È in scena in questi giorni al Teatro Comunale di Bologna Tannhäuser. La trasmissione radiofonica, giovedì scorso, ci ha indotto a non affrontare l’esperienza dell’ascolto in teatro. D’altronde bastava uno sguardo alla locandina per comprendere come ben poche soddisfazioni potessero giungere dal titolo, se proposto da una simile squadra d’interpreti.
Per rimediare, abbiamo pensato di dedicare comunque una pagina del nostro Corriere al dramma wagneriano, proponendo alcune esecuzioni della romanza di Wolfram al terzo atto.
Alcune esecuzioni, non certo tutte, e neppure tutte le più belle e interessanti. Diciamo alcune delle più significative, in ogni senso, specie per quanto attiene l’evoluzione del canto, wagneriano e non. Tutti i cantanti in questione non sono o non furono specialisti wagneriani in senso stretto. Del resto non siamo certo noi a ritenere che l’affrontare Wagner costituisca un’attenuante generica per ogni malvezzo vocale, né pensiamo che il repertorio dell’autore tedesco goda di una qualsivoglia forma di extraterritorialità rispetto alle regole del canto professionale. Per essere chiari, avremmo potuto proporre i medesimi cantanti – con una sola eccezione – nella morte del marchese di Posa ovvero in uno dei monologhi di Alfonso XI di Castiglia.
L’outsider, il cantante che affronta questa pagina da baritono senza esserlo, è ovviamente Alexander Kipnis, la cui voce sontuosa e naturalmente scura si addice perfettamente tanto al recitativo quanto al successivo cantabile. La pagina, che non passa un mi naturale (toccato su “wenn sie entschwebt”), è però di tessitura assai acuta, battendo sulla zona che prepara e segue il passaggio di registro superiore (sol-re), e questo costa un poco al cantante ucraino, che arriva con difficoltà al suddetto mi naturale e, pur esibendo un legato di grande qualità, non sempre rispetta le numerose indicazioni dinamiche (ma “vom Herzen, das sie nie verrieth” è risolto con assoluta aderenza al dettato dell’autore, accentando il primo do e smorzando il successivo si bemolle, e altrettanto emozionante è la chiusa, con un bellissimo effetto di diminuendo sul si naturale).
La “sfida” targata primi del Novecento è fra due baritoni “grand seigneur”, il francese Maurice Renaud e l’italiano Mattia Battistini, entrambi fra gli ultimi esponenti della grande scuola ottocentesca. Due sono le cose che colpiscono l’attenzione di chi, oggi, ascolti questi autentici cimeli del canto e dell’interpretazione: la grande qualità strumentale, derivante da un’emissione perfetta, che rende la voce non solo perfettamente omogenea in tutta la sua estensione, ma davvero bella e luminosa al di là del fascino timbrico insito, e la sensazione di una cavata di straordinaria ampiezza, sensazione verosimilmente amplificata dal fatto che ben di rado la voce supera un semplice mezzoforte. Per contrasto viene da pensare a quei baritoni, di oggi, ma anche del passato prossimo, persuasi che il pubblico possa apprezzare e godere di una voce, solo quando essa gli venga “sbattuta” contro in tutta la sua potenza. Vera o presunta. Renaud incanta per la facilità di canto e la dolcezza della voce, ma Battistini risulta nel paragone molto più vario e rifinito, pur scontando un fondato sospetto di leziosità in più punti, segnatamente all’attacco del recitativo. Insomma più che un cantore wagneriano il Wolfram di Battistini è un sovrano o almeno un gentiluomo donizettiano. Il che poi, a ben guardare, non stona certo nel contesto di un’opera, che è ancora, per molti versi, di impianto tradizionale e che proprio al grand-opéra deve, nelle sue varie edizioni, più di qualcosa.
Fascino timbrico, sovrano controllo dell’emissione, grande eleganza nel porgere e squillo quasi insolente sugli acuti sono le caratteristiche di Arthur Endrèze, per il quale non ci preoccuperemo di nascondere una preferenza di carattere personale. Ampiamente giustificata dall’ascolto. Con questo Wolfram il cantante statunitense tocca uno dei vertici della sua discografia e davvero non si sa se ammirare di più la bellezza e la facilità del canto, o il pathos e l’emozione che ne derivano, e che sono il frutto del canto di scuola, il solo e unico che possa giustificare la melomania e i suoi eccessi, anche i più stravaganti. Paragonato a Endrèze è fatale che il canto di Carlo Tagliabue risulti un poco grigio e cinereo, ma anche il baritono italiano è impressionante, sia pure con una dote naturale di minore impatto, per la capacità di smorzare i suoni a qualunque altezza e per la grande qualità del legato, doti fondamentali per condurre in porto un brano che, proprio in virtù di una scrittura vocale non particolarmente complessa, ben si presta a essere risolto come una grande melodia “da salotto”, non così dissimile da uno dei tanti Lieder che costellarono la produzione dei massimi compositori dell’Ottocento tedesco.
E parlando di liederistica, non avremmo certo potuto omettere il principe, tuttora vivente, sebbene non più regnante, del salotto concertistico in salsa mitteleuropea, Dietrich Fischer-Dieskau, qui colto trentaseienne in un live sulla Collina diretto da Sawallisch. Basta l’attacco per verificare come la voce del signor Fischer-Dieskau sia collocata in una posizione, come si dice in gergo, molto più bassa rispetto a quella dei colleghi sin qui esaminati, e di conseguenza il cantante debba ricorrere a un’emissione nasale per venire a capo della tessitura. Il baritono si sforza lodevolmente di sfumare e addolcire, ma quando lo fa la voce va “indietro” (“mit schwarzlichem Gewande”), e grandi, per non dire insormontabili, difficoltà si riscontrano nel tentativo di legare il re centrale con il la (“der Seele”) e il si bemolle immediatamente successivi (“Höh’n verlangt”). Quando poi nel recitativo si passa all’evocazione dell’astro notturno e la tessitura sale in zona si bem/re acuto i piani diventano falsettini e tutto il canto si avvicina pericolosamente al parlato, con dovizia di suoni spoggiati, gli stessi che il Maestro proponeva, delizia dei pubblici culturalmente avvezzi a ogni latitudine, nelle sue non certo sporadiche Liederabend. Quanto alla romanza, ripropone i medesimi vezzi del recitativo, per poi presentare, nella sezione conclusiva, in cui il cantante è chiamato a esibire un poco di volume, suoni marcatamente fissi e spoggiati.
La naturale evoluzione di un simile canto, che sostituisce di fatto al canto una sorta di perpetuo bofonchiare ovvero accennare suoni vagamente intonati, si può rinvenire nel Wolfram di Thomas Hampson, non a caso egli pure applaudito e riverito liederista. La voce suona ancora più piccola e povera di armonici di quella di Fischer-Dieskau, la dinamica ancora più limitata e inchiodata su un perenne mezzoforte, che è poi, a tutti gli effetti, un mezzopiano, mentre il legato rimane una pia illusione, anche perché il cantante è costretto a numerose riprese di fiato per condurre in porto ogni singola frase. Ma vuoi mettere l’emozione che un simile “canto” sa comunicare alle menti e ai cuori sempre aperti e carichi d’amore degli spettatori di oggi!
Per rimediare, abbiamo pensato di dedicare comunque una pagina del nostro Corriere al dramma wagneriano, proponendo alcune esecuzioni della romanza di Wolfram al terzo atto.
Alcune esecuzioni, non certo tutte, e neppure tutte le più belle e interessanti. Diciamo alcune delle più significative, in ogni senso, specie per quanto attiene l’evoluzione del canto, wagneriano e non. Tutti i cantanti in questione non sono o non furono specialisti wagneriani in senso stretto. Del resto non siamo certo noi a ritenere che l’affrontare Wagner costituisca un’attenuante generica per ogni malvezzo vocale, né pensiamo che il repertorio dell’autore tedesco goda di una qualsivoglia forma di extraterritorialità rispetto alle regole del canto professionale. Per essere chiari, avremmo potuto proporre i medesimi cantanti – con una sola eccezione – nella morte del marchese di Posa ovvero in uno dei monologhi di Alfonso XI di Castiglia.
L’outsider, il cantante che affronta questa pagina da baritono senza esserlo, è ovviamente Alexander Kipnis, la cui voce sontuosa e naturalmente scura si addice perfettamente tanto al recitativo quanto al successivo cantabile. La pagina, che non passa un mi naturale (toccato su “wenn sie entschwebt”), è però di tessitura assai acuta, battendo sulla zona che prepara e segue il passaggio di registro superiore (sol-re), e questo costa un poco al cantante ucraino, che arriva con difficoltà al suddetto mi naturale e, pur esibendo un legato di grande qualità, non sempre rispetta le numerose indicazioni dinamiche (ma “vom Herzen, das sie nie verrieth” è risolto con assoluta aderenza al dettato dell’autore, accentando il primo do e smorzando il successivo si bemolle, e altrettanto emozionante è la chiusa, con un bellissimo effetto di diminuendo sul si naturale).
La “sfida” targata primi del Novecento è fra due baritoni “grand seigneur”, il francese Maurice Renaud e l’italiano Mattia Battistini, entrambi fra gli ultimi esponenti della grande scuola ottocentesca. Due sono le cose che colpiscono l’attenzione di chi, oggi, ascolti questi autentici cimeli del canto e dell’interpretazione: la grande qualità strumentale, derivante da un’emissione perfetta, che rende la voce non solo perfettamente omogenea in tutta la sua estensione, ma davvero bella e luminosa al di là del fascino timbrico insito, e la sensazione di una cavata di straordinaria ampiezza, sensazione verosimilmente amplificata dal fatto che ben di rado la voce supera un semplice mezzoforte. Per contrasto viene da pensare a quei baritoni, di oggi, ma anche del passato prossimo, persuasi che il pubblico possa apprezzare e godere di una voce, solo quando essa gli venga “sbattuta” contro in tutta la sua potenza. Vera o presunta. Renaud incanta per la facilità di canto e la dolcezza della voce, ma Battistini risulta nel paragone molto più vario e rifinito, pur scontando un fondato sospetto di leziosità in più punti, segnatamente all’attacco del recitativo. Insomma più che un cantore wagneriano il Wolfram di Battistini è un sovrano o almeno un gentiluomo donizettiano. Il che poi, a ben guardare, non stona certo nel contesto di un’opera, che è ancora, per molti versi, di impianto tradizionale e che proprio al grand-opéra deve, nelle sue varie edizioni, più di qualcosa.
Fascino timbrico, sovrano controllo dell’emissione, grande eleganza nel porgere e squillo quasi insolente sugli acuti sono le caratteristiche di Arthur Endrèze, per il quale non ci preoccuperemo di nascondere una preferenza di carattere personale. Ampiamente giustificata dall’ascolto. Con questo Wolfram il cantante statunitense tocca uno dei vertici della sua discografia e davvero non si sa se ammirare di più la bellezza e la facilità del canto, o il pathos e l’emozione che ne derivano, e che sono il frutto del canto di scuola, il solo e unico che possa giustificare la melomania e i suoi eccessi, anche i più stravaganti. Paragonato a Endrèze è fatale che il canto di Carlo Tagliabue risulti un poco grigio e cinereo, ma anche il baritono italiano è impressionante, sia pure con una dote naturale di minore impatto, per la capacità di smorzare i suoni a qualunque altezza e per la grande qualità del legato, doti fondamentali per condurre in porto un brano che, proprio in virtù di una scrittura vocale non particolarmente complessa, ben si presta a essere risolto come una grande melodia “da salotto”, non così dissimile da uno dei tanti Lieder che costellarono la produzione dei massimi compositori dell’Ottocento tedesco.
E parlando di liederistica, non avremmo certo potuto omettere il principe, tuttora vivente, sebbene non più regnante, del salotto concertistico in salsa mitteleuropea, Dietrich Fischer-Dieskau, qui colto trentaseienne in un live sulla Collina diretto da Sawallisch. Basta l’attacco per verificare come la voce del signor Fischer-Dieskau sia collocata in una posizione, come si dice in gergo, molto più bassa rispetto a quella dei colleghi sin qui esaminati, e di conseguenza il cantante debba ricorrere a un’emissione nasale per venire a capo della tessitura. Il baritono si sforza lodevolmente di sfumare e addolcire, ma quando lo fa la voce va “indietro” (“mit schwarzlichem Gewande”), e grandi, per non dire insormontabili, difficoltà si riscontrano nel tentativo di legare il re centrale con il la (“der Seele”) e il si bemolle immediatamente successivi (“Höh’n verlangt”). Quando poi nel recitativo si passa all’evocazione dell’astro notturno e la tessitura sale in zona si bem/re acuto i piani diventano falsettini e tutto il canto si avvicina pericolosamente al parlato, con dovizia di suoni spoggiati, gli stessi che il Maestro proponeva, delizia dei pubblici culturalmente avvezzi a ogni latitudine, nelle sue non certo sporadiche Liederabend. Quanto alla romanza, ripropone i medesimi vezzi del recitativo, per poi presentare, nella sezione conclusiva, in cui il cantante è chiamato a esibire un poco di volume, suoni marcatamente fissi e spoggiati.
La naturale evoluzione di un simile canto, che sostituisce di fatto al canto una sorta di perpetuo bofonchiare ovvero accennare suoni vagamente intonati, si può rinvenire nel Wolfram di Thomas Hampson, non a caso egli pure applaudito e riverito liederista. La voce suona ancora più piccola e povera di armonici di quella di Fischer-Dieskau, la dinamica ancora più limitata e inchiodata su un perenne mezzoforte, che è poi, a tutti gli effetti, un mezzopiano, mentre il legato rimane una pia illusione, anche perché il cantante è costretto a numerose riprese di fiato per condurre in porto ogni singola frase. Ma vuoi mettere l’emozione che un simile “canto” sa comunicare alle menti e ai cuori sempre aperti e carichi d’amore degli spettatori di oggi!
Gli ascolti
Wagner – Tannhäuser
Atto III
Wie Todesahnung…O du, mein holder Abendstern
Maurice Renaud – 1906
Mattia Battistini – 1911
Alexander Kipnis – 1929
Arthur Endrèze – 1932
Carlo Tagliabue – 1946
Dietrich Fischer-Dieskau – 1961
Thomas Hampson – 2004
Grande, straordinario Endreze, cantante che ammetto di aver scoperto tramite i vostri ascolti. Va sicuramente inserito tra i massimi esponenti della corda baritonale.
anch'io l'ho scoperto grazie a voi. Irrinunciabile.