Gustav von Aschenbach, figura fortemente autobiografica di Thomas Mann, è un intellettuale che ha già vissuto. Ha attraversato e affrontato tutte le fasi della vita con routine, con ferrea autodisciplina, con austerità, imponendoselo, riuscendoci, coltivando la purezza della sua scrittura e inseguendo un ideale di bellezza, anche morale, che crede di aver raggiunto; ma forse proprio per questo si ritrova solo a meditare sulla vacuità di tale condizione e sulla giustezza di tanta rettitudine.In fondo Gustav von Aschenbach è un personaggio passivo; vuole vivere, o tornare a vivere, e lo fa spiando gli altri, osservandoli, studiandoli, giudicandoli, è un voyeur della vita che non partecipa, la insegue, ma non né coglie l’essenza, non si lascia travolgere. Non agisce mai Gustav von Aschenbach, nemmeno quando si scopre affezionato, infatuato, innamorato, ossessionato del bellissimo Tadzio, giovinetto che incarna la bellezza a lungo vagheggiata, quella beatitudine arcaica, quella perfezione di forme sensuali eredità classica dell’apollineo; lo insegue, certo, ma non riesce a parlargli, vorrebbe salvarlo dal colera, ma si blocca di fronte alla possibilità di avvertire la madre del contagio, vagheggiando un mondo mostruoso senza uomini, abitato solo da lui e dal bel ragazzino polacco.
Dall’apollineo si passa al dionisiaco: non più “oggetto osservato”, ma “oggetto desiderato”, lussurioso, da possedere, e intanto tutto intorno a lui cambia, ruota, si muove agisce: Venezia brulica di personaggi grotteschi guidati dalla mano melliflua delle incarnazioni dionisiache; Venezia cambia continuamente sotto l’influsso del dio, con piccoli tocchi, con pochi oggetti evocati, con le sue luci seducenti e vaporose ed il suo mare solo suggerito; Venezia si ammala, diventa putrescente, esacerbata nei colori e venefica nei miasmi lagunari; Venezia diventa una tomba di luce fioca e ombre, testimone dell’unico gesto vivo che il morente Aschenbach compirà per salvare il “suo” Tadzio, il suo ideale, dalla contaminazione violenta dell’ “altro”. Questa, in sintesi lo splendido ed essenziale allestimento, nato in coproduzione con la English National Opera di Londra e con il Théâtre Royal de la Monnaie di Bruxelles, curato dalla regia di Deborah Warner coadiuvata dalle scabre scenografie di Tom Pye, dai costumi primi del ‘900 (come faceva notare l’amica Carlotta Marchisio, più vicini a Fitzgerald che a Mann) di Chloe Obolensky, dalle piacevoli coreografie di Kim Brandstrup e le luci di Jean Kalman. E intanto ci si domanda: perché per mettere in scena le opere di repertorio si sperperano allegramente montagne di soldi producendo (con la pretesa di farle ingoiare al pubblico facendole passare per Kultura, senza colpo ferire) le idee sbilenche di un Cassiers, o un Bondy, o un Mussbach, quando invece ci sono in giro registi capaci e di ben altro spessore drammaturgico che impongono un’idea senza massacrare l’opera, al contrario, esaltandone il contenuto? In carriera dai primi anni ’80 ed esperto interprete di Britten, non disdegnando ruoli sia principali che di carattere anche in Mozart, Strauss, Puccini, Janacek, Weber, Rossini e Schönberg, il tenore inglese John Graham-Hall sostituiva il previsto Ian Bostridge colto, già alcuni mesi fa, da “una acuta e persistente infezione alle vie respiratorie, tale da richiedere un periodo di riposo” così come riportato sul sito del Teatro alla Scala; già con questo gesto si guadagna tutta la mia stima e la mia gratitudine risparmiandomi l’ascolto della voce esanime e incolore del suo collega malato, il quale era sulla carta una “interessante attrattiva”, eppure non se n’è sentita la mancanza stando alla risposta più che positiva del pubblico in sala. Nulla da eccepire sulle doti istrioniche del signor Graham-Hall: l’attore è scafato, carismatico e brillante, sposa appieno la visione registica così da interpretare un Aschenbach i cui nervi lo costringono a creare una distanza disperata e incolmabile con gli altri, verso cui invece bramerebbe amalgamarsi; se non fosse per il suo passivo intellettualismo che lo costringe ad analizzare e analizzarsi fino all’autopunizione, fino a perdere di vista il proprio coraggio annullandosi nella vita altrui. Perseguitato da movimenti a scatti, scostante e curioso nel suo vagare senza sosta con lo sguardo e con il corpo, questo Aschembach è anche burattino tragico, svuotato e inerte quando si accascia sulla sua sdraio e riempie il suo essere con la vista di Tadzio, infetto e morbosamente malato già al suo apparire in scena. Il cantante, però, è decisamente inferiore all’attore: la voce ha una sua proiezione, nonostante sia timbricamente molto arida, ma l’emissione traballa non poco a giudicare dal vibrato che spezza la frase quando invece dovrebbe essere legata come da partitura; in più, soprattutto al primo atto, fatica a riscaldare il suo strumento così da alternare frasi letteralmente parlare, anche quando dovrebbe cantare, a un canto più affine a Broadway. Il secondo atto lo vede decisamente migliorato, ma, ahimé, Britten qui prevede anche gli acuti, i quali sono tutti o indietro, o fissi, o fastidiosamente falsettanti tanto da chiedersi se il controtenore ingaggiato per la voce di Apollo li faccia al posto suo fuori scena! Per onestà, potremmo anche soprassedere alle mende tecniche, visto che il ruolo è stato creato per il sessantatreenne Peter Pears che sicuramente non possedeva la freschezza timbrica degli esordi, ma non era mai stato nemmeno un’aquila in fatto di tecnica, anche se nella registrazione del ‘73 l’artista, più sensibile, canta più del suo attuale collega nonostante condivida con Graham-Hall alcuni difetti; il quale però salva la serata grazie ad una dizione praticamente perfetta ed un fraseggio al calor bianco, coerente con l’azione e con la regia. Ugualmente trascinante a livello scenico, e leggermente migliore come cantante, il baritono Peter Coleman-Wright che interpreta la proteiforme controparte del protagonista. Il timbro risente dell’età, anche se il colore baritonale si mantiene suggestivo e l’emissione, sufficiente a sostenere la voce nel centro, sicuramente più sonoro e compatto, non lo è altrettanto negli estremi della sua estensione, che possono talvolta suonare rigidi; supplisce allora l’artista, l’attore, l’interprete che scava nel fraseggio dei molteplici personaggi differenziandoli perfettamente attraverso il colore stesso della voce per mezzo di un diabolico falsetto oppure scurendo senza sforzo con glaciale disinvoltura. Ne sortisce l’esatta nemesi del protagonista, una sorta di Caronte che traghetterà Aschenbach, con raffinato cinismo e gusto dello sberleffo verso una morte annunciata. Non solo divinità multiforme dunque, ma anche specchio della coscienza di Aschenbach, compiendo tutto ciò che il protagonista si nega nonostante l’incitamento reiterato e irresistibile. Una bella interpretazione. Ho sempre avuto una violenta idiosincrasia verso la voce di controtenore: nonostante i vari appelli alla bontà dell’evoluzione tecnica, agli studi matti e disperatissimi, alla nuova morbidezza timbrica, alla intrinseca beltade di questi colori nuovi e, dicono, suadenti ho sempre ritenuto questa vocalità falsa e bugiarda oltre che la tragica rappresentanza di uno dei misteri dolorosi dell’opera, confermato dall’ascolto per certi versi micidiale oltre che fisicamente fastidioso delle varie “starlette” baroccare di ieri come di oggi, con la sola eccezione del, per me, grande Russell Oberlin.
Potranno anche piacere, per carità, ma lo ammetto, è un limite mio; quindi mi ha per certi versi sorpreso positivamente la prova di Iestyn Davies scelto per interpretare la Voce di Apollo: si resta impressionati dall’ampiezza del volume che riempie con facilità la sala, e dalla buona proiezione, anche se più appoggiata a doti naturali, ma il timbro si sente che è filtrato da naso e gola e molte note risultano fisse, ovviamente, nemmeno soccorse da un ventaglio espressivo molto ampio.
Discreti i numerosi artisti comprimari e ottimi i mimi ed i ballerini impegnati nelle pantomime e nei movimenti coreografici.Non capita spesso di vedere un’orchestra che rimane in buca per tributare il personale plauso a direttore, cantanti e maestranze tutte schierate sul proscenio; ma quando avviene significa che il clima che si è respirato durante le prove e le recite è stato di affiatamento. Hanno lavorato bene! Ed un plauso se lo merita il direttore Edward Gardner soprattutto per la direzione del II atto. Una direzione la sua nettamente spezzata in due: molto dilatata e sinistra nel primo atto, direi un po’ troppo cervellotica nella sottolineatura calligrafica e glaciale dei temi fondanti come quello del “Viaggio”, quello dedicato a “Venezia”, il ricorrente tamburellante tema di “Tadzio” in questo caso reso lugubre come un presagio, oppure i preziosismi degli interventi folkloristici, tutti filtrati attraverso un’ottica davvero troppo ragionata, rasentando sovente la noia, nonostante le belle potenzialità. Di gran lunga superiore l’atto successivo in cui la ricchezza espressiva può fluire dinamica e più naturale; gli stessi temi del I atto associati alla passacaglia, al tema dell’ “Epidemia”, alle citazioni dalla musica sacra sono come trasfigurati e resi con una dinamica decisamente più tesa e suadente; un atto in pratica divorato dalla presenza malata del colera il quale domina la scena, ma anche l’orchestra e dalla presenza di Dionysius reso ancora più minaccioso e fatale dalle diverse gradazioni timbriche dell’organico britteniano. Peccato che l’orchestra a ranghi ridotti, nonostante gli sforzi encomiabili, risponda con un suono non sempre adeguato con talune note calanti soprattutto nelle trombe, nei tromboni e degli archi ben poco cristallini. Teatro pieno e festante, soprattutto grazie alla “svendita” salvifica dei biglietti invenduti su Facebook, che ha provocato l’irritazione di quanti avevano già acquistato il biglietto a prezzo pieno … Ma come? Un’ occasione altamente Kulturale come questa, dunque ghiottissima almeno a sentire i vari proclami, ovvero la prima in Scala del “Death in Venice” dopo quasi quaranta anni dal suo esordio, trattata così dal pubblico, che vuole così bene a Mamma Scala, e dalla biglietteria?
Dall’apollineo si passa al dionisiaco: non più “oggetto osservato”, ma “oggetto desiderato”, lussurioso, da possedere, e intanto tutto intorno a lui cambia, ruota, si muove agisce: Venezia brulica di personaggi grotteschi guidati dalla mano melliflua delle incarnazioni dionisiache; Venezia cambia continuamente sotto l’influsso del dio, con piccoli tocchi, con pochi oggetti evocati, con le sue luci seducenti e vaporose ed il suo mare solo suggerito; Venezia si ammala, diventa putrescente, esacerbata nei colori e venefica nei miasmi lagunari; Venezia diventa una tomba di luce fioca e ombre, testimone dell’unico gesto vivo che il morente Aschenbach compirà per salvare il “suo” Tadzio, il suo ideale, dalla contaminazione violenta dell’ “altro”. Questa, in sintesi lo splendido ed essenziale allestimento, nato in coproduzione con la English National Opera di Londra e con il Théâtre Royal de la Monnaie di Bruxelles, curato dalla regia di Deborah Warner coadiuvata dalle scabre scenografie di Tom Pye, dai costumi primi del ‘900 (come faceva notare l’amica Carlotta Marchisio, più vicini a Fitzgerald che a Mann) di Chloe Obolensky, dalle piacevoli coreografie di Kim Brandstrup e le luci di Jean Kalman. E intanto ci si domanda: perché per mettere in scena le opere di repertorio si sperperano allegramente montagne di soldi producendo (con la pretesa di farle ingoiare al pubblico facendole passare per Kultura, senza colpo ferire) le idee sbilenche di un Cassiers, o un Bondy, o un Mussbach, quando invece ci sono in giro registi capaci e di ben altro spessore drammaturgico che impongono un’idea senza massacrare l’opera, al contrario, esaltandone il contenuto? In carriera dai primi anni ’80 ed esperto interprete di Britten, non disdegnando ruoli sia principali che di carattere anche in Mozart, Strauss, Puccini, Janacek, Weber, Rossini e Schönberg, il tenore inglese John Graham-Hall sostituiva il previsto Ian Bostridge colto, già alcuni mesi fa, da “una acuta e persistente infezione alle vie respiratorie, tale da richiedere un periodo di riposo” così come riportato sul sito del Teatro alla Scala; già con questo gesto si guadagna tutta la mia stima e la mia gratitudine risparmiandomi l’ascolto della voce esanime e incolore del suo collega malato, il quale era sulla carta una “interessante attrattiva”, eppure non se n’è sentita la mancanza stando alla risposta più che positiva del pubblico in sala. Nulla da eccepire sulle doti istrioniche del signor Graham-Hall: l’attore è scafato, carismatico e brillante, sposa appieno la visione registica così da interpretare un Aschenbach i cui nervi lo costringono a creare una distanza disperata e incolmabile con gli altri, verso cui invece bramerebbe amalgamarsi; se non fosse per il suo passivo intellettualismo che lo costringe ad analizzare e analizzarsi fino all’autopunizione, fino a perdere di vista il proprio coraggio annullandosi nella vita altrui. Perseguitato da movimenti a scatti, scostante e curioso nel suo vagare senza sosta con lo sguardo e con il corpo, questo Aschembach è anche burattino tragico, svuotato e inerte quando si accascia sulla sua sdraio e riempie il suo essere con la vista di Tadzio, infetto e morbosamente malato già al suo apparire in scena. Il cantante, però, è decisamente inferiore all’attore: la voce ha una sua proiezione, nonostante sia timbricamente molto arida, ma l’emissione traballa non poco a giudicare dal vibrato che spezza la frase quando invece dovrebbe essere legata come da partitura; in più, soprattutto al primo atto, fatica a riscaldare il suo strumento così da alternare frasi letteralmente parlare, anche quando dovrebbe cantare, a un canto più affine a Broadway. Il secondo atto lo vede decisamente migliorato, ma, ahimé, Britten qui prevede anche gli acuti, i quali sono tutti o indietro, o fissi, o fastidiosamente falsettanti tanto da chiedersi se il controtenore ingaggiato per la voce di Apollo li faccia al posto suo fuori scena! Per onestà, potremmo anche soprassedere alle mende tecniche, visto che il ruolo è stato creato per il sessantatreenne Peter Pears che sicuramente non possedeva la freschezza timbrica degli esordi, ma non era mai stato nemmeno un’aquila in fatto di tecnica, anche se nella registrazione del ‘73 l’artista, più sensibile, canta più del suo attuale collega nonostante condivida con Graham-Hall alcuni difetti; il quale però salva la serata grazie ad una dizione praticamente perfetta ed un fraseggio al calor bianco, coerente con l’azione e con la regia. Ugualmente trascinante a livello scenico, e leggermente migliore come cantante, il baritono Peter Coleman-Wright che interpreta la proteiforme controparte del protagonista. Il timbro risente dell’età, anche se il colore baritonale si mantiene suggestivo e l’emissione, sufficiente a sostenere la voce nel centro, sicuramente più sonoro e compatto, non lo è altrettanto negli estremi della sua estensione, che possono talvolta suonare rigidi; supplisce allora l’artista, l’attore, l’interprete che scava nel fraseggio dei molteplici personaggi differenziandoli perfettamente attraverso il colore stesso della voce per mezzo di un diabolico falsetto oppure scurendo senza sforzo con glaciale disinvoltura. Ne sortisce l’esatta nemesi del protagonista, una sorta di Caronte che traghetterà Aschenbach, con raffinato cinismo e gusto dello sberleffo verso una morte annunciata. Non solo divinità multiforme dunque, ma anche specchio della coscienza di Aschenbach, compiendo tutto ciò che il protagonista si nega nonostante l’incitamento reiterato e irresistibile. Una bella interpretazione. Ho sempre avuto una violenta idiosincrasia verso la voce di controtenore: nonostante i vari appelli alla bontà dell’evoluzione tecnica, agli studi matti e disperatissimi, alla nuova morbidezza timbrica, alla intrinseca beltade di questi colori nuovi e, dicono, suadenti ho sempre ritenuto questa vocalità falsa e bugiarda oltre che la tragica rappresentanza di uno dei misteri dolorosi dell’opera, confermato dall’ascolto per certi versi micidiale oltre che fisicamente fastidioso delle varie “starlette” baroccare di ieri come di oggi, con la sola eccezione del, per me, grande Russell Oberlin.
Potranno anche piacere, per carità, ma lo ammetto, è un limite mio; quindi mi ha per certi versi sorpreso positivamente la prova di Iestyn Davies scelto per interpretare la Voce di Apollo: si resta impressionati dall’ampiezza del volume che riempie con facilità la sala, e dalla buona proiezione, anche se più appoggiata a doti naturali, ma il timbro si sente che è filtrato da naso e gola e molte note risultano fisse, ovviamente, nemmeno soccorse da un ventaglio espressivo molto ampio.
Discreti i numerosi artisti comprimari e ottimi i mimi ed i ballerini impegnati nelle pantomime e nei movimenti coreografici.Non capita spesso di vedere un’orchestra che rimane in buca per tributare il personale plauso a direttore, cantanti e maestranze tutte schierate sul proscenio; ma quando avviene significa che il clima che si è respirato durante le prove e le recite è stato di affiatamento. Hanno lavorato bene! Ed un plauso se lo merita il direttore Edward Gardner soprattutto per la direzione del II atto. Una direzione la sua nettamente spezzata in due: molto dilatata e sinistra nel primo atto, direi un po’ troppo cervellotica nella sottolineatura calligrafica e glaciale dei temi fondanti come quello del “Viaggio”, quello dedicato a “Venezia”, il ricorrente tamburellante tema di “Tadzio” in questo caso reso lugubre come un presagio, oppure i preziosismi degli interventi folkloristici, tutti filtrati attraverso un’ottica davvero troppo ragionata, rasentando sovente la noia, nonostante le belle potenzialità. Di gran lunga superiore l’atto successivo in cui la ricchezza espressiva può fluire dinamica e più naturale; gli stessi temi del I atto associati alla passacaglia, al tema dell’ “Epidemia”, alle citazioni dalla musica sacra sono come trasfigurati e resi con una dinamica decisamente più tesa e suadente; un atto in pratica divorato dalla presenza malata del colera il quale domina la scena, ma anche l’orchestra e dalla presenza di Dionysius reso ancora più minaccioso e fatale dalle diverse gradazioni timbriche dell’organico britteniano. Peccato che l’orchestra a ranghi ridotti, nonostante gli sforzi encomiabili, risponda con un suono non sempre adeguato con talune note calanti soprattutto nelle trombe, nei tromboni e degli archi ben poco cristallini. Teatro pieno e festante, soprattutto grazie alla “svendita” salvifica dei biglietti invenduti su Facebook, che ha provocato l’irritazione di quanti avevano già acquistato il biglietto a prezzo pieno … Ma come? Un’ occasione altamente Kulturale come questa, dunque ghiottissima almeno a sentire i vari proclami, ovvero la prima in Scala del “Death in Venice” dopo quasi quaranta anni dal suo esordio, trattata così dal pubblico, che vuole così bene a Mamma Scala, e dalla biglietteria?
Fin qui la recensione di Marianne Brandt. Ovviamente la Grisi non sarebbe la Grisi se non proponesse, a commento della suddetta, una rassegna di altre scene operistiche, di morte o comunque lugubri e funeste, ambientate a Venezia. Buon ascolto.
Gli ascolti
Verdi – I due Foscari
Atto II – Notte! Perpetua notte…Non maledirmi, o prode – Carlo Bergonzi (1973)
Atto III – Questa dunque è l’iniqua mercede – Pasquale Amato (1909)
Ponchielli – La Gioconda
Atto IV – Così mantieni il patto? – Pasquale Amato & Ester Mazzoleni (1909)
A me è piaciuta. Infatto anch'io mi chiedevo le stesse domande poste sul problema delle regie.
Ed è vero: si è visto un grandissimo affiatamento di tutti e si è sentito in sala.