Ci ricorda il Dossi che Giuseppe Rovani (scrittore milanese in odor di scapigliatura che la pigrizia intellettuale delle nostre istituzioni scolastiche ben si guarda dall’includere in qualsivoglia programma di studi), parlando di Verdi ed elogiandone le melodie più riuscite, era solito dire: “eppure se ghe sent semper dent la vanga”. L’espressione – che pure non mancherà di inorridire i verdiani più puristi – esprime bene, anche se in modo colorito, un aspetto fondamentale della poetica del compositore, ossia quel carattere popolare, semplice, “basso”, che mai lo abbandonerà per tutta la carriera. Certo con l’affinarsi della pratica e dello stile, Verdi riuscirà a contenere questa radice originaria, a trasfigurarla, a meglio vestirla, ma fino ad Otello (compreso), non mancherà di riaffiorare di tanto in tanto nella generale nobiltà ed elaborazione delle composizioni (anche le più mature). Del resto Verdi iniziò tardi la sua carriera operistica (26 anni: e a quell’età Mozart aveva alle spalle Idomeneo, Die Entfuhrung aus dem Serail e poi concerti, sinfonie, sonate; Donizetti 13 titoli; Rossini ben 26, tra cui Barbiere, Otello, Mosé, Cenerentola, Italiana, Elisabetta, Tancredi…; Bellini aveva appena ultimato Il Pirata; pure Wagner aveva alle spalle Die Feen e Rienzi e stava componendo il suo primo capolavoro, Der Fliegende Hollander!) dopo una formazione poco accademica e un curriculum di studi e di esperienze non certo prestigioso (si può dire, senza irriverenza alcuna, che apprese l’arte del “comporre”, predisponendo le marcette per la banda di Busseto: questo fu il suo vero imprinting musicale).
Ovviamente questa radice popolare emerge maggiormente e con evidenza nei primi lavori: lavori nei quali – pur tra i molti difetti, le goffaggini, le ingenuità e la dozzinalità della scrittura – si riescono a scorgere anche alcuni dei semi che germoglieranno nella carriera operistica più incredibile e prestigiosa dell’Europa del secolo XIX. Con Oberto, Conte di San Bonifacio si apre il catalogo verdiano. Superata la querelle intorno al fantomatico Rocester – a cui lo stesso autore fa cenno e da molti ritenuto un lavoro perduto: oggi è accertato che si trattava semplicemente di una ipotesi primigenia dell’Oberto (nel senso che Verdi iniziò a predisporre una struttura operistica convenzionale, da poter adattare, a seconda delle esigenze, a diversi titoli e situazioni, in accordo con la committenza e in dipendenza dalle circostanze di fatto), così come il Lord Hamilton – nessun dubbio rimane sulla storia compositiva dell’opera e sulle sue revisioni ed aggiusti. Grazie ai buoni uffici della Sig.ra Strepponi e alla disponibilità – ad accettare la raccomandazione (eh sì: senza quell’italianissima “spintarella” probabilmente la parabola verdiana neppure sarebbe incominciata) – dell’allora impresario della Scala, Bartolomeo Merelli, Verdi entrò nel mondo dell’opera dalla porta principale: il 17 novembre del 1839, la sua prima fatica ebbe il suo battesimo sul palco del massimo teatro milanese. Protagonista il celebre basso Ignazio Marini (già lodato interprete del Moise rossiniano). Il pubblico accolse abbastanza favorevolmente l’opera, e la stampa, pur evidenziandone le debolezze, diede giudizi incoraggianti, ammonendo, però, il compositore a non dar molto peso “all’effimero plauso del pubblico”. L’opera fu subito acquistata da Ricordi, legando a sé il giovane autore e dimostrando, così, di avere un innegabile fiuto per gli affari.
Ma, all’ascolto (abbastanza raro) com’è questo
Oberto? Come si pone rispetto alla tradizione del melodramma italiano in epoca di transizione e mutamenti? Cosa lascia intendere rispetto alla successiva parabola verdiana? E’ chiaro che si tratta di un lavoro immaturo, impacciato nel maldestro utilizzo delle peggiori convenzioni dell’epoca, diseguale nella forma e nella distribuzione interna del materiale musicale, poco ispirato, inferiore (qualitativamente) alle tante opere minori di quel sottobosco di titoli e autori che costituiva la base di quella che appare come la musica di consumo.
Oberto si ascolta solo per il dopo, non certo per intrinseche virtù. A sprazzi, però, si percepiscono taluni dei caratteri che formeranno lo stile verdiano compiuto. Il primo difetto dell’opera è il libretto (e questo – in un autore che ha fatto dell’urgenza teatrale e drammatica, la cifra prima della sua poetica – è indubbiamente un grave
handicap): rimasticatura stanca e sgraziata dei più scontati topoi del melodramma, con personaggi per nulla credibili e dai caratteri indefiniti, ed una trama assurda e incoerente. La storia è banale: c’è un nobile libertino che ha giocato la stessa partita in due diversi campi da gioco; c’è un’amante respinta, innamorata e credulona; c’è una promessa sposa ignara (forse) del passato del futuro marito e che mostra compassione (sincera o interessata) per le sorti della rivale; c’è il padre della prima – antico avversario del nobile spregiudicato – che per soddisfare una vendetta (per fatti oscuri e inspiegati), usa in modo improprio la fissazione della figlia. Alla fine il libertino è smascherato, la fidanzata lo molla sull’altare e lo spinge tra le braccia dell’amante ormai resa demente dalla ritrovata (in)felicità, mentre il padre gongola per la riuscita della recita e per l’occasione di regolare i suoi conti passati. Ma va male a tutti: il padre fa la fine dei “pifferi di montagna” (che andarono per suonare e furono, invece, suonati) e rimane ucciso nel duello con il libertino; questo – avvedutosi che ammazzare il suocero non è il miglior regalo di nozze che si possa immaginare (anche se in molti casi potrebbe persin risultare un gesto lungimirante) – si da alla macchia; la figlia, consolata invano dalla nuova “amica”, decide di entrare in convento. Trama assurda, dunque, mal scritta e mal strutturata, come tanti melodrammi dell’epoca del resto, ma con la differenza che, nel 1839, non era più credibile né accettabile una tale assenza di vita teatrale (soprattutto dando uno sguardo – anche distratto – a quel che succedeva oltre le Alpi, nel resto dell’Europa civile). E diversamente dal Donizetti minore (anche lui ha musicato testi imbarazzanti),
Oberto non fornisce neppure quel mestiere musicale che se proprio non riesce a trasformarsi in vera ispirazione, almeno fornisce un linguaggio collaudato e funzionale. Addirittura, per molto tempo, l’unica occasione di citare l’opera veniva fornita dalle vicende compositive di
Ernani – quinta opera di Verdi – e nel presunto fatto che la cabaletta della cavatina di Silva,
“Infin che brando vindice” derivasse proprio da un numero alternativo dell’
Oberto (in realtà non c’è nessun autografo del pezzo e permangono dubbi persino sulla sua autenticità). L’opera, suddivisa in due atti, è costituita da 15 numeri musicali, preceduti da una Sinfonia: la distribuzione del materiale musicale rispecchia pedissequamente le convenzioni dell’epoca. L’Ouverture in due tempi (nient’altro che un centone dei temi dell’opera) svolge la medesima funzione della stragrande maggioranza delle ouvertures del melodramma italico, ossia avvisare il pubblico dell’imminente inizio dell’opera, invitandolo a prendere posto e a posare i bicchieri o le carte da gioco (quando non le grazie di un’amante furtiva): quattro sgraziati e rozzi accordi iniziali (con grancassa e piatti) e il solito tema su pizzicato dei violini affidato alle trombe, “assicurano” l’effetto banda. L’introduzione con cori ricalca i più consueti schemi del genere: dal trasportare lo spettatore
in medias res (confidando nelle sue facoltà immaginifiche per riuscire a comprendere – nei limiti del possibile – gli eventi pregressi all’azione narrata dal libretto: sforzo talvolta inutile, data la profonda incoerenza dello sviluppo di ogni trama rispetto alle premesse storiche) ai timidi e ingenui tentativi di oleografia musicale (come ricorda il Budden gli operisti italiani hanno sempre associato l’idea dell’alba
“ai motivi svolazzanti dei legni”: e lo stesso Verdi non riuscì ad emanciparsi dalla banalità di questo espediente, basti pensare agli analoghi episodi nell’
Attila e nel
Simon Boccanegra). I primi due episodi solistici (Riccardo e Leonora) sono di scarsissimo interesse: lo schema è quello tipico belliniano, con aria e cabaletta, ma molto semplificato e banalizzato (la strumentazione è pessima: in particolare il chiasso dei piatti e le trombe a doppiare la voce nella prima cabaletta). Assai più interessante il duetto successivo tra Leonora e il protagonista (forse la parte migliore dell’opera), soprattutto il bel monologo introduttivo di Oberto con le sue aperture cantabili e il vigoroso accento aristocratico sino allo sfogo melodico del duetto nella classica forma tripartita (efficace anche la stretta finale, seppur meno originale del resto). Dopo un coro di raccordo entra in scena l’altra protagonista femminile, Cuniza (la promessa sposa del nobile Riccardo): curiosamente nella versione finale dell’opera non è previsto il consueto episodio solistico (probabilmente a causa dell’inesperienza dell’interprete, come suggerisce il Budden), e l’opera prosegue verso un assai convenzionale duetto con il tenore, di chiara ispirazione belliniana (una vera e propria cavatina per Cuniza appare, invece, tra i tre brani completi di orchestrazione in appendice all’autografo – si possono ascoltare integralmente nell’incisione diretta da Marriner). Più elaborato il terzetto, ricco di idee musicali (che purtroppo accompagnano la scena più assurda dell’opera: dove si scoperchiano le carte e gli altarini del libertino vengono rivelati) e la prima parte del finale I, certo sono percepibili ingenuità e soluzioni maldestre, dovute essenzialmente all’inesperienza del compositore, tuttavia emergono quei semi – pur tra evidenti rimandi ai modelli tipici dell’epoca – che caratterizzeranno la particolarità della scrittura verdiana. L’atto si conclude con la solita stretta un po’ ruffiana ed impetuosa (Budden scrive
“è puro Rossini, senza la destrezza di Rossini nell’evitare la superficialità”) che nulla aggiunge alla struttura musicale. L’atto II, dopo il solito coro di damigelle, si apre con la scena di Cuniza: una classica aria in due sezioni con cabaletta di scarsissimo interesse musicale (inspiegabile il suo relativo successo tra passate interpreti) e che appare una rimasticatura polverosa di Bellini e di Rossini. Altro coro di raccordo e altro episodio solistico per Oberto: meno riuscito però del monologo dell’atto precedente. A seguire la scena con quartetto, quella che suscitò più impressione nelle cronache dell’epoca: in effetti è più facile scorgere in essa delle anticipazioni del compiuto stile verdiano. Dopo il duello (fuori scena) rientra Riccardo con la sua romanza (bella la seconda sezione con l’arpeggio del violoncello ad accompagnare una interessante melodia). L’opera si chiude, poi, con il rondò della protagonista (e nel 1839 siamo decisamente fuori tempo massimo!). Che dire? Ripeto: opera che si ascolta per il “dopo” più che per intrinseche virtù. Resta evidente l’impaccio nella scrittura e la scarsa dimestichezza con le convenzioni, le ingenuità stilistiche e il continuo rimando a modelli passati (Rossini e Bellini in particolari: molto più sfumati gli influssi donizettiani, a differenza di quanto si è solito leggere: in realtà Donizetti appare più moderno e consapevole, tanto che il suo “spettro” sarà chiaramente udibile almeno sino al
Trovatore che è, a mio parere, l’opera più autenticamente donizettiana di Verdi). Opera che mostra tutti gli squilibri dell’inesperienza e le lacune tecniche di un’istruzione musicale non costante (ben diversa la solidità di altri illustri esordi operistici, in particolare le assai più consapevoli
Villi pucciniane): si percepisce, insomma, l’ansia e la volontà di emergere e di dire parole nuove, ma si constata la mancanza di strumenti per farlo. Pochissime le incisioni disponibili,sopratutto i
live per una prorposizione in questa sede, a partire da un live superato e modesto (Torino ’51) e un altro assai peggiore del ‘77 (dirige Pesko e cantano la Gulin, Estes e Grilli: edizione discutibile): si segnalano le due incisioni in studio, di Gardelli (con il sempre ottimo Bergonzi, l’efficace, ma non impeccabile, Panerai e la solida Dimitrova: forse l’edizione migliore) dell’83, e di Marriner nel ’96 (che si segnala solo per la Cuniza della Urmana e la presenza di un’interessante appendice di brani alternativi: deludente Ramey). Più recenti il live del ’99 da Macerata (buona direzione di Callegari e un ottimo Pertusi) e Abel nel 2007.
Giuseppe Verdi
Oberto, conte di San Bonifacio
Ouverture – Zoltan Pesko (1977)
Atto I
Di vermiglia amabil luce…Son fra voi…Già parmi udire il fremito – Umberto Grilli (1977)
Ah, sgombro è il loco alfin…All’altar protendi invano…Oh potessi nel mio core – Angeles Gulin (1977)
Oh patria terra…Guardami! Sul mio ciglio…Odi in quell’alte torri…Un amplesso ricevi – Simon Estes & Angeles Gulin (1977)
Fidanzata avventurosa…Basta, basta, o fedeli…Il pensier d’un amore felice…Questa mano omai ritorni – Viorica Cortez & Umberto Grilli (1977)
Alta cagione dunque…Sono io stesso, a te davanti…Su quella fronte impressa…Ma fia l’estremo – Maria Grazia Piolatto, Angeles Gulin, Viorica Cortez & Simon Estes (1977)
A me gli amici…A quell’aspetto un fremito…Non basta una vittima – Viorica Cortez, Simon Estes, Angeles Gulin, Umberto Grilli & Maria Grazia Piolatto (1977)
Atto II
Infelice, nel core tradito…Oh, chi torna l’ardente pensiero…Più che i vezzi e lo splendore – Viorica Cortez (1977)
Bonus: Oh, chi torna l’ardente pensiero – Ebe Stignani (1951)
Bonus: Oh, chi torna l’ardente pensiero – Elena Nicolai (1951)
Bonus: Oh, chi torna l’ardente pensiero – Shirley Verrett (1971)
Dov’è l’astro che nel ciel…Ei tarda ancor…L’orror del tradimento…Ma tu, superbo giovine – Simon Estes (1977)
Eccolo…Vili all’arme, a donne eroi…La vergogna ed il dispetto…Ah, Riccardo, se a misera amante – Simon Estes, Umberto Grilli, Viorica Cortez, Angeles Gulin (1977)
Li vedeste…Ciel, che feci…Ciel clemente – Carlo Bergonzi (1981)
Dove son?…Li cerco invano – Maria Grazia Piolatto, Viorica Cortez (1977)
Tutto ho perduto…Sciagurata! A questo lido…Cela il foglio insanguinato – Angeles Gulin (1977)
Bonus: Tutto ho perduto – Maria Vitale (1951)