Duprez è andato a Torino per il Parsifal.
Seguono le loro impressioni nelle rispettive lingue d’elezione.
Am 30. Januar haben wir in Turin der vierten Vorstellung von Wagners „Parsifal“ unter der Leitung von Bertrand de Billy und der aus Neapel importierten Regie von Federico Tiezzi beigewohnt. Man kann mit Sicherheit behaupten, dass es mit diesem „Parsifal“ um die bisher beste Produktion der gesamten aktuellen Opernsaison in Italien handelt.
Die Inszenierung von Federico Tiezzi vermittelt treffend den Geist des Werkes: Gestik und Bewegungen werden stark ritualisiert, die äußere Handlung wird aufs Minimale reduziert, ganz verinnerlicht und durch lakonische, exakte Symbolik sublimiert. Radikale Wendepunkte in Handlung und Musik werden auf der Szene durch einfache und buchstäblich einleuchtende Veränderungen in der Beleuchtung wiedergegeben: so im zweiten Akt nach Kundrys Aufschrei „…und lachte!“ oder im dritten Akt am Anfang der Karfreitagszauberszene.
Ebenso treffend und in perfekter Übereinstimmung mit dem Ethos der Regie fanden wir die überwältigende und durchaus originelle Leitung von Bertrand de Billy. Sein „Parsifal“ ist vielleicht der lyrischste, den man je zu hören bekommen hat. Nie ein überflüssiges Forte, nie eine pseudo-spätromantische Übertreibung und Überladung sei es der Harmonik oder der Dynamik. Perfekte Transparenz, Natürlichkeit, Flüssigkeit, vor allem aber Leichtigkeit! Nie hat „Parsifal“ so leicht geklungen, nie ist in dieser vierstündigen, „schweren“ Oper die Zeit so schnell vergangen. Mit einem idealen Gefühl für das richtige Maß hat de Billy gewusst, die Partitur von jedweder Aggressivität und pompösen Ausschweifungen zu befreien. Nahezu impressionistisch, ja Debussy-artig und äußerst sängerfreundlich hat de Billy im Orchestergraben das realisiert, was auch auf der Szene der Grundcharakter, die Grundgeste zu sein schien: das Schonen. Ein Bühnenweihfestspiel, das das Sakrale als eine schonende Berührung, als einen zarten Wink versteht. Wie hoch der Grad der totalen Verinnerlichung in der instrumentalen Lektüre von de Billy gewesen ist, mag exemplarisch durch das Finale des zweiten Aktes bestätigt werden. Nachdem Parsifal den von Klingsor gegen ihn geschwungenen Speer ergriffen hat, begleitet das Orchester die Worte von Parsifal, die zum Sturz von Klingsors Zauberreich führen, mit einem Crescendo, das die Spannung bis aufs Unerträgliche steigert, ohne jedoch die „Lautstärke“ des Crescendo selber von einem Forte zu einem Fortissimo wachsen zu lassen. Höchste Meisterschaft.
Was die Sänger betrifft, schien uns Christopher Ventris (Parsifal) stimmlich weniger überzeugend, als vor zwei Jahren, als wir ihn in Bayreuth unter der Leitung von Daniele Gatti hörten. Dennoch zeigt er ein tiefes Verständnis für die Rolle und weiß die Entwicklung des reinen Tors zum mitleidsweisen Erlöser präzis auszuzeichnen. Christine Goerke (Kundry) besitzt eine beeindruckende Stimme und stellt eine sinnliche Kundry dar, ist aber letztendlich wegen der äußerst unzulänglichen Stimmtechnik sehr diskontinuierlich in ihrer Leistung. Jochen Schmeckenbecher (Amfortas) ist roh und mühselig in der Emission und der Führung der Stimme. Die Attacken mangeln sehr oft ein gesundes Vibrato. Trotzdem konnten sowohl er und Christine Goerke als auch der übertrieben aggressive und deklamierende Mark S. Doss (Klingsor) durch die außerordentliche Leitung von Bertrand de Billy, besonders aber durch die Präsenz des spektakulären Kwangchul Youn (Gurnemanz) „erlöst“ werden.
Kwangchul Youn ist mit Sicherheit nicht nur der beste Gurnemanz unserer Zeit, sondern auch einer der größten der gesamten Interpretationsgeschichte dieser überlangen und eine unendliche stimmliche, szenische und expressive Autorität und Eloquenz verlangenden Rolle. Kein anderer Wagnersänger besitzt heute eine so sichere Stimmtechnik, die es ihm erlaubt, seinen Bass in allen Registern mit einer kompletten Homogenität zu führen, frei und vielfältig von Piano bis Forte zu phrasieren, eine phänomenale, kristallklare sprachliche Klarheit zu besitzen, und – geradezu eine Rarität im heutigen Wagnergesang! – Legato zu singen. Jeder Note, jedem Wort, jeder musikalischen Phrase verleiht er einen Sinn. Wir hatten das Glück, Herrn Youn auch schon früher, nämlich bei den Bayreuther Festpielen im Jahre 2009, als Gurnemanz zu hören und müssen nun begeistert feststellen, dass sowohl seine stimmtechnische Fertigkeit als auch das unglaublich tiefe Verständnis der Rolle seit diesen zwei Jahren noch stark gewachsen sind. In unserer, von wahren Stimmen und musikalischen Persönlichkeiten leeren Epoche ist es geradezu eine Freude, zu sehen, dass es einen Künstler gibt, der mit beispielhafter Klugheit seine Karriere zu führen, bzw. seine Stimme zu schonen weiß und als Sänger und Interpret stets neue Höhen erreicht. – Giuditta Pasta
Difficile scrivere di Parsifal: la genesi dell’opera, il suo valore di spartiacque nella storia della musica occidentale, l’importanza anche filosofica dell’opera nell’estetica del suo autore, l’immenso sforzo creativo, le polemiche succedute alle prime rappresentazioni… Argomento vasto, troppo vasto per esporlo in modo breve e sintetico: evitando, però, di ripetere ovvietà o banalità, oppure senza correre il rischio di divagare in speculazioni filosofiche (affascinanti, vero, ma più adatte a trattazioni più complete ed esaustive dell’argomento). Più facile, invece, parlare di questo Parsifal: il Parsifal messo in scena a Torino (mi riferisco allo spettacolo di domenica 30 gennaio), che – anche, e soprattutto, in confronto al Wagner che ci siamo abituati, ahinoi, ad ascoltare a Milano – ci porta davvero in un’altra dimensione. Superiore. Superiore in ogni singolo aspetto: rappresentativo ed interpretativo.
In effetti, a prima vista e considerando le difficili condizioni economiche e artistiche in cui versa lo stato della musica nel nostro paese, un Parsifal sembrava “passo più lungo della gamba”, un azzardo insomma. Mi sbagliavo. E son felice di essermi sbagliato, dato che ho assistito ad uno dei migliori spettacoli della mia personale storia di frequentazioni teatrali. E non in virtù di un atteggiamento volto all’ “accontentarsi di quel che passa il convento”: tutt’altro, giacché questo Parsifal resta una delle migliori interpretazioni del titolo anche rispetto alla sua trascorsa storia interpretativa. Un Parsifal di riferimento. Direi unico. Bertrand De Billy – direttore assai sottovalutato da noi, ma frequentatore dei maggiori podi europei – offre, infatti, una lettura personalissima dell’estremo capolavoro wagneriano. Colpisce, innanzitutto, la trasparenza dell’orchestra, la leggerezza con cui le imponenti architetture dell’opera si combinano tra loro e si costruiscono, mostrando la complessità della polifonia wagneriana senza nulla concedere all’edonismo sonoro o all’indulgenza verso effetti roboanti o ipertrofici. Sonorità che rimandano a Debussy. Un’orchestra che pulsa sotto il bellissimo gesto di De Billy, ampio, ma non retorico, che vibra senza certa melassa di tradizione tardoromantica e che evita con cura ogni suggestione millenaristica: in ciò si mantiene in una sacralità intima, sofferta, tragica (più neotestamentaria che veterotestamentaria, per utilizzare paragoni religiosi), in cui la grandezza è costruita sulla semplicità, e non sulla monumentalità. In questa lettura – razionale, tesa, drammatica – emergono come gemme le pagine del preludio (condotto come un unico respiro), la musica della trasformazione (con il rintocco lieve delle campane) che è come un sussurro impercettibile in cui ci si sposta senza spostarsi (il tempo che diviene spazio), l’incantesimo del Venerdì Santo… Ma ogni pagina sarebbe da sottolineare e da elogiare. La scelta di De Billy – suono rarefatto e giocato sui piani e pianissimi – permette di rispettare tutti i segni espressivi di cui Wagner dissemina la partitura (le mezzevoci, i pianissimi, i sussurri, la regia della parola che l’autore esprime attraverso una costruzione musicale screziatissima e dinamica): Parsifal è stato voluto e concepito per l’acustica particolarissima e unica del Festspielhaus di Bayreuth, con l’orchestra rintanata nel golfo mistico e, dunque, caratterizzata da un suono che mai copre il canto (canto che, quindi, può e deve proporsi con tutte quelle sfumature che compaiono in partitura). La maggior parte di questi segni espressivi – che racchiudono la poetica dell’autore e disegnano la cifra musicale del Parsifal – vengono inevitabilmente compromessi nelle esecuzioni più tradizionali, con orchestre tradizionali e con rapporti tra le dimensioni sonore completamente differenti rispetto a quelle di Bayreuth. De Billy, invece, mantenendo il suono misurato ed essenziale permette agli interpreti di non forzare, di non cercare di sfondare il muro sonoro che emerge dalla buca nelle esecuzioni tradizionali. In questo viene favorito da un’orchestra in stato di grazia: precisa e senza sbavature che davvero sembra aver assorbito il linguaggio wagneriano, il modo di respirare nelle ampie arcate sonore che fan rimanere senza fiato l’ascoltatore (e questo per un’orchestra italiana, abituata a tutt’altro genere, è straordinario: il confronto con le scadute compagini scaligere è disarmante…). I tempi non sono slentati, non c’è alcun compiacimento, ma, piuttosto, l’idea di un discorso serrato che, pur negli amplissimi spazi della narrazione wagneriana, non si concede a divagazioni edonistiche (lettura che pare aver recepito e perfezionato la lezione di Boulez). Se straordinaria è la lettura di De Billy e dell’orchestra, altrettanto si deve dire del coro e della compagnia di canto: il primo è semplicemente perfetto nel disporsi nei differenti piani così come pensati da Wagner (il finale I davvero mostra il senso di profondità e di elevazione), precisissimo e musicalissimo nella difficile polifonia degli episodi corali, senza mai indulgere in effetti riempitivi, ma riuscendo a mantenersi su affascinanti mezzevoci in una sacralità interiorizzata. Ottima nel complesso il cast. Certo alcuni estremi acuti della Kundry di Christine Goerke potevano apparire un poco sforzati, ma la voce importante, l’appoggio e la ricchezza di sfumature, nonché l’estrema precisione musicale, ripagavano ampiamente di alcune imperfezioni. Così come il Parsifal di Christopher Ventris, apparso forse un po’ stanco nell’ultimo atto, ma dopo un atto II di grande intensità e un duetto con Kundry trascinante ed intenso: la scrittura centrale lo aiuta, insieme alla grande intelligenza interpretativa. Forse il miglior Parsifal possibile oggi. Efficace il Klingsor di Mark Doss: voce sonora e tagliente, come si addice al personaggio, senza però trasformarlo in una specie di grottesco Mefistofele in salsa teutonica. Del pari il sofferente Titurel del veterano Kurt Rydl: perfetto nel rendere il dolore senza indulgere in senescenze artificiose. Qualche problema in più lo mostra l’Amfortas di Jochen Schmeckenbecher (devo dire che non ho presente altri Amfortas impeccabili), ma non rovina certo la festa. Così pure il complesso delle Blumenmädchen, senz’altro perfettibili, ma sempre precise. Capitolo a parte va dedicato al Gurnemanz di Kwangchul Youn: splendido. Superlativo d’obbligo per un’interpretazione che si pone ai vertici della storia del personaggio, e non solo oggi, ma anche nel passato più glorioso. La voce è autorevole e morbida, ricca di sfumature, perfettamente emessa. Youn sottolinea e interpreta ogni parola, la cesella, la porge: grazie alla sapienza tecnica, alle mezzevoci, alla colorazione di ogni nota rende trascinanti i lunghi monologhi del primo e del terzo atto (dove non permette alcun calo di attenzione e di tensione). Un Gurnemanz superbo e perfettamente congeniale alla particolarissima e intensa lettura di De Billy. Modernissimo nell’evitare certo immobilismo compiaciuto e fine dicitore nel sottolineare ogni piega del testo. In tale contesto si sarebbero potuti tranquillamente chiudere gli occhi e lasciarsi trasportare da una musica sublime splendidamente interpretate. Invece era opportuno tenerli ben aperti: giacché lo spettacolo di Federico Tiezzi era perfettamente congeniale a quanto si stava ascoltando. Regia risolta nel gesto e nel simbolo, fatta di spazi e geometrie: una trasfigurazione del mondo reale nella perfezione idealizzata dal Graal, dove davvero il tempo diviene spazio. Scene molto semplici, astratte ed evocative, che richiamavano un museo stilizzato con affascinanti giochi prospettici ed un uso sapiente di elementi simbolici, luci e colori (splendido l’effetto del Venerdì Santo, dove una luce verde, primaverile, irradia la scena, e la trasfigura in una fioritura che davvero simboleggia la rinascita dell’anima). Alla fine applausi, meritatissimi, per tutti. Resta, a margine, un poco di sana polemica: polemica verso certi mezzi d’informazione, certa stampa e certa critica. Non stupisce, infatti, che chi si è assunto l’incarico di difensore d’ufficio della milanesità musicale (sia essa rappresentata dalla Scala o dalla Scalà), che da maestro cantore dell’epopea mutiana (con i bollettini dei trionfi in stile pavoliniano da cinegiornali dell’Istituto Luce) ha composto peana per tutto il suo ventennio, e che ora spalleggia qualsiasi tentativo di autocelebrazione, autocompiacimento o autoerotismo che permetta la continuità, ora come allora…arricci il naso di fronte a realtà concorrenti e si barrichi dietro pretesti patriottardi contro la “calata dei barbari”. Però correrebbe l’obbligo d’un minimo di pudore: denigrare l’orchestra torinese (perfetta invece) o definire pesante e non ispirata la direzione di De Billy – e magari, contemporaneamente, salutare come un miracolo il concerto per bande e stantuffi che abbiamo avuto modo di apprezzare a Natale alla Scala – odora di mala fede. Che poi lo si faccia dalle stesse pagine del quotidiano che in passato è già caduto in clamorosi svarioni (dando conto di serate inesistenti, elogiando artisti che poi – all’ultimo – non hanno cantato, o dando conto di arie e brani non eseguiti, oppure sbagliando il nome del teatro…lasciando intendere che in realtà molte di quelle recensioni fossero mere testimonianze de relato, confuse e raccogliticce), lo stesso quotidiano che in occasione di una passata prima scaligera (Don Carlo) “prese spunto” – diciamo così – da un pezzo del sottoscritto, riproducendolo quasi integralmente (in barba alla normativa sulla proprietà intellettuale), compreso l’errore di datazione che m’era sfuggito, beh…il valore di una critica siffatta si presta a più di un ridimensionamento. In realtà credo che il più grande difetto di De Billy – imperdonabile agli occhi del critico di turno – sia quello di non chiamarsi Daniel o Daniele: e non sia mai che il presunto primato scaligero (che forse non è mai esistito) venga intaccato dal mero sospetto che altrove si possa fare assai meglio! La realtà si scontra sempre con i desiderata: soprattutto quando i desiderata battono la grancassa delle nostre piccole e provinciali parrocchiette. Per questo mi sento di dire che il mondo musicale non gira intorno alla Scala – con buona pace dei suoi cantori – né il mondo della critica musicale dipende dalla stampa milanese. – Gilbert-Louis Duprez
Ottime entrambe le recensioni. Paragonandole con la mia e con quella dell´amico Daland sul suo blog, vedo che concordiamo praticamente su tutto.
Del resto, la qualità dello spettacolo era incontestabile. Un Parsifal che potrebbe essere portato con onore sulle scene di qualsiasi grande teatro mondiale.
Saluti.
un minimo di oggettività esiste ancora eh?…almeno per qualcuno….
comletamento d'accordo con questo post,anche nella polemica finale di Duprez.
Anche per quando riguarda i finanziamenti,che vanno fatti in ragione dei meriti e serietà,e il teatro torinese dovrebbe averne di piu alla luce dei risultati,e non a i nomi,come alla Scala o l'opera di Roma dove si finanzia in misura maggiore solo dei teatri dal passato glorioso,ma ahime con un presente fatto solo solo col nome di questo passato,basta l'ultima recita della Cavalleria e Pagliacci per capire il livello attuale della Scala.
Grazie Teatro Regio di Torino in grado di allestire questi capolavori senza fare rimpiangere un passato.
Questo non è neanche mancanza di oggettività. Se quel critico trova che De Billy è lento (!) e spento, allora ci sono due possibilità per spiegare questa critica: 1. o non ha mai sentito un altro Parsifal (perché la maggior parte dei Parsifal, eccetto Boulez e forse Kegel, sono moooolto più lenti di questo) per fare almeno un confronto SOGGETTIVO o 2. non capisce neanche una sola nota di Parsifal.
bellissima recensione di duprez, peccato non riuscire a leggere quella di giuditta;-)
Oppure, cara Giuditta, nemmeno ha visto lo spettacolo recensito (e succede spesso).
Ahahaha, ed io pensavo che mi fossi figurata le due possibilità peggiori! :))
molto interessante. Il timore m'aveva tenuto lontano da questo titolo fin'ora, voi invece stuzzicate la curiosità…. da quale incisione mi consigliereste di partire per gli ascolti?
Beh, Silvio, Parsifal è una delle vette supreme della musica occidentale. Per un primo approccio direi la classica incisione di Solti (1972) o la prima di Knappertsbusch (1951). Subito dopo però passa a Boulez. Da evitare con cura quella del Met del '38, orridamente suonata e mal diretta, presenta un cast problematico con una Flagstad completamente fuori parte e un Melchior, più monolitico del solito: vale la pena solo sentire Schorr…troppo poco però. E poi è molto tagliato. Ti consiglio Kegel e Kubelik.
Caro Silvio, se vuoi un Parsifal facilmente digestibile, dinamico, veloce, trasparente, secco, fast-food e moderno, personalmente ti consiglio la registrazione di 1970 da Bayreuth diretta da Boulez. Ci sono un James King (Parsifal) ed una Gwyneth Jones (Kundry) accettabili ed apprezzabili e un Franz Crass (Gurnemanz) e Thomas Stewart (Amfortas) strepitosi.
Il consiglio classico sarebbe Knappertsbusch, ma per iniziare non penso che sia una decisione così prattica…
Se no, ci sono ancora le recite di questo Parsifal a Torino fino al 6 gennaio e puoi andarci :)))
Ah, abbiamo scritto simultaneamente, Duprez.
Si, Kubelik anch'io lo consiglierei.
Invece io ho sempre problemi con il Wagner di Solti. Quanto l'adoro in Strauss, tanto in Wagner lo sempre trovo troppo tecnico e rigido. Eppure c'è la mia adorata Christa Ludwig…
Per entrare nello "spirito" di Parsifal (quello sacrale, discreto, lirico), le migliori registrazioni sarebbero, secondo me, Kubelik, Boulez e quelle di Kna, ma, pragmaticamente parlando, per iniziare io consiglierei comunque soprattutto Boulez.
Aggiungo i consigli per il DVD, che per un primo approccio, grazie ai sottotitoli, è forse più indicato.
Raccomandabili l´edizione zurighese diretta da Haitink e quella del Met diretta da Levine forse in modo non geniale ma equilibrato, e con un cast ben assortito comprendente Siegfried Jerusalem, Kurt Moll, Bernd Weikl e Waltraud Meier
Giuditta fino al 6 Febbraio…. gennaio ormai è andato(scherzo!)
Silvio se vieni a Torino al Regio
le date sono ancora il 3 e 5 febbraio ore 18
e il 6 febbraio alle 15 (ultima recita).
Come ti ha consigliato Giuditta comincia subito con una recita dal vivo qui a Torino,e come ha detto Duprez nella sua recensione la puoi usare anche come riferimento.
Ah ah..vero Giuditta, abbiamo scritto contemporaneamente..e quasi dando gli stessi consigli! Sul Wagner di Solti sono sostanzialmente d'accordo con te: molto tecnico, molto imponente, molto preciso, ma anche un po' rigido e artificiale (tranne i Meistersinger con l'orchestra di Chcago, e il Tannhauser che per me restano il vertice delle rispettive discografie). Però, forse, questa mancanza di vero carattere, questa oggettività, funzionano assai bene come introduzione a Wagner. Mi sono messo nei panni di chi mai ha ascoltato un Parsifal integrale: beh, ho pensato al technicolor di Solti. Poi, ovviamente, le mie preferenze vanno ad altre interpretazioni.
Pur leggendovi spesso è la prima volta che commento sul blog, ma ho letto ora la vostra recensione, poco dopo avere assistito alla recita al Regio, e concordo appieno: un Parsifal suonato e cantato magnificamente, ottimamente recitato e diretto. Una serata di vero teatro e di grande musica, che riconcilia con la lirica e fa bene all'anima.
Peccato per il silenzio o la mala fede della oramai defunta critica nostrana… per chi fa ancora in tempo: da vedere assolutamente!
Sono davvero molto perplesso per la definizione che Duprez dà di Melchior nel Parsifal del '38: "più monolitico del solito". Il che lascia intendere, se l'italiano è italiano, che Melchior solitamente è un cantante monolitico. Abbastanza stupefacente. Basta ascoltare quell'autentico capolavoro che è il suo Siegmund nel primo atto della "Walkuere" diretta da Walter a Vienna nel '36 per rendersi conto di trovarsi davanti ad un cantante di tecnica eccellentissima, di un lirismo soggiogante, di una capacità infinita di sfumature. E poi vorrei spendere due parole sul "Parsifal" diretto da Solti. Sento ripetere per questa esecuzione i luoghi comuni che puntualmente riappaiono a proposito del direttore ungherese: grande tecnica ma scarsa personalità di interprete, mancanza di una visione personale, oggettività dell'approccio, addirittura resa sonora in technicolor. Tutte queste caratteristiche lo renderebbero adatto a un primo ascolto, ad un ascolto "ingenuo"; tuttavia, passata la fase di una sorta di adolescenza wagneriana, a ben altro si deve passare, al vero e proprio approfondimento da parte di chi è diventato adulto e già conosce ciò che deve conoscere.
Una cosa che nella sala del Regio ho trovato scandaloso ed insopportabile era la catena INTERMINABILE di tosse, del soffiarsi il naso, delle chiacchiere, del fruscio delle buste di caramelle – un ospedale! E tutto questo proprio nei momenti più cruciali, dolci e vulnerabili della partizione!
Ho sempre pensato che il Regio fosse il primo teatro d'Italia: spettacoli sempre degni o comunque ad un minimo superiore, spesso, al massimo di altri blasonati teatri tutto fumo e niente ciccia. E in ragguardevole rapporto di qualità al prezzo del biglietto: direi la meno peggio lirica accessibile a molti. E' una gran cosa.
Terminato il panegirico, mi duole non poterci andare a sentire e vedere questo bel Parsifal, nonostante le voglie che mi avete fatto venire.
Ora, secondo me non è proprio il caso di esprimersi in questo modo. Il "Parsifal" diretto da Solti non è affatto privo di una visione personale e soggettiva; e non è neppure schiavo di una resa immediatamente improntata dall'esteriorità e volta soltanto all'effetto. E', al contrario, l'approfondimento e la maturazione di una linea che ha il suo precedente nel Clemens Krauss interprete dell'opera ultima di Wagner. Come questi trovava la sua via nel dare risalto alle grandi oasi liriche e al contempo nel ricercare una mobilità estrema nel contrasto fra i personaggi (in ciò ponendosi agli antipodi di Knappertsbusch, che fondava la sua lettura sull'antitesi, questa sì monolitica, fra il bene e il male)), così Solti rivela lungo tutta l'opera le sfaccettature infinite di un intenso lirismo, al cui interno si aprono con ancora maggiore evidenza i drammi delle singole persone e i tragici rapporti fra di loro. Non c'è nell'esecuzione nulla di forzato, nulla di spettacolare, i piani sonori si rapportano l'un l'altro con assoluta naturalezza.E' questa naturalezza che spesso viene scambiata per "oggettività", per "tecnica". Ma non è così. Io non ho sentito in questa esecuzione nulla che potesse far pensare a quegli "effetti senza causa" che Wagner riprovava in Meyerbeer. Anzi Solti, nel suo rifiuto a lasciarsi portare dal flusso della musica e nella sua caparbia volontà di aprire all'interno di essa sottili vibrazioni e riflessi, si propone come un autentico protagonista.
Certo, anche in questo "Parsifal" il Wagner di Solti non è il Wagner che piaceva a Nietzsche, il maestro delle piccole cose, delle segrete malinconie, colui che esprime perfettamente il clima della "décadence". E' un Wagner ancora robusto, in cui l'arco delle tensioni sonore non si spezza in quello che tante volte è parso soltanto uno stucchevole frammentismo sentimentale. Ma, almeno qui, non ha nulla a che vedere con la spettacolarità. Realizza perfettamente le intenzioni del direttore un cast difficilmente uguagliabile. René Kollo, un Parsifal che incarna il suo fervore estatico in una freschezza giovanile davvero adatta alla parte. Gottlob Frick, all'epoca della registrazione ultrasessantenne, nella parte di Gurnemanz non ha più la qualità vocale che gli apparteneva negli anni Cinquanta e Sessanta. Ma è ancora più commovente; il modo in cui accoglie Kundry nel terzo atto non l'ho mai sentito da nessuno, né prima né dopo di lui. Kélémen, meraviglioso Alberich con Karajan, nella parte di Kingsor ripresenta qui le sue meravigliose doti di attore vocale. Dietrich Fischer-Dieskau come Amfortas riesce ad esprimere con compostezza liederistica lo strazio insopportabile della vista del Graal; un grido che strappa il cuore e che tuttavia non ha nulla di esteriore. Infine, Christa Ludwig come Kundry. Supera agevolmente le enormi difficoltà della parte, credibile sempre nlla sensualità come nell'abbattimento. La pulizia vocale dell'intero cast, la bellezza di ogni suono sia orchestrale che vocale, è come se servisse a collocare storicamente l'opera, così in bilico fra romanticismo memore di alcune atmosfere del "Lohengrin" e "décadence": la bellezza che si fa storia.
Marco Ninci
Caro Ninci, mi spiace che tu ritenga ogni opinione contraria alla tua, una sorta di scandalosa eresia, di cui stupirsi, meravigliarsi…o da trattare con ironico disprezzo: si tratta di opinioni che puoi non condividere (come io non condivido le tue, senza – per questo – dire che si tratta di idozie). Nel merito:
1) Melchior è tenore che non mi è mai piaciuto, e mai mi piacerà. Trovo molto più interessanti altri cantanti storici wagneriani: Franz Völker, Max Lorenz, ma anche Sandor Konya e Jacques Urlus. Questo per restare al passato. Trovo Melchior stentoreo e monolitico, quasi sempre: ma se in taluni ruoli è tollerabile, così non è in Parsifal, che è personaggio sfaccettato e ambiguo, unico nel panorama wagneriano. Allo stesso modo trovo assai scarsa la Kundry della Flagstad, che nulla aveva a che fare con il personaggio. Del resto il Wagner del Met non mi è mai piaciuto (orchestra scandalosa, direzione pessima, infinità di tagli e persino sgradevoli riorchestrazioni).
2) non mi sembra di aver scritto che il Wagner di Solti è osceno: mi piace, ma lo vedo più come un'introduzione, un modo ottimo di conoscere l'opera (parlo di Parsifal, Ring, Tristan), che però non trovo molto personale. Nel Parsifal, in particolare, poi, lo trovo distante dalla tensione morale implicita nella partitura: enfatizza l'aspetto lirico e i momenti grandiosi, l'orchestra è sontuosa e piena. Tutto molto bello, per carità, ma alla fine è una lettura che scivola via (esattamente come quella di Barenboim).
Giuditta ahimé: siamo in periodo di malanni stagionali, ma questo certo non vuol dire che a teatro non si possa a fare a meno di attutire quanto meno il rumore! E considerando che il biglietto bisogna comprarlo mesi prima, è comprensibile che una persona non possa prevedere né voglia perciò rinunciare alla recita.
Sul chiacchiericcio invece hai ragione: è insopportabile e il frusciar di caramelle ancora peggio… Denotano l'indifferenza tipica di un individualismo consumista! Mi astengo da una qualificazione reale del tipo di pubblico che compie codesti gesti scellerati!
Mi era invece sfuggito, cioè: no, ma lì per lì avevo tralasciato, il commento dell'ottimo Duprez su Melchior, dove a stonare è quel "più… del solito". Mah, sarà: ma io ho sempre ritenuto Melchior un impeccabile interprete. Forse non "poetico" come Windgassen, ma certo non monolitico. Non ricordo però l'interpretazione del '38 che credo di non avere, ma di aver sentito qua e là a spizzichi e bocconi…
Per iniziare con "Parsifal" io consiglio sempre l'edizione che rappresenta per me IL Parsifal: Knappertsbusch '51, il quale ad ogni ascolto regala un'impressione sempre diversa oltre che rappresentare un punto cardine ineguagliabile nell'interpretazione wagneriana e nella storia dell'opera.
Da conoscere anche i Live successivi, quelli per intenderci con la Dalis e la Créspin.
Successivamente consiglierei la lettura di Clemens Kraus '53, per una visione completamente diversa da Knappertsbusch, ovviamente Boulez che Mioli definisce "scandalistica".
Solti non lo trovo per nulla rigido e artificiale (trovo più Levine rigido e artificiale rispetto a Solti), Karajan è da conoscere assolutamente, altro vertice in cui la bellezza diventa fattore espressivo alla maniera di Kraus.
In video consiglio lo splendido spettacolo Barenboim-Kupfer: il primo mai più così ispirato, sacrale, ipnotico, il secondo ci regala un allestimento geniale e toccante; per i tradizionalisti ci sono i due eleganti, ma un po' esangui, ma comunque godibili allestimenti di Wolfgang Wagner con Stein nell'81 e con Sinopoli nel '98 che ci regala una direzione profumatissima e stordente, che amo moltissimo. Un po' una pacchianata lo spettacolo del Met, ma con un cast molto interessante. Per gli amanti delle cose cervellotiche c'è il film ad alto tasso di simbolismo si Syberberg con la direzione calligrafica di Jordan.
Da conoscere e non sottovalutare Sawallisch, Cluytens, Jochum e Kubelik e negli ultimi anni da non perdere assolutamente Thielemann sia a Bayreuth che a Vienna.
Non conosco, purtroppo i DVD con Nagano e Haitink, ma non sottovaluterei troppo Melchior-Flagstad o la Lawrence e la Callas con Gui 😉 potrebbero offrire alcune sorprese…
Marianne Brandt
Per quanto riguarda lo spettacolo torinese che dire: a parte ringraziare le FFSS per non avermi fatto partire (e so che molti si sono trovati nelle medesime condizioni), ho almeno potuto godere di questo allestimento grazie alla bellissima ripresa radiofonica e alle recensioni degli amici e colleghi Duprez e Pasta, i quali come al solito polverizzano tranquillamente la avvilente pseudo-critica-patinata italiota con la loro prosa: tanto di cappello e grazie.
Ciò che ho sentito è di altissimo livello per gli standard di oggi: un protagonista, Ventris (già protagonista a Bayreuth, giustamente e premiato da ben 2 incisioni), che non avrà voce torrenziale e potrà anche essere leggerino, ma ha timbro piacevole ed emesso con grande cura, non sbaglia le note e si sforza di conferire forza alla parola, non esagera, eppure è credibile nel suo percorso di formazione. Una bella interpretazione, davvero, che a bayreuth hanno pensato bene di sostituire quest'anno con il pedestre Simon O'Neill…
Una Kundry, la Goerke, dalla voce imponente, scura, veemente e sensibile, anche se fragile tecnicamente, ma che non sfigura (a parte qualche acuto abbastanza duro).
Un Gurnemanz che è semplicemente un capolavoro! Voce solida, splendida, tecnica rifinita, scavo di ogni sillaba, mai una sbavatura, mai un attimo di noia nei lunghi monologhi, carisma da vendere, ma senza prevaricare gli altri, timbro compatto e da vero basso, interprete tra i maggiori del ruolo di oggi e del '900. Una incarnazione del genere non si dimentica.
Un Amfortas (Schmeckenbecher), un Klingsor (Doss) che nonostante le pecche dell'emissione e gli sbandamenti non fanno grossi danni, un Titurel (Rydl) ancora robusto e penetrante.
E su tutti svetta la bacchetta miracolosa, eccellente di Bertrand de Billy, la quale è una estasi sonora… alla fine ero commossa, testimone la Chat, che ha riconosciuto subito la qualità di questo "Parsifal".
Torino ci ha regalato una grande, grande serata di Teatro (ed il III successco consecutivo della propra stagione dopo il Godunov e la sorprendente Butterfly), in cui ogni componente ha agito con serietà e passione, cancellando la boriosa fuffa culturale dei teatri milanesi e italiani in genere che elemosinano euro senza guadagnarseli, con amministrazioni semplicemente dissennate.
Marianne Brandt
vi ringrazio tutti per le puntuali osservazioni. Cercherò di seguirle, magro portafogli permettendo. Nello specifico: non mi è possibile venire alle ultime recite torinesi e i dvd sottotitolati non sono di grande aiuto, a meno che non trovi un'anima pia capace di leggermeli uno a uno (sono nonvedente).
Penso che mi orienterò in ogni caso sulle tre incisioni che hanno riscosso una maggiore approvazione da voi tutti. COme sempre, grazie.
Volevo sottolineare ancora una cosa. Chi segue abitualmente le dirette RAI, avrà notato l´ottimo livello del suono di questo Parsifal torinese, a differenza di altre trasmissioni nelle quali l´orchestra suonava come nei vecchi 78 giri e il coro pareva cantare in un´altra stanza. Questo perche di solito nei teatri italiani nessuno si assume l'incarico di controllare durante le prove di registrazione la qualità del suono che verrà poi mandato in onda. Probabilmente al Regio qualcuno si occupa di ciò e lo fa con molta competenza, a giudicare dal risultato.
Un ulteriore motivo di lode per il teatro torinese.
Saluti.
Giudita capisco che è fastidioso durante la recita il tossire del pubblico (tenendo conto anche dalla stagione)però e meglio sopportare il tossicchiare che non la desolazione di vedere la recita in un teatro desolatemente deserto o semideserto.
Mah…Pasquale…non saprei: capisco la tosse vera, ma a Torino era il solito schiarire la voce (gesto volontario ed esibito…e profondamente maleducato), le chiacchiere continue durante i crescendo, il continuo armeggiare con cerniere, borse e caramelle… A volte auspicherei il teatro deserto…solo per me (pensa che ho rinunciato ad andare al cinema per la maleduzazione del pubblico).
Caro Duprez, scusami se ti ho offeso, ma chiamare "tollerabile" Melchior in quel primo atto della "Walkuere" è opinione realmente stupefacente. Io ho conosciuto molte persone che hanno ascoltato quella sublime registrazione (forse la più favolosa testimonianza wagneriana di ogni tempo, se avesse senso fare di queste classifiche) ma mai, proprio mai, ho sentito un'opinione di questo genere.
Ciao
Marco Ninci
Caro Marco…il "tollerabile" era riferito a me: Melchior non mi piace molto, lo "tollero" come Sigmund (non mi riferivo ad una specifica incisione). Solo un'opinione personale. Non è il mio tenore wagneriano ideale, ecco.