La nostra frenetica Pasta è volata alla volta di Parigi causa i suoi mille impegni di diva. Tra un successo e l’altro ha avuto modo di recarsi all’Opéra, ove ha assistito alla Luisa Miller verdiana, protagonista Krassimira Stoyanova.
Il 10 marzo abbiamo assistito alla seconda recita di “Luisa Miller” all’Opéra Bastille di Parigi. Recita che può facilmente servire per fare una piccola anatomia delle tendenze generali sia del canto attuale sia delle predilezioni di un pubblico moderno.
L’allestimento di Gilbert Deflò è puramente decorativo. Il signor Deflo ci risparmia un’interpretazione originale ed ultra-moderna della “tragedia borghese” verdiana-schilleriana e si accontenta con un sottofondo che dipinge un sereno paesaggio provinciale. Sul primo piano si alternano le varie scene con una semplicità scenografica che lascia tutta la libertà ai cantanti, cioè li abbandona interamente alle loro capacità vocali e drammatiche. Il pubblico parigino non ha voluto apprezzare questa circostanza ed è anzi comprensibile la sua fredda distanza verso questa regia (o assenza di regia), perche le decorazioni quali decorazioni mancavano visibilmente di gusto e di quella discreta invenzione che rende autenticamente suggestiva anche la più semplice scenografia. Ma si chiede se l’illuminato pubblico di Parigi avrebbe preferito vedere una “lettura” moderna ed “attuale” dell’opera verdiana che, pur essendo basata sulla tragedia di Schiller, non contiene quasi più nessun potenziale per essere rappresentata come qualcos’altro che un solito melodramma del Verdi degli “anni di galera” con tutta la brillantezza di tante delle pagine vocali e le sue debolezze drammatiche. C’è poco che sia così grottesco come il progetto di rendere “problematico per l’attualità” un banale melodramma italiano che non richiede altro che essere ben eseguito musicalmente per potere affermare la sua validità attuale.
Eppure, se anche “Luisa Miller” fosse un’opera della più grande intensità e coerenza drammatica, il maestro Daniel Oren, direttore dello spettacolo parigino, sarebbe stato perfettamente in grado di distruggerla fino nell’ultimo dettaglio. Ha diretto l’intero spartito con un’assenza totale di senso della struttura e dell’equilibrio musicale (addirittura scandaloso nella sinfonia!). Ha prodotto solo un fracasso insopportabile anche nei semplici accordi che richiedevano di essere eseguiti sul forte, ed ha accompagnato i cantanti senza qualsiasi flessibilità ed istinto ad hoc per le esigenze di ciascun di loro, per non parlare del rumore con cui era sempre pronto a coprire i solisti nei momenti vocali decisivi, come nella seconda aria di Luisa o l’aria di Rodolfo. Una prova senza lode né infamia, invece, da parte del coro dell’Opéra.
Passiamo al cast ed iniziamo dalle voci maschili. I due bassi che incarnavano i ruoli del Conte e di Wurm, ossia Orlin Anastassov e Aratjun Kotchinian, sono degli esemplari rappresentanti della moderna scuola slava del canto di basso. Le voci sono emesse tutta di gola, rigide nella gestione della linea vocale e si lasciano portare dall’unica intenzione di una cruda e selvaggia dimostrazione di “Guardate quanto volume ho!”. Il baritono Franck Ferrari, che interpretava il padre Miller, s’iscrive in quella lista interminabile dei baritoni dal timbro anonimo, sgraziato ed invecchiato, fraseggio abbaiante, particolarmente malmessa negli acuti, che finiscono sia nella gola sia nel naso sia in entrambi. Peculiarità del signor Ferrari il fatto di non sentirsi nella grandiosa sala della Bastille quando cantava nel registro acuto.
Marcelo Alvarez quale Rodolfo non mi è affatto piaciuto. Non posso comprendere che cosa ci sia di così “emozionante” nel suo canto squarciagola, dall’emissione volgare, che alterna suoni aperti e nasali, nominali “mezze-voci”, che sono nient’altro che dei suoni mal falsettati alla Jonas Kaufmann. Il legato è debolissimo ed un una espressività ispirata al peggior naturalismo e sentimentalismo. Tuttavia, è questo tipo di canto, completamente spinto, aggressivo e privo di qualsiasi mediazione e stilizzazione, a piacere al pubblico parigino. E’ stato Marcelo Alvarez, infatti, a ricevere i più grandi applausi sia dopo la sua aria che alle uscite singole, mentre il pubblico non ha saputo tirare una differenza qualitativa fra la Federica spoggiata e calante di una Maria Jose Montiel e la formidabile Luisa del soprano bulgaro Krassimira Stoyanova, premiandole entrambe con un applauso tanto genericamente caloroso quanto indifferente alla qualità e alle premesse tecniche delle rispettive prestazioni.
Krassimira Stoyanova, pur non essendo più un’artista giovane, ha mostrato una voce più fresca dei suoi colleghi. Non mi ha convinto nella prima aria (“Lo vidi in primo palpito”) dove ha omesso tutti i picchettati prescritti dallo spartito verdiano, senza veramente compensare la mancanza della brillantezza vocale dell’aria con un fraseggio particolarmente incisivo. Tuttavia, già dall’inizio, la Stoyanova ha regalato alle nostre orecchie un suono interamente immascherato, rotondo, morbido ed omogeneo in tutti i registri, una linea vocale naturalissima ed agile, ed innumerevoli smorzature, messe di voce, mezze-voci e pianissimi che non erano né falsettati, né indietro, come quelli appena udibili di Alvarez. Al contrario, le mezze-voci della Stoyanova riempivano l’intera sala della Bastille e circondavano l’orecchio, confermando ancora una volta che le vere mezze-voci sono quelle che non sono caratterizzate né da una riduzione del volume e della pienezza del colore né da una trasposizione della voce nella gola o qualsiasi altro posto oltre la maschera. Il personaggio incarnato dalla Stoyanova è stato massimamente lirico, e questo unicamente per una gestione coerente dei suoi mezzi vocali che, per quanto attestano una bella preparazione tecnica, sono tanto ingenerosi di natura. La voce della Stoyanova non è grande per volume, ma è resa udibile al massimo da un’ottima proiezione. Sono soprattutto gli acuti ad essere di natura limitati nel volume (non saprei dire se la causa sia l’usura della voce per l’alto ritmo della carriera…). Il soprano bulgaro, perciò, sceglie di conformare la concezione del personaggio alle sue premesse vocali naturali e rende Luisa autenticamente lirica, tutta fatta di piani e pianissimi. Ha cantato l’aria e la cabaletta del secondo atto senza un sol suono spinto e sforzato ed è stata massimamente sonora e drammatica attraverso una minima perdita di energia, grazie al suo canto gestito tutto sul fiato ed eterei pianissimi e mezze-voci. Eppure il suo atto è stato il terzo dove, eccetto due acuti un po’ spinti, ha incarnato una Luisa pronta alla morte, morente prima ancora di aver bevuto il veleno. Solidissima nel duetto con il padre, offrendoci una “La tomba è un letto” tutto morbido, sul piano e preciso nell’esecuzione; davvero commovente nella preghiera e stupenda nel terzetto finale cantando “Ah vieni meco” con un legato ed un’espressività eccezionali.
E’ stata lei a dimostrare che cosa sia il canto di scuola, non avendo mai cantato “forte”, generico, alla Alvarez. Può essere che alla Stoyanova manchi talvolta un poco di passione (come nella prima aria) o di slancio e che non sia particolarmente carismatica, ma un canto come quello di Krassimira Stoyanova suona, soprattutto per i nostri giorni, come un vero lusso. Ed è finalmente stata un personaggio completo, soprattutto per la sua coerenza vocale. Ma il pubblico parigino sembra avesse un’idea molto differente della coerenza ed attrattività artistica, mancando l’ascolto di un canto non-sforzato, dolce e flessibile e apprezzando le cosiddette mezze-voci solo laddove siano emesse di gola, inudibili, falsettate ed in radicale ed assurda opposizione ad un canto a squarciagola o tutto forte negli altri casi. Cantare piano o mezza-voce equivarrebbe a cantare senza essere udito, e cantare forte equivarrebbe a cantare spingendo e sforzando. E’ un’estetica sonora che sembra avere profondamente impregnato le orecchie dei parigini (e a questo punto non solo dei parigini…). Ancora una volta si conferma il triste fatto che cantanti capaci (che ci sono anche oggi!) come Krassimira Stoyanova non corrispondono con la loro estetica vocale e preparazione tecnica (che rende possibile ad un soprano di limitato volume come lei di cantare alla Bastille senza essere microfonata) al gusto generale del pubblico. Una psicologia del personaggio dipinta non dalle energiche gesticolazioni, ma dalle rifinitezze della tecnica vocale, non piace. E’ ormai una vox clamans in deserto (scusate il riferimento al latino…. sono grisino!). Forse ci vuole un/a cantante di simile compostezza tecnica che abbia al contempo più carisma e fascino scenico per (re)insegnare alle orecchie moderne la differenza fra il bel canto ed il mal canto? Perché è evidente che questo dovrebbe fare un cantante, sul palcoscenico, oggi. Ed un ascoltatore critico (grisino o no, cattivo o no) non può fare altro che cercare di distinguere e di fare valere questa differenza qualitativa.
Il 10 marzo abbiamo assistito alla seconda recita di “Luisa Miller” all’Opéra Bastille di Parigi. Recita che può facilmente servire per fare una piccola anatomia delle tendenze generali sia del canto attuale sia delle predilezioni di un pubblico moderno.
L’allestimento di Gilbert Deflò è puramente decorativo. Il signor Deflo ci risparmia un’interpretazione originale ed ultra-moderna della “tragedia borghese” verdiana-schilleriana e si accontenta con un sottofondo che dipinge un sereno paesaggio provinciale. Sul primo piano si alternano le varie scene con una semplicità scenografica che lascia tutta la libertà ai cantanti, cioè li abbandona interamente alle loro capacità vocali e drammatiche. Il pubblico parigino non ha voluto apprezzare questa circostanza ed è anzi comprensibile la sua fredda distanza verso questa regia (o assenza di regia), perche le decorazioni quali decorazioni mancavano visibilmente di gusto e di quella discreta invenzione che rende autenticamente suggestiva anche la più semplice scenografia. Ma si chiede se l’illuminato pubblico di Parigi avrebbe preferito vedere una “lettura” moderna ed “attuale” dell’opera verdiana che, pur essendo basata sulla tragedia di Schiller, non contiene quasi più nessun potenziale per essere rappresentata come qualcos’altro che un solito melodramma del Verdi degli “anni di galera” con tutta la brillantezza di tante delle pagine vocali e le sue debolezze drammatiche. C’è poco che sia così grottesco come il progetto di rendere “problematico per l’attualità” un banale melodramma italiano che non richiede altro che essere ben eseguito musicalmente per potere affermare la sua validità attuale.
Eppure, se anche “Luisa Miller” fosse un’opera della più grande intensità e coerenza drammatica, il maestro Daniel Oren, direttore dello spettacolo parigino, sarebbe stato perfettamente in grado di distruggerla fino nell’ultimo dettaglio. Ha diretto l’intero spartito con un’assenza totale di senso della struttura e dell’equilibrio musicale (addirittura scandaloso nella sinfonia!). Ha prodotto solo un fracasso insopportabile anche nei semplici accordi che richiedevano di essere eseguiti sul forte, ed ha accompagnato i cantanti senza qualsiasi flessibilità ed istinto ad hoc per le esigenze di ciascun di loro, per non parlare del rumore con cui era sempre pronto a coprire i solisti nei momenti vocali decisivi, come nella seconda aria di Luisa o l’aria di Rodolfo. Una prova senza lode né infamia, invece, da parte del coro dell’Opéra.
Passiamo al cast ed iniziamo dalle voci maschili. I due bassi che incarnavano i ruoli del Conte e di Wurm, ossia Orlin Anastassov e Aratjun Kotchinian, sono degli esemplari rappresentanti della moderna scuola slava del canto di basso. Le voci sono emesse tutta di gola, rigide nella gestione della linea vocale e si lasciano portare dall’unica intenzione di una cruda e selvaggia dimostrazione di “Guardate quanto volume ho!”. Il baritono Franck Ferrari, che interpretava il padre Miller, s’iscrive in quella lista interminabile dei baritoni dal timbro anonimo, sgraziato ed invecchiato, fraseggio abbaiante, particolarmente malmessa negli acuti, che finiscono sia nella gola sia nel naso sia in entrambi. Peculiarità del signor Ferrari il fatto di non sentirsi nella grandiosa sala della Bastille quando cantava nel registro acuto.
Marcelo Alvarez quale Rodolfo non mi è affatto piaciuto. Non posso comprendere che cosa ci sia di così “emozionante” nel suo canto squarciagola, dall’emissione volgare, che alterna suoni aperti e nasali, nominali “mezze-voci”, che sono nient’altro che dei suoni mal falsettati alla Jonas Kaufmann. Il legato è debolissimo ed un una espressività ispirata al peggior naturalismo e sentimentalismo. Tuttavia, è questo tipo di canto, completamente spinto, aggressivo e privo di qualsiasi mediazione e stilizzazione, a piacere al pubblico parigino. E’ stato Marcelo Alvarez, infatti, a ricevere i più grandi applausi sia dopo la sua aria che alle uscite singole, mentre il pubblico non ha saputo tirare una differenza qualitativa fra la Federica spoggiata e calante di una Maria Jose Montiel e la formidabile Luisa del soprano bulgaro Krassimira Stoyanova, premiandole entrambe con un applauso tanto genericamente caloroso quanto indifferente alla qualità e alle premesse tecniche delle rispettive prestazioni.
Krassimira Stoyanova, pur non essendo più un’artista giovane, ha mostrato una voce più fresca dei suoi colleghi. Non mi ha convinto nella prima aria (“Lo vidi in primo palpito”) dove ha omesso tutti i picchettati prescritti dallo spartito verdiano, senza veramente compensare la mancanza della brillantezza vocale dell’aria con un fraseggio particolarmente incisivo. Tuttavia, già dall’inizio, la Stoyanova ha regalato alle nostre orecchie un suono interamente immascherato, rotondo, morbido ed omogeneo in tutti i registri, una linea vocale naturalissima ed agile, ed innumerevoli smorzature, messe di voce, mezze-voci e pianissimi che non erano né falsettati, né indietro, come quelli appena udibili di Alvarez. Al contrario, le mezze-voci della Stoyanova riempivano l’intera sala della Bastille e circondavano l’orecchio, confermando ancora una volta che le vere mezze-voci sono quelle che non sono caratterizzate né da una riduzione del volume e della pienezza del colore né da una trasposizione della voce nella gola o qualsiasi altro posto oltre la maschera. Il personaggio incarnato dalla Stoyanova è stato massimamente lirico, e questo unicamente per una gestione coerente dei suoi mezzi vocali che, per quanto attestano una bella preparazione tecnica, sono tanto ingenerosi di natura. La voce della Stoyanova non è grande per volume, ma è resa udibile al massimo da un’ottima proiezione. Sono soprattutto gli acuti ad essere di natura limitati nel volume (non saprei dire se la causa sia l’usura della voce per l’alto ritmo della carriera…). Il soprano bulgaro, perciò, sceglie di conformare la concezione del personaggio alle sue premesse vocali naturali e rende Luisa autenticamente lirica, tutta fatta di piani e pianissimi. Ha cantato l’aria e la cabaletta del secondo atto senza un sol suono spinto e sforzato ed è stata massimamente sonora e drammatica attraverso una minima perdita di energia, grazie al suo canto gestito tutto sul fiato ed eterei pianissimi e mezze-voci. Eppure il suo atto è stato il terzo dove, eccetto due acuti un po’ spinti, ha incarnato una Luisa pronta alla morte, morente prima ancora di aver bevuto il veleno. Solidissima nel duetto con il padre, offrendoci una “La tomba è un letto” tutto morbido, sul piano e preciso nell’esecuzione; davvero commovente nella preghiera e stupenda nel terzetto finale cantando “Ah vieni meco” con un legato ed un’espressività eccezionali.
E’ stata lei a dimostrare che cosa sia il canto di scuola, non avendo mai cantato “forte”, generico, alla Alvarez. Può essere che alla Stoyanova manchi talvolta un poco di passione (come nella prima aria) o di slancio e che non sia particolarmente carismatica, ma un canto come quello di Krassimira Stoyanova suona, soprattutto per i nostri giorni, come un vero lusso. Ed è finalmente stata un personaggio completo, soprattutto per la sua coerenza vocale. Ma il pubblico parigino sembra avesse un’idea molto differente della coerenza ed attrattività artistica, mancando l’ascolto di un canto non-sforzato, dolce e flessibile e apprezzando le cosiddette mezze-voci solo laddove siano emesse di gola, inudibili, falsettate ed in radicale ed assurda opposizione ad un canto a squarciagola o tutto forte negli altri casi. Cantare piano o mezza-voce equivarrebbe a cantare senza essere udito, e cantare forte equivarrebbe a cantare spingendo e sforzando. E’ un’estetica sonora che sembra avere profondamente impregnato le orecchie dei parigini (e a questo punto non solo dei parigini…). Ancora una volta si conferma il triste fatto che cantanti capaci (che ci sono anche oggi!) come Krassimira Stoyanova non corrispondono con la loro estetica vocale e preparazione tecnica (che rende possibile ad un soprano di limitato volume come lei di cantare alla Bastille senza essere microfonata) al gusto generale del pubblico. Una psicologia del personaggio dipinta non dalle energiche gesticolazioni, ma dalle rifinitezze della tecnica vocale, non piace. E’ ormai una vox clamans in deserto (scusate il riferimento al latino…. sono grisino!). Forse ci vuole un/a cantante di simile compostezza tecnica che abbia al contempo più carisma e fascino scenico per (re)insegnare alle orecchie moderne la differenza fra il bel canto ed il mal canto? Perché è evidente che questo dovrebbe fare un cantante, sul palcoscenico, oggi. Ed un ascoltatore critico (grisino o no, cattivo o no) non può fare altro che cercare di distinguere e di fare valere questa differenza qualitativa.
Verdi – Luisa Miller
Preludio – Francesco Molinari-Pradelli (1969)
Atto II
Quando le sere al placido – Fernando de Lucia (1908)
Atto III
La tomba è un letto sparso di fiori…Andrem raminghi e poveri – Luisa Maragliano & Mario Zanasi (1969)
Hai tu vergato questo foglio? – Richard Tucker, Luisa Maragliano & Mario Zanasi (1969)
La Stojanova è l´ennesima dimostrazione del provincialismo e dell´ignoranza crassa che caratterizza la gestione dei teatri italiani. Infatti, nonostante questa ottima cantante (confermo quanto scrive Giuditta perchè l´ho sentita dal vivo) sia attiva da anni sulle maggiori scene mondiali, in Italia ha cantato solo una volta, nella Iphigenie diretta da Muti a Roma nel 2009, e la sua prova non fu minimamente segnalata.
Come dico spesso, qualche cantante buono in giro si trova. Se poi in Italia scritturano gli scarti, non si lamentino poi se il pubblico fischia!
Saluti
Cara Giuditta…Oren, purtroppo, è sempre una "garanzia"…
caro mozart
il problema è che chi predispone i rosters di agenzia dovrebbe dedicarsi ad altro!!!
Ti cito due casi per me clamorosi Irina Makarova mezzo soprano russo vene in scala fu una Amneris regale vocalmente e fisicamente passata come nulla fosse.
Idem in Scala, un po' meglio altrove Shalva Mukeria che fu in Scala un Tonio splendido e di altri tempi. Sai quelli che piacciono tanto a Domenico
ciao DD
Io ho ascoltato dal vivo la Stoyanova nell'Ifigenia in Aulide diretta splendidamente da Muti a Roma. Fu un esempio di collaborazione esemplare da parte di due artisti davvero rilevanti.
Marco Ninci
Ho ascoltato la Stoyanova a Barcelona comme Desdemona, Leonora (Trovatore), Amelia Grimaldi e Luisa Miller, e sempre ha stato bravissima, anche se non ha il volume e la densità che questi ruoli possono demandare e anche se non è stata la più ovazionata. Può piacere un altro volume, un altro carisma, un altro timbre, ma meglio non si può cantare.
La prossima stagione l'aspetiamo nell Faust (fragmenti in concerto – una nuova genialità della direzione del Liceu).
Compliementi per la recensione.
Avrei una curiosità che non so in quale luogo esprimere. La esprimo qui perché non so dove diavolo potrei esprimerla. Ma Mancini e Belcanto sono la stessa persona?
Marco Ninci
Marco, è già stato detto più di una volta. In chat scrivo con il nick "belcanto".
GBM
Bene. Non me ne ero accorto.
Marco Ninci