E’ tradizione che nel nostro paese quando si arrivi al momento di riconoscere a questo o a quello delle virtù superiori scattino tutta una serie di meccanismi da cui non riusciamo a liberarci causa l’abitudine antica a pensarla in un certo modo, dalle paure per le polemiche alle rivendicazioni sindacali o di parte, dai vincoli politici al sentito dire consolidato, ora pure la “logica del nome”, per cui di fatto si afferma sempre la legge del più forte (che non è sempre il migliore), l’agognata meritocrazia finisce chiusa nell’armadio e del meritevole tutti si scordano.
Eppure se si vuole che qualcosa cambi nel disastro generale, perché un segnale occorre darlo non solo al pubblico ma anche a chi i teatri gestisce, occorre premiare chi all’interno delle regole, uguali per tutti i teatri al nord come al sud, ha fatto meglio, senza creare scandalose voragini milionarie e riuscendo a mantenere un certo livello medio degli spettacoli.
La richiesta generica di ricolmare i tagli al Fus da parte di intellettuali e maestranze è lecita ma forse inattuabile nella realtà della nostra economia, perciò destinata a restare lettera morta, proclama retorico in favore della cultura minata dalle fredde leggi dell’economia. Forse lo è meno fare eccezione per chi è stato effettivamente virtuoso, riconoscendo ciò che il pubblico abituale dell’opera ha percepito con chiarezza dal teatro piemontese. Forse non sarebbe retorico e nemmeno eccezionale ma doverosa e giusta individuazione e premio per comportamenti non dico esemplari o perfetti, ma senz’altro migliori di altri tenuti in altri teatri, come ancora lo spettacolo di ieri sera, tutt’altro perfetto, ha dimostrato.
Smettiamo di fare eccezioni o di investire sempre sui potenti spreconi e cominciamo a farlo, al di là delle logiche politiche, per chi merita, per chi ha fatto meglio, per chi ha evidentemente saputo metterci qualcosa di più in ogni produzione, perché coro ed orchestra del Regio, dopo tanto Boris, tanto Parsifal e tanti Vespri possono ben stare orgogliosi a braccia alzate sulla scena, come hanno fatto alla recita del Parsifal cui ho assistito.
Ed anche con il forfait della diva protagonista ieri sera, il Regio è riuscito ad allestire uno dei must più difficili di Verdi e ad uscire dalla difficile prova con onore e dignità, allestendo una produzione funzionante sul piano musicale anche se non perfetta.
In primo luogo, i cantanti. Come finalmente ha detto apertamente il maestro Noseda nell’intervista radiofonica, senza cantanti l’opera non si fa, la buca da sola può suonare fin che vuole, ma se non si canta sulla scena, non si va da nessuna parte. Finalmente, ripeto, dato che i direttori d’orchestra moderni, non appena maturano una certa fama e notorietà, si fanno prendere dalla sindrome del “basto io..”: Noseda ha almeno riconosciuto che le cose non stanno così, e questo fa piacere.
Trovare interpreti all’altezza di uno spartito come i Vespri siciliani è sempre stata impresa difficilissima, perché soprattutto quelli di soprano e tenore sono due ruoli monstre della storia della vocalità. E mentre possiamo enumerare alcune straordinarie interpreti di Elena, sul ruolo di Arrigo conosciamo interpreti meno felici e famosissimi….assenti. E proprio sul ruolo di Arrigo Torino ha fatto la scommessa più azzardata della produzione, rivolgendosi fuori dal novero delle voci che normalmente praticano Verdi. Ha privilegiato l’esperienza ed un bagaglio tecnico oggi ignoto ai tenori verdiani, rischiando sul peso specifico e, soprattutto, sull’età del tenore prescelto. Già, perché i Vespri, oltre che pesanti sul piano drammatico per un ex contraltino rossiniano ( …oggi oramai tuttologo a tutti gli effetti ), hanno nella lunghezza smisurata una delle maggiori componenti di difficoltà della parte. Gregory Kunde, come abbiamo udito a Bergamo, soffre e mostra la corda e l’età se canta tessiture orizzontali di grande ampiezza, ma si trasforma, o meglio, maschera certi suoi odierni difetti legati alla lunghissima carriera, laddove la scrittura si muove e si impenna, come già nel Tell immediatamente successivo al Poliuto ( e potremmo riaprire la discussione su Nourrit Poliuto che sospendemmo per ritmo di blog ma…..). A meno della scena “Giorno di pianto”, centrale e per lui visibilmente faticosa ( impeccabile però l’esecuzione agitata della chiusa, ove i tenori di solito inciampano ), ha retto la parte con una scioltezza invidiabile ed impressionante se si considerano, poi, la sua natura vocale e la sua età, trovando anche accenti giusti ed una esecuzione precisa e mai brada. Qualche stonatura e/o forzatura in certi momenti come al duetto del II atto con Elena, nell’”Addio mia patria”, passaggi con certe sue legnosità sentite altre volte, ma nel complesso una prova impressionante, soprattutto al tremendo quarto atto. Il timbro è il solito, ma la perizia, facilità e la sicurezza esibite nella serata, Siciliana compresa, mi paiono dimostrare ….che i belcantisti di ieri erano cantanti incomparabili sul piano tecnico con quelli delle generazioni successive. Complimenti davvero.
Sostituta del secondo soprano originariamente prescelto, Tamar Iveri, e sostituta all’ultimo della titolare Rodvanovsky ( le protagoniste designate in origine non hanno smentito il pronostico che facemmo a settembre, all’epoca della presentazione della stagione, contrariamente a Gregory Kunde ), Maria Agresta ha stupito, andando oltre le aspettative. Non ho mai sentito questa cantante in teatro, e parlo per mero ascolto radiofonico. Ha gestito una parte che richiede una voce di peso ed estensione maggiori alla sua, che è meramente lirica, con pertinenza e bell’aplomb musicale, cercando sempre di non essere piatta ma di fraseggiare, come nell’”Arrigo, ah parli un core”. I suoi momenti migliori sono stati quelli in zona centro alta, gestiti con facilità nel passaggio superiore ( anche nel finale dell’”Arrigo, ah parli…” ha cercato le smorzature, non perfettamente riuscite ma comunque provate per cantare come si deve cantare il passo… ), meno in tessitura grave ove sul primo passaggio la voce non gira. Frasi davvero infelici quelle di petto e sguaiate precedenti l’aria nella scena del carcere ( e che Noseda avrebbe dovuto moderare ), meno sgradevoli certi passaggi nell’entrata, di scrittura assai grave, eseguita con compostezza. Però, pur con un mezzo leggero e forse nemmeno abbastanza ampio, è andata fino alla fine con sicurezza, si è ben disbrigata nel Bolero ( …senza trilli ), ha retto il peso dei concertati, il “Patria adorata” soprattutto, che spetta ad Elena tirare, anche con un centro spesso non perfettamente “coperto.” Sarò stata benevolente ieri sera, ma ho trovato serietà in questo approccio da parte di chi si è trovata in pole position in una simile occasione e con un simile ruolo. E non ho potuto fare a meno di pensare al recente Verdi festival, in cui la signora Agresta ha cantato senza esiti una Odabella che non dovrebbe cantare, mentre con Elena ieri sera ha voluto farci pensare di essere stata il miglior soprano passato da Parma da settembre ad oggi. Paradosso o realtà, stabilitelo voi.
Meno bene Procida e Monforte. Ildar Adbrazakov è un cantante per natura composto e statico, dalla voce bella ma non ampia e ricca. Ha dato vita ad un Procida corretto, ma incolore, per nulla statuario, perché vero basso di ampleur da Verdi non è. Nell’aria, infatti, ha anche forzato la voce per darle un corpo che non ha, ma è stato un canto innaturale e, per forza di cose, piatto, sempre forte. Quando il personaggio deve svettare, come nel concertato “Addio mia patria”, il basso russo non svetta, resta inerte, anche perché in alto la voce non ha proiezione.
Orribile Franco Vassallo. Ha un mezzo naturale di qualità ragguardevole, ma canta muggendo, dando di naso, digrignando il suono di continuo, gli acuti indietro. Ne è uscito un Monforte truculento, becero…una sventura per le orecchie cui il maestro Noseda avrebbe dovuto dire qualcosa, un suggerimento di moderazione. Spiace, in un mondo senza baritoni, che le poche voci di qualità siano gestite con siffatti limiti tecnici e, soprattutto, culturali, perché alla base di questo modo di intendere il canto in corda di baritono c’è un consolidato gusto deteriore. Eppure i dischi di Tagliabue, di McNeill, di Bruson, ma anche degli Zanasi etc sono disponibili in commercio, ed affrancherebbero questi cantanti, almeno in parte, dalla tradizione stile Carroli, Gavanelli.etc.. E starebbe anche alle bacchette dire loro qualcosa, come i Serafin o i Mitroupulos sapevano fare con i beceri incalliti alla Guelfi…
Gianandra Noseda ha diretto bene, assai meglio della Traviata dell’anno passato. Più a suo agio in una partitura di questo tipo, ha diretto con sicurezza, bello stacco di tempi, tensione drammaturgica, bel suono. Non mi è piaciuto nella seconda parte del secondo atto, quella che segue il duetto Elena Arrigo, e all’ingresso del quinto, cioè nelle scene di colore, prive di quelle suggestioni cromatiche tipiche del Grand’Operà e, soprattutto nel secondo atto, davvero pesante. Però ha dato un bel nerbo alle scene d’assieme come al preludio, ed ha accompagnato bene il canto ( forse un po’ lento per i cantanti la sezione centrale del duetto Arrigo Monforte..). Tutto però è stato diretto con sicurezza evidente, senza scollamenti, e conferendo all’opera la giusta cifra senza astrusità, fracasso, etc. Senza tante parole o annunci, una bella e convincente direzione di un maestro italiano più bravo che sponsorizzato.
Della retorica di Livermore, che ha profittato degli osannanti telecronisti Rai per scagliarsi contro i cosiddetti puristi e la loro supposta “voglia di alabarda” (sic), non voglio dire nulla. Ha scelto la via della lettura politica di un testo che ha un soggetto politico, quindi un’idea che in astratto aveva perfettamente senso. Concepire un’idea è cosa diversa dal fatto di poterla e saperla sviluppare. La realizzazione pratica mi è parsa più un omaggio alla nostra storia recente (omaggio connesso alle celebrazioni del centocinquantesimo dell’Unità d’Italia) che non una effettiva rilettura d’attualità dei Vespri siciliani, che il regista ha dovuto forzare, e non poco, per infilarci dentro la propria visione, cadendo per giunta nei soliti cliché, ma, sopratutto, nell’ideologica equiparazione di un invasore straniero alla mafia: vespri siciliani e mafia anche sul piano storico nulla hanno in comune. Un esempio, poi, fra i molti possibili di abuso di chichè frusti e decotti, quello relativo al ruolo dei media : Elena canta il Bolero seguendo il “gobbo” e attorniata da ballerine che sembrano uscite da uno show di Renzo Arbore. Una idea così forte da risultare forzata, a tratti grottesca e involuta (i cattivi con la mascherina color carne, il finale che vorrebbe essere simbolico ed è solo raffazzonato e sbrigativo). Resta uno spettacolo a se stante, che però con il clima, le atmosfere e certi significati fortemente ottocenteschi insiti nei Vespri poco c’azzecca, per non dire che confligge apertamente. Ma l’occasione in cui la produzione ha avuto luogo era fortemente celebrativa, densa di significati attuali assai pregnanti, dunque, data l’occasione va bene così, ne accettiamo la retorica ma anche la superficialità ed i luoghi comuni. A condizione di non riscoprirli, identici a se medesimi, nella prossima regia, magari gluckiana o pucciniana.
Oh Diva Giulia, mai potrei essere più felice di leggere questa recensione! Soprattutto perché del mio adorato Regio di Torino si tratta: ormai primo tempio della lirica italiana, oltretutto a prezzi ragionevolissimi (e non è cosa da poco…)
Sì, dai pochi minuti che sono riuscito a sentire, concordo in pieno con quanto hai scritto. Nulla da aggiungere a quanto hai scritto su tenore e soprano.
Sul basso io sarei un pochino più severo. Delle due l'una: o Adbrazakov non è un basso ma un baritono e, se tale, baritono lirico; oppure è un basso da camera e nulla più. La voce è troppo "senza peso" per affrontare i ruoli gravi del Fortunino nazionale.
Infine Vassallo. Il giudizio che esprimi è negativo e a mio sommesso modo di vedere una ragione c'è: ribadendo che è la mia personale opinione, sollevo il dubbio che Vassallo non sia un vero baritono. Unidici anni fa, ebbi occasione di parlargli 30 secondi in una manifestazione estiva e ricordo bene di essere rimasto un po' spiazzato dal sentire una voce parlata molto chiara; talché mi chiesi donde venisse tal timbro brunito. L'impressione è riconfermata ascoltandolo in una recentissima intervista:
http://www.youtube.com/watch?v=u5B_x0gn74c
Se il sig. Vassallo mi dovesse leggere, chiedo venia; ma se il parlato non è del tutto irrilevante nel comprendere la corda d'una gola, a me sembra che al di sotto del baritono si nasconda un registro più acuto. E per giunta, indovino, non certo privo di rilevanza. Anzi…
Concludo con una richiesta di chiarimento: più volte vi sento menzionare cotal famigerato "primo passaggio". Mi potreste spiegare cosa intendete? A me è sempre stato insegnato che ve n'è uno soltanto, quello che voi – ma anche altri – chiamate "secondo passaggio". Grazie mille.
tutto estremamente condivisibile Donna Giulia. Io per altro ho avuto occasione di sentire il signor Vassallo in rigoletto e l'esperienza è stata davvero terribile: un'accozzaglia di versaggi e muggiti, nessuna idea nel fraseggio, volgarità diffusa insomma… purtroppo non ho avuto modo di notare la sua generosa natura, complici forse anche i microfoni sregolati che amplificavano, al teatro Verdi di Padova, solo a tratti ed in maniera discontinua i cantanti e una piccola sezione dell'orchestra (segnatamente alcuni fiati).
Mi chiedo poi se Kunde nella sua prodezza di ieri sia riuscito a accentare un poco verdianamente il suo canto. Ricordo un suo bellissimo Tell pesarese dei primi anni 90 che me lo fece apprezzare molto, ma quello era il territorio suo, mentre i Vespri è certo tutt'altra cosa.
d'accordo sul post,e recensione,e sui tagli che andrebberò fatti su chi non merita,non a teatri come il Regio qui a Torino che come programmazione gestione e numero di abbonati e spettatori è un teatro che dimostra virtuosismo e merita di essere finanziato.
Cantare l'opera lirica non può essere obbligo per alcuno. Se i nostri giudizi debbono essere condizionati da frasi del tipo:" ..con i tempi che corrono…queste sono le voci disponibili…ecc.." è bene essere più severi prima con se stessi e poi con gli altri. Del resto se nell'impervio ed a volte impossibile canto verdiano siamo arrivati ad esaltare un Kunde o un'Agresta vuol dire che non siamo più neppure "alla frutta". Infatti siamo al caffè. Amaro.
Caro Francesco,
proviamo a trovare non dico il meglio, ma il meno peggio….un tentativo di ottimismo?
Domenica ti consigli ola lettura del nostro sito: ci saranno ascolti che vengono inesorabilmente dalla tua, cioè a dimostrare l'adagio TUTTO E' FINITO.Sentirai, e non so se sarà consolatorio.
a presto
Ieri pomeriggio, al cinema, ho finalmente visto questo spettacolo di cui avevo tanto sentito parlare. Per quanto riguarda direzione d’orchestra e cantanti sono essenzialmente d’accordo con Madama Grisi (come non esserlo?); solo, sarei forse leggermente più clemente con Vassallo.
L’allestimento di Livermore mi ha sinceramente deluso profondamente, soprattutto perché avevo sentito gridare al genio assoluto. Se ci sono delle idee indubbiamente interessanti e suggestive, non mi sembrano però mancare incongruenze e forzature vere e proprie.
L’uso del tricolore, ad esempio: non si capisce se esso sia vessillo degli insorti che desiderano la libertà di pensiero (come si capirebbe dalle coccarde verdi, rosse, e bianche utilizzate dai cospiratori nella scena della festa) o del popolo bue prono al potere del prepotentello di turno (vedi le bandiere sventolate dal coro, debitamente mascherato, alla fine del quarto atto). Forse c’è qualcosa che mi sfugge, e tutto ciò è voluto, e simboleggia semplicemente la strumentalizzazione dei simboli politici, buoni alla fin fine per sostenere ogni causa; ma ciò mi sembra cozzare con la scena conclusiva, effettivamente frettolosa come rileva la Grisi, nella quale il popolo finalmente consapevole di se stesso si toglie la maschera e rivendica la sua libertà, mentre sullo sfondo della scena compare la frase della costituzione…
Esempio preclaro delle varie forzature che compaiono nello spettacolo sono i primi dieci minuti del primo atto, ossia la conversazione degli ufficiali francesi e l’ingresso di Elena: quelle che dovrebbero essere le battute di un dialogo diventano invece delle dichiarazioni “monologiche” (se mi si passa il termine) rilasciate alla stampa, con esiti francamente grotteschi all’ “Assai nappi vuotammo” (ma dove?) o al momento in cui i soldati fanno apprezzamenti sulle popolane radunate sulla piazza…. vien fatto di pensare se, di fronte a una discrepanza così evidente tra allestimento e battute dei personaggi, non sarebbe meglio apportare modifiche al libretto o meglio alla sua traduzione: vedi gli esempi riportati in “Dive e Maestri ” da Gosset a proposito del Guglielmo Tell scaligero diretto da muti e del Viaggio a Reims di Fo. Non sarei (sempre) d’accordo, in linea di principio, ma a mali estremi…