossiou, per quanto di canto sgangherato, possiede personalità e accento innegabili; la Anderson pur possedendo una voce limpida, più affine ad Adalgisa, sa padroneggiare lo stile, la tecnica e ha saputo scavare, nel tempo, il ruolo con rara sensibilità, anche arrivando un filo tardi; una Gruberova, per quanto discutibile vocalmente, oscillando tra i poli del grottesco e del sublime, ha sempre creduto nei suoi mezzi e nella SUA sacerdotessa, pur essendo lontana dalla quadratura del cerchio; una Dessì, quella della manciata di recite bolognesi, oscillando tra verismo e belcanto, e tenendo sotto controllo l’usura incipiente della voce, aveva temperamento da vendere, una femminilità incandescente, una sensualità del tutto naturale:
Ma la Mosuc… cos’è? Sotto quelle notine più o meno carine, sotto quella vocina delicata, sotto quei pianissimi cosa c’è?
Non la fantasia dell’interprete: le variazioni dei “da capo” sono avarissime, quasi minimaliste, e quando ci sono, ovviamente rivolte all’acuto o decorate con qualche sparuto vocalizzo, non possiedono alcun colore, alcuna vibrazione dell’anima, nessuna perentorietà; non si concede nemmeno un sovracuto fuori ordinanza, nei concertati magari, al termine delle scene, o delle arie, tanto per risvegliare i sensi assopiti del pubblico o per stupirlo. NIENTE! In tale monolitico contesto è c’è da sospettare che la Mosuc non abbia compreso il senso del libretto e delle parole, tanto care a Bellini e non è questione di debutto.
Così questa Norma diventa una macchina di note, un carillon sinistro, un file MIDI meccanico e raggelante nella sua totale assenza di accento, di tinta, di spessore, di commozione, di umanità, di carisma, tanto da sconsigliare vivamente la frequentazione della stessa Adalgisa, alla cui voce la Mosuc sarebbe destinata!
In definitiva la Mosuc è la figlioletta tascabile di Norma travestita da chierichetto e non so quanto sarebbe opportuno portare tale personaggio sulle tavole di altri teatri.
Per continuare sulla strada delle vocine, al fianco di questa Norma formato Zerlina (ogni riferimento è voluto) avrebbe dovuto esserci il nuovo super-tenore dei nostri giorni, Vittorio Grigolo, che ringrazio dal profondo del mio cuore e per aver con saggezza evitato, o rimandato, il debutto nel ruolo di Pollione.
Al suo posto un altro debuttante, Roberto Aronica, sonoro di voce e volume, di buona proiezione soprattutto nei registri centro-grave, ma stile e gusto allo stato brado, a volte palesemente rozzo nel suo canto perennemente paralizzato nel mezzo-forte con un accento mutuato dai marziali cinegiornali dell’Istituto Luce; ha quasi del virtuosistico l’uso del medesimo tono da “discorso in Piazza Venezia” sia per il corteggiamento di Adalgisa sia nelle risposte a Norma! Eviterò di infierire sul registro acuto crescente, fisso o calante secondo quanto suggerisce il momento drammatico.
Al suo fianco l’Adalgisa del mezzosoprano Michelle Breedt, già mediocre Fricka e Brangäne a Bayreuth, qui è solo di poco superiore. Gonfia le gote la signora Breedt pur di dimostrare che la voce c’è ed è sonora, almeno se circoscritta al solo registro centrale; peccato risuoni tutta in bocca, dunque velata, tanto da compromettere la dizione (molte consonanti sono opzionali) e la saldatura con il passaggio inferiore, vuoto, e superiore, stridente. Va, però, dato atto alla Breedt di essere l’unica sulla scena a possedere un minimo di accento, seppure aggressivo e non sempre a fuoco con l’azione, ma è già qualcosa.
Duro, arido e sgraziato l’Oroveso di Giorgio Giuseppini, che ha sostituito il basso László Polgár purtroppo deceduto nel Settembre dello scorso anno, in più il volume si è ridotto a tal punto che la voce è costantemente risucchiata dal coro; nella speranza che si sia trattata di una serata storta, è per me un vero peccato, visto che altrove ed in questi anni il cantante aveva offerto prove interessanti.
Liuba Chuchrova e Michael Laurenz interpretavano rispettivamente Clotilde e Flavio, la prima gorgogliando, il secondo nasaleggiando. Il coro diretto da Ernst Raffelsberger brilla per intonazione e compattezza, anche se suona un po’ esangue a causa di una direzione di rara sciatteria.
Il direttore Paolo Carignani, infatti, ha il pregio di regalarci una “Norma” praticamente integrale, con tanto di “da capo” e parche variazioni; peccato che si ricordi di essere un direttore d’orchestra soltanto nel Preludio del I atto e negli ultimi venti minuti finali (da “In mia man alfin tu sei”), alla luce dei fatti gli unici momenti in cui si sente un minimo di idea interpretativa ed un accompagnamento più mosso; purtroppo il resto è compitato, nota per nota, con un monocromatismo talmente pronunciato da sfiorare la narcolessia: tempi incoerenti nel loro perenne dibattersi tra velocità inconsuete e lentezze slabbrate, in puro stile “una nota al minuto” nel loro voler essere a tutti i costi forse sacrale o forse sublime, quando in realtà è soltanto insensibilità spinta fino al cinismo. Dopo un preludio suonato ottimamente dall’orchestra in un turbinio di colori al calor bianco e in un crescendo stringato e ricco di tensione, stesso trattamento che riceverà, anche se in maniera liofilizzata, il finale II, ecco che tutto si trasforma, perde ogni connotato diventando impersonale e profondamente noioso: l’aria e la cabaletta di Pollione, “Casta Diva”, arie, duetti e terzetti successivi, possiedono la stessa uniformità di un omogeneizzato, senza che nulla stravolga tale placido grigiore. Una implacabile trascuratezza espressiva davvero imperdonabile.
La regia anodina di Robert Wilson, con la sua immarcescibile astrattezza da teatro Nō giapponese, nulla può fare se non cercare di bombardare il pubblico con un simbolismo insistito.
Su una scena vuota, ma colorata da un accattivante disegno luci dello stesso Wilson, coadiuvato da AJ Weissbard e Hans-Rudolf Kunz si snoda una vicenda che contrappone il femminino sacro, rappresentato da Norma, incarnazione terrena e pallente della Luna e nelle sue fasi in un affascinante gioco di numeri, posizioni e rimandi, alla dimensione maschile connotandola sicuramente con Pollione e con il suo machismo sbruffone, ma anche con i guerrieri druidici dalle cui spalle di innalzano lunghe e minacciose lance.
Non solo, ma Pollione e Adalgisa, l’unica figura colorata, risultano figure mosse da pulsioni base, dall’istinto, dalla carne: così il primo troverà il suo corrispettivo in un candido leone dapprima e poi, durante il duetto con la giovinetta, in un fascinoso scambio di ruoli, entrambi vedranno tradotte le loro emozioni nei gesti eleganti di un unicorno, simbolo di purezza assoluta, ma anche fallico, ed un ariete, sia animale sacrificale, sia maschio dominante, in un continuo gioco di ruoli e scambi. Tutto molto elegante soprattutto nell’astrazione gestuale, tutto molto cervellotico e intellettuale in questa insistita metafora, certo, ma a lungo andare ci si ritrova a non capire le ragioni di Wilson, come i cubetti di ghiaccio sospesi nel vuoto, o quei mattoncini che volano verso un rosso ciel, oppure come possono essere mai nati quei due pargoletti se nessuno si guarda e nessuno si tocca. Così tra incoerenze tra quanto viene cantato e ciò che avviene in scena, con esiti a volte comici, e di fronte alle raffinatezze senza palpito di Wilson, si viene facilmente cullati dalle braccia di Morfeo.
Sublime noia d’autore.
Successo composto e cordiale alla fine, con una manciata di timidi buetti provenienti dalla platea e dalle gallerie a salutare Carignani alla sua uscita per i ringraziamenti: i contestatori non hanno pagato il fio della loro audacia con il sangue.
“Però la Callas… però la Milanov… però la Cerquetti… però la Sutherland… però la Scotto… però la Gencer… però la Caballé…” Già, “però”, questa parola che mette in discussione tutto, che fa riflettere, che rimanda a varie considerazioni anche storiche.
Quei “però” non erano miei: erano del pubblico zurighese, che evidentemente si aspettava altro, al termine della recita in riferimento alla presunta “adeguatezza” della protagonista.
“Però dovremmo ringraziare la Mosuc, che ci permette di ascoltare un’opera come Norma!”, ragionamento leggittimo e nel contempo accomodante; PERO’, appunto, siamo disposti, pur di rappresentare “Norma” ad ascoltarla in queste condizioni stilisticamente lontane e completamente travisate?
Con interpreti che non hanno nulla da spartire con i rispettivi ruoli?
Dobbiamo permettere e applaudire questi “Normicidi”, o altri esperimenti di tal fatta, pur di andare a teatro, accettando che “Le opere si fanno con i cantanti che passa il convento”, anche quando questi sono al di sotto delle aspettative o non hanno i requisiti richiesti?
Non era meglio, con una Mosuc, mettere in scena un’altra opera più adatta alle caratteristiche della cantante?
Non sono domande retoriche, rispondere NO sarebbe fin troppo facile, sono domande che mi sono posta per capire che importanza hanno il canto e lo stile oggi, per comprendere le ragioni di un teatro o di un artista, per conoscere i motivi che spingono a certe scelte, che non siano solo economiche.
Queste domande possono essere ovviamente estese a buona parte delle opere oggi ritenute giustamente “irrapresentabili”… con buona pace di coloro che parlano di “tempi d’oro!” e applaudono, giustificandola ed esaltandola perché “tal dei tempi è il costume” e va bene così, la mediocrità.
Non mi fanno entrare sulla chat; e va bene. Mi sposto qui per notare che l'assurdità dei messaggi di stasera nella chat supera l'immaginabile. Muti è moscio in confronto all'esecuzione della Scala; addirittura sembra Gardelli. Naturalmente quando l'ha fatto alla Scala si rimpiangeva quello di Firenze. Tutto già visto. Sulla chat sono riusciti a superare, e non era facile, le assurditàò dei conduttori. Un ottimo e non facilmente superabile risultato.
Marco Ninci
Ma chi è che non ti fa entrare sulla chat, povero Ninci, perseguitato dai brutti e cattivi grisini? Per tua informazione non riusciamo a bannare nessuno dalla chat se in quel momento non sta scrivendo, quindi se non sei nemmeno riuscito a entrare, molto probabilmente ti sei semplicemente dimenticato la password. Capita. Suggerisco una cura di fosforo o ancora meglio un blocco per appunti su cui segnare i dati di accesso. E comunque nulla ti vietata di registrarti con altro user, che ne so, "marco.ninci" oppure "nincimarco", così da aggirare l'ostacolo (pour ainsi dire). Cmq vedo che il tono sprezzante e paternalistico dei tuoi interventi è sempre il medesimo. E come al solito non spieghi perché Muti ieri sera surclassava il se stesso della Scala, che a sua volta surclassava quello di Firenze, che a sua volta era meglio di tutti i direttori passati, presenti e futuri (con l'eccezione del Muti della Scala e di quello di ieri sera, anche se il quarto atto l'ha diretto praticamente dormendo. E noi con lui).
Caro Tamburini, grazie della consulenza informatica, ma ci deve essere qualcosa che non va, perché la password la ricordo benissimo. Comunque mi registrerò con un altro nome. Quanto al resto, non devo spiegare nulla, dal momento che mi metti in bocca ciò che non ho mai detto. In questo tu, Giulia e Donzelli siete speciali, mentre questo non mi è mai successo con Marianne e Duprez. L'aggettivo "paternalistico" è molto interessante; dice ben poco di me e invece molto di te. Come sempre. Per quanto riguarda la chat, lì il gruppo tende a trasformarsi in branco, con un ah ah ah generale da cui manca una pur minima traccia di umorismo o, almeno, di autoironia. Leggervi che dopo l'Otello di Salisburgo e questo Nabucco Verdi non ha più nulla a che vedere con Muti è un'affermazione che lascia a bocca aperta. Come sorprendente è vedere in Muti un'affinità con Gardelli, il peggior direttore di opera italiana che io abbia mai sentito dal vivo.
Marco Ninci
Chi viene qui regolarmente a insegnare la morale ad amministratori e utenti, chi predica il rispetto reciproco nel momento stesso in cui non ne rispetta il presupposto, vale a dire la reciprocità, chi deve sempre e comunque sottolineare la propria estraneità e differenza rispetto ad interlocutori che hanno il solo torto di non essere un pubblico ubbidiente, caro Ninci, non sono certo io.
Le affermazioni della chat, dici tu, lasciano a bocca aperta e sono sorprendenti. Sentiamo un po' le tue, se ne hai.
Vorrei dire qualcosa di più preciso riguardo alla serata di giovedì sera. Non voglio certo sottrarmi alla discussione ma finora non ne ho avuto il tempo. In primo luogo tengo a precisare a Tamburini che io non ho un pubblico; parlo con delle persone. Tanto meno lo pretendo obbediente; perché, se così fosse, mi stancherei subito di intervenire. Per me la discussione è tutto; si può forse discutere con qualcuno che ti obbedisce? Ma via… Bene, il "Nabucco". Non sarò io a negare che il cast dell'opera fosse debole. Nucci è chiaramente troppo anziano. La Boross però aveva una voce e un'interpretazioni interessanti, anche se con qualche stridore di troppo. Il cantante che impersonava Zaccaria aveva un buon registro acuto, ma nella tessitura bassa la voce era fioca. Poli come Ismaele davvero bravissimo. Tuttavia questo cast discutibile era inquadrato magnificamente dalla direzione di Muti. Il fatto era che questa direzione si presentava come molto diversa da quella della Scala e da quella di Firenze. Una direzione più meditata, meno presa da quelle vorticose accelerazioni che improntavano le occasioni precedenti, più attenta alle radici rossiniane dell'opera.
In questo ambito unitario di straordinaria finezza (basta ricordare la pesantezza di Sinopoli, ad esempio, per misurare la distanza siderale da Muti) le intenzioni dei cantanti si inserivano con naturalezza, anche se non sempre premiate da un risultato vocalmente tornito. Del resto, sarebbe bastato leggere la recensione di Duprez al "Requiem" verdiano di Chicago per rendersi conto di questa svolta di Muti. Anche in quell'occasione Duprez sottolineava l'insufficienza dei cantanti, ma questo non gli impediva di misurare gli straordinari risultati della visione globale, che portava la sigla del direttore, un'interpretazione più calma, più meditata, più attenta a valorizzare le pieghe nascoste della partitura. Così, almeno mi sembra, è accaduto per il "Nabucco" romano, come era accaduto, sempre a Roma, per il "Moise" e l'"Otello". Ma nei commenti c'era anche qualcosa di più interessante. Vi si leggeva una caratteristica che ho ritrovato anche in altre occasioni. Quando si parla di Muti c'è sempre un "sì, però". Certo, è una buona esecuzione, ma si nota una decadenza rispetto a quanto Muti aveva fatto prima. Nel tempo della Scala si rimpiangeva Firenze, dalle parole sulla chat di Gianguido si deduce che, almeno per il "Nabucco",si rimpiange la Scala.
Ora, io ho sentito dire più volte che, durante il suo tempo alla Scala, Muti, inseguendo l'esempio (ovviamente irraggiungibile per i suoi detrattori) di Abbado, avrebbe rinunciato alla sua caratteristica migliore, la spontaneità primitiva non troppo problematica, quella appunto degli anni di Firenze. A dire la verità, ciò non toglie che negli anni di Firenze quella spontaneità gli venisse appunto rimproverata, per il suo carattere banalmente grossolano, quasi che Muti fosse stato un bestione senza arte né parte. Gli si augurava quindi di raffinare l'indubbia musicalità della sua natura (perché mettere in dubbio le sue doti naturali sarebbe stato troppo perfino per gente come Stinchelli). Quando poi la raffinatezza venne, almeno come scelta di repertorio, Gluck e Mozart e non più l'"Attila" e il "Nabucco" (che per Sinchelli continuano ad essere l'emblema di Muti, che per altro secondo il suo parere li esegue anche male), non andò bene nemmeno questa volta. Muti si era spinto troppo in là e la raffinatezza era divenuta un insieme di mossettine esangui e devitalizzate. Non era roba per lui; meglio, molto meglio che ritornasse al suo antro, a seminare botte e fracasso nel suo amato primo Verdi.
Ciò che si può dedurre da tutto questo andirivieni, per la verità abbastanza divertente per chi si interessa alla psicologia del pubblico, è che per Muti esiste non sempre (Duprez insegna), ma molto spesso, un "altrove" nel quale si rifugia un apprezzamento per il direttore; rifugio inaccessibile e sicuro ma, appunto, situato "altrove". Questo "altrove" può prendere la forma delle occasioni più diverse, dal "Nabucco" della Scala agli anni di Firenze considerati nella loro generalità. Non è questo importante; l'importante è proprio che sia situato da un'altra parte. Per cui alla fine, al di là delle indicazioni di luogo e di tempo,l'"altrove" rimane una regione indefinita; ed ha la consistenza dell'età dell'oro, del tempio in cui sgorgavano spontaneamente latte e miele. La sua figura ha veramente una fisionomia enigmatica, difficile da delineare con precisione. Ed incontra delle resistenze che io riscontrato solo per Karajan. Ho ascoltato Karajan dal vivo innumerevoli volte ed è senza dubbio e senza paragoni il direttore d'orchestra più grande in cui mi sia imbattuto (forse con l'eccezione di Klemperer, sotto la cui direzione ho ascoltato la Seconda di Mahler nel 1962; ma ero ancora un ragazzo, benchè di quell'occasione abbia un ricordo molto vivido). Eppure Karajan suscitava nella critica e in una parte del pubblico numerose avversioni.
Non c'è mai stato per lui quel fervore quasi mistico che al giorno d'oggi, per esempio, si ammanta di fumi di incenso per Abbado; o quella curiosa mescolanza di ingenua acriticità ed ammirazione intellettuale che porta tanti a compiere i loro sacrifici sull'altare bouleziano. A dispetto dell'immensa popolarità di cui godeva, o forse proprio per questo, a Karajan queste disposizioni fideistiche non sono mai toccate. Ed oggi, a più di venti anni dalla sua morte, la situazione è forse peggiorata. Le sue incisioni sono sempre soggette a qualche distinguo, quando non apertamente scartate. A differenza per esempio di quanto accade per Sinopoli, sempre molto ammirato, quando per me fra i due interpreti non c'è neppure metro comune, non fosse altro che per la statura tecnica di Karajan, in confronto alle vistosissime mancanze del gesto di Sinopoli. Quante volte ho sentito dire che il periodo buono di Karajan finiva con la direzione della Philharmonia! Il resto era solo commercio! Due interpreti sostanzialmente mediatici, Muti e Karajan, lo pensano in molti. Chi sa che questa sbrigativa definizione non sia se non la spia di una difficoltà a comprendere, di una segretezza delle loro fisionomie, una segretezza che me li rende ancora più cari?
Marco Ninci