Novità verdiane 2: il Requiem di Muti
Dopo aver recensito, nel mese di novembre, l’interpretazione dell’Otello verdiano da parte di Colin Davis e delle compagini della LSO – interpretazione che aveva suscitato più di un dubbio nella quasi totalità degli ascoltatori, almeno in riferimento al cast prescelto (proprio in questi giorni ho letto critiche analoghe sul francese Diapason che, nonostante le ingiustificabile quattro “forcelle” attribuite all’incisione – forse per tributo a certi pregiudiziali positive nei confronti di ogni prodotto dell’ultimo Davis – non si astiene dallo stigmatizzare come pessima, nei fatti, la prestazione di O’Neill, e ancora peggio quella della Schwanewilms), è il turno di occuparsi dell’altra novità verdiana di rilievo comparsa nell’ultimo scorcio del 2010: il Requiem diretto da Riccardo Muti. Un classico.
Un classico, dicevo, che normalmente non avrebbe suscitato molto interesse (ancora un Requiem di Muti?), eppure questa incisione merita molta attenzione. Registrata dal vivo a Chicago nel gennaio del 2009 – e uscita quasi due anni dopo, per sfruttare probabilmente il richiamo mediatico della nomina del Maestro a direttore principale dell’orchestra americana – segna il primo esito concreto di Riccardo Muti con la Chicago Symphony Orchestra. Inutile tracciare la storia di una delle più prestigiose orchestre del mondo o elencare i nomi di chi ha avuto il privilegio di dirigerla: è noto a tutti il prestigio e l’eccellenza del complesso, il suono vibrante, duttile, la perfezione musicale, il virtuosismo che emerge dalle tante testimonianze discografiche. Superfluo pure, sintetizzare il rapporto di Muti con il Requiem di Verdi: partitura frequentatissima dagli anni di Firenze al podio della Scala, passando per trasferte nazionali e internazionali (il Requiem non mancava mai negli appuntamenti all’estero dell’orchestra scaligera), e più volte incisa. Si può dire che l’interpretazione mutiana dell’opera di Verdi sia ben testimoniata e rappresentata, tanto da suggerirci che, forse, non vi sarebbero più segreti o aggiunte di rilievo. Con tutti i pregi e i difetti. Proprio su questi ultimi vorrei soffermarmi. Non nego come il Verdi di Muti – salvo alcune eccezioni – mi abbia sempre lasciato freddo o dubbioso: Requiem compreso. Un che di troppo caricato, di troppo retorico e melodrammatico si percepisce nella sua lettura. Tutti i più grandi direttori del maggior repertorio sinfonico (in particolare di area tedesca) si sono cimentati nel capolavoro verdiano, dando letture spesso opposte, personalissime: drammatiche o spirituali, meditative o poetiche, tragiche o pessimiste. Il grande Karajan vi tornò per tutta la carriera e ogni volta con risultati straordinariamente differenti. Allo stesso modo direttori non operistici o non verdiani: il Requiem è sempre stato visto (insieme a Otello e Falstaff) qualcosa di “diverso” dal resto della musica dell’800 italiano. E non a torto. Muti ha mostrato, invece, di avere altra idea della partitura: una specie di melodramma sacro. Da qui discendono le esasperazioni operistiche, i ritmi spesso incongrui, l’enfasi più volgare, la sottolineatura “cabalettistica” di certe pagine. Muti, in sostanza, ripropone (esasperandola) la lezione di Toscanini, facendo del Requiem un gigantesco melodramma! Ma oggi, dopo Karajan o Reiner, questa lettura non basta più: non basta lo squasso dei colpi di grancassa del Dies Irae, o la “fanfara” bandistica del Tuba Mirum, o la concitazione “teatrale” del Libera Me. Oltre ai tanti Requiem scaligeri, questa visione di Muti può essere ben esemplificata dalla brutta incisione del 1987, con le compagini scaligere e un quartetto solista più che deludente (Studer, Zajic, Pavarotti, Ramey): esteriore ed artefatto, pesante e retorico. Muti, lì, “toscanineggia” senza ritegno e il risultato – che può soddisfare giusto le bocche più buone o gli stomaci meno selettivi – è spesso sgradevole o, peggio, grottesco (certe bordate di suono o certi ritmi strampalati). Questo, si può dire, è stato l’andazzo costante dell’interpretazione mutiana al capolavoro verdiano. Che aspettarsi dunque da un altro Requiem di Muti? Direi un “altro” Requiem e un “altro” Muti. Questa versione, infatti, si ritaglia un posto di tutto rispetto nella corposa discografia dell’opera. E si segnala come uno degli esiti più alti della carriera del Maestro. Credo – senza alcuna facile ironia – che la perdita del podio scaligera abbia solo giovato a Muti, almeno a giudicare dalle sue più recenti esibizioni (a Vienna, a Salisburgo, a New York). Si avverte, chiaramente, una maturazione, una liberazione, una sensibilità riconquistata. Forse il fatto di non doversi misurare quotidianamente con il “personaggio” che la stampa nazionale, il suo entourage, e sé stesso, avevano costruito, ha permesso a Muti di scendere dal piedistallo autoeretto di “nuovo Toscanini” e impugnare nuovamente la bacchetta per “far musica” e non scimmiottare un mito.
Proprio l’allontanamento dal modello toscanininano è la chiave di volta di questa nuova incisione del Requiem. I tempi innanzitutto, più rilassati generalmente, ma mai sfilacciati; le dinamiche non più esasperate, senza enfasi e retorica; l’urgenza “arraffona” dell’opera “a cabaletta”, lascia il passo ad un dramma più stemperato e contemplativo, ma ugualmente teso e tragico; il bruciore risorgimentale di prima è tramutato in un disincanto fatto di calma, pessimismo, dolore e nostalgia. Si senta ad esempio l’apertura, lenta e meditata, con piccoli “rubati” che accentuano l’atmosfera misteriosa e sacra; o la trasparenza bachiana dei fugati e dei contrappunti (che non assomigliano più ai concertati del melodramma, ma a qualcosa di più alto); la composta energia del Dies Irae, non più occasione per testare la resistenza dei timpani degli ascoltatori (e della membrana della grancassa), ma vera porta che si spalanca sul giorno del giudizio; o la dolcezza malinconica del Lacrymosa; il tappeto sonoro appena sfiorato da uno degli Hostias più intensi che la discografia possa testimoniare. In ciò, ovviamente, è coadiuvato da un’orchestra più che eccezionale, dal virtuosismo straordinario e dalla precisione impressionante: basta ascoltare la delicatezza e la passione del lentissimo arpeggio in La minore che apre il Requiem, sottovoce, ma senza perdere timbro o incespicare (come spesso capita di sentire in pur blasonate esecuzioni). O la delicatezza degli archi caldi e intensi (dal suono dorato), sostenuti da un vibrato certamente romantico, ma mai lezioso; o gli ottoni dal suono pulito, controllato e precisissimo. Il connubio tra questa orchestra e il nuovo Muti, regala un risultato eccezionale. Allo stesso modo il Chicago Symphony Chorus: superlativo. L’attitudine ad eseguire il grande repertorio polifonico (Bach, Handel, Haydn) allontana il Requiem da ogni facile suggestione operistica, oltre a permetterci di ascoltare un’esecuzione di estrema trasparenza e precisione, in cui la gigantesca architettura corale viene colta in tutto il suo splendore (emblematici sono i numerosi interventi “a cappella” eseguiti con una proprietà di intonazione e fraseggio ineguagliabili dalla maggior parte delle compagini europei: quelle italiane non meritano neppure di entrare in classifica). Un Requiem eccezionale dunque? In parte sì. Purtroppo Muti indulge, ancora, in uno dei suoi peggior difetti: l’incapacità di scegliere un cast adeguato a realizzare pienamente le sue intenzioni. E questo caso non fa eccezione. Certo la capacità del concertatore e l’eccellenza dell’esecuzione correggono, in parte, i problemi, e nel complesso non si ascoltano orrori. Ma i cantanti prescelti non appaiono pienamente all’altezza del compito. Se la Frittoli mostra ancora un buon controllo della linea vocale e – quando ben guidata (come in questo caso) – una grande abilità di fraseggiatrice (permettendo di mascherare le difficoltà), altrettanto non si può dire della Borodina: non solo per decadimento o mancanze, bensì per il modo stesso di porgere la voce. Esattamente come la Zajic (altro pallino mutiano: del pari inspiegabile), mostra un’emissione di estrema volgarità, che nulla avrebbe a che fare con la nobiltà del canto verdiano (nel Lux aeterna, ad esempio, spinge sino allo spasimo, chiudendo con un suono fisso e sgradevole). Mai stata un modello di eleganza, oggi, in particolare, la voce appare assai usurata e mostra solo “quantità” senza controllo. Altra icona mutiana, Abdrazakov, si disimpegna abbastanza bene nelle difficoltà della parte (assai meglio del Ramey dell’87 ad esempio), ma resta sempre una sensazione come di estreneità (senza contare talune difficoltà in acuto). Intendiamoci, si ascolta e si è ascoltato (anche in passati gloriosi) ben di peggio: certo di fronte ad un’esecuzione orchestrale e corale tanto ispirata ci si sarebbe potuti legittimamente aspettare di più. Ma tant’è. Affronto, volutamente in ultimo, la questione del tenore, perché qui sta, secondo me, il vero “peccato mortale” di Muti. Perché scegliere un tenore come Mario Zeffiri? La parte richiede un canto facile all’acuto, certo, ma caldo e corposo, capace di reggere le arcate verdiane e di emergere sulla densità di una scrittura orchestrale che non può essere assimilata a certi elementari accompagnamenti del melodramma romantico italiano, giacché quello sarebbe il repertorio d’elezione di Zeffiri (La Sonnambula, La Fille du Régiment, Don Pasquale). Oltretutto la voce, abbastanza piccola, non appare né troppo bella, né troppo sicura (tende a chiudersi man mano che scala la tessitura), tanto che gli scomodi acuti di certe frasi risultano assai difficili. Cosicché si ascolta un Kyrie pericolosamente strozzato e microbico e un Lacrymosa assai incerto e affaticato. Non manca qualche buon momento, in particolare l’Hostias risolto in una bella mezzavoce, ma che non basta a renderlo interprete attendibile. A conti fatti, comunque (a parte un cast non ideale, soprattutto nella voce tenorile), un Requiem che si piazza ai vertici della sua storia discografica, che ci mostra una lettura matura, meditata ed una esecuzione musicale superlativa (per trovare analoghe soddisfazioni si deve risalire a Karajan o Reiner). Da ascoltare senza riserve. Chiuderei con un augurio al Maestro Muti: che si tenga ben lontano dai pantani scaligeri, se i risultati di questa nuova aria, sono come questo Requiem di Verdi!
Non ho ascoltato questo "Requiem" di Muti. Ma non posso acconsentire al fatto che Toscanini sarebbe all'origine di una concezione dell'opera come "gigantesco melodramma". Ho ascoltato recentemente una sua esecuzione del 1938 con la BBC Orchestra e un quartetto di gran qualità: Milanov, Thorborg, Rosvaenge, Moscona. Quello che più impressiona è la trasparenza dell'ordito strumentale, la qualità intensissima del legato, la varietà degli accenti dei solisti, molto prodighi di colori (straordinari alcuni pianissimi della Milanov e di Rosvaenge). L'esecuzione è stringata, è vero; tuttavia mai frettolosa e mai a detrimento del lirismo. Se questo significhi un'interpretazione in chiave operistica, non so; ma non mi sembra.
Saluti
Marco Ninci
Caro Ninci, è evidente che non hai compreso quanto ho scritto. Premesso che l'interpretazione toscaniniana non mi piace (perché troppo stringata, drammatica, melodrammatica), ciò che critico – nei passati Requiem di Muti – è l'esasperazione di tale modello. Esasperazione che porta agli eccessi che ben si riconoscono nelle incisioni mutiane (in particolare la seconda) e nelle esecuzioni scaligere.
Credo invece di avere compreso benissimo. Io non mi sono riferito minimamente a Muti, ma a Toscanini, che tu consideri il modello di un'interpretazione melodrammatica. E' con questa tua opinione che non sono d'accordo.
Ciao
Marco Ninci
Capito benissimo. Però, nel mio pezzo criticavo l'esasperazione di tale modello. Comunque, seppur nella registrazione che ci indichi la mano di Toscanini appaia più delicata, la sua interpretazione mi sembra sempre troppo concitata, troppo drammatica, ecco. Troppo "operistica". Meglio qui, comunque, che l'incisione NBC.
E poi vorrei dire una cosa a Mozart 2006, naturalmente in maniera molto amichevole. Ho letto in chat, a sua firma, che nel "Requiem" del '38 Toscanini è "meno fracassone del solito. Ecco, questo proprio no. Vare accuse si possono fare a Toscanini, soprattutto all'ultimo. Ma non questa. L'orchestra di Toscanini è sempre molto compatta, qualche volta dura (ma sempre con uno scopo espressivo), ma nessun cantante, mai, ha avuto con lui bisogno di gridare, perché l'orchestra tendeva a coprirlo. Si capisce perfino dai dischi, oltre che dalle testimonianze. In questo la sua orchestra è incomparabile: mai un suono slabbrato, l'intensità che non ha nessun bisogno di grida che si alternino ai sussurri.
Marco Ninci
Caro Marco,
magari ho usato la parola sbagliata (succede in chat quando non puoi meditare i termini come in un commento) ma "fracassone" andava inteso come retorico.
Io la concezione interpretativa di Toscanini in Verdi l´ho sempre trovata retorica e superata.
Risentivo recentemente la sua incisione de La Traviata e secondo me un simile modo di intepretare Verdi oggi è improponibile.
Ciao
Caro Mozart, ti ringrazio per la tua risposta, ma questa non mi soddisfa pienamente. Che cosa significa "retorica"? Il significato principale che mi viene in mente è quello di "enfatica". Ora, di tutto si può accusare Toscanini tranne che di enfasi. Anzi, direi piuttosto il contrario. Infatti gli si imputano piuttosto una certa avarizia espressiva, una certa aridità del sentimento. Questo credo tu intenda per "retorica". Secondo molti mancano in Toscanini il languore, le sfumature, l'occhio attento alle impercettibili variazioni in cui si attua lo sviluppo dei personaggi. Di qui un carattere massiccio dell'idea musicale, costruita per blocchi contrapposti e ignara della sottile arte della transizione. Ora, entro certi limiti questa valutazione ha dalla sua parte alcune ragioni; le quali tuttavia ignorano la vera origine e importanza dell'arte di Toscanini. Essa è consistita nel vedere la scaturigine della musica nella sorgività del canto, da rendere con la massima limpidezza possibile. Di qui la sua tendenza al classicismo, ad una esecuzione dalla quale gli orpelli siano il più possibile banditi, in favore di una rigorosa organizzazione gerarchica degli elementi musicali in vetta alla quale sia il canto, sia strumentale che vocale. Un canto lineare, che può non soddisfare chi ha ascoltato Karajan, Walter o Clemens Krauss, ma che ha la sua origine nella necessità storica in cui si è trovato Toscanini di dimostrare che l'opera italiana, l'esperienza da cui Toscanini nasce, era dotata di una patente di nobiltà non inferiore a nessun'altra tradizione.
Con un'ulteriore conseguenza. Il linguaggio che Toscanini adotta nelle sue esecuzioni è di una unitarietà assoluta, dal punto di vista strumentale come da quello vocale, come se i due ambiti fossero le facce di uno stesso modo di esprimersi. E questo per me è importantissimo: l'attitudine centripeta di un interprete. Sembra una limitazione, ma così non è. L'idea di fondo in cui il direttore attua la propria personalità si realizza in una serie infinita di variazioni a seconda delle opere eseguite; ma questa serie infinita non si disperde in frammenti, perché in ognuna di queste variazioni risplende unitaria l'idea originale. Tant'è che noi sentiamo benissimo che il Toscanini che dirige la Nona Sinfonia è lo stesso che dirige il Ballo in Maschera, con una capacità chiarificatrice suprema. E' attuale questo modo? La questione non ha molta importanza, perché tutto ciò che la storia esprime a questi livelli si ripresenta, seppure variato, fa sentire la sua influenza anche in ciò che sembra da lui più lontano. Ecco, io mi sento sempre più vicino a questo modo di vedere le cose, più che a quello di stabilire: "mi piace, non mi piace".
Ciao
Marco Ninci
Sull'onda dei ricordi toscaniniani, ho ascoltato in questi giorni il quarto atto del Rigoletto, registrato dal Maestro (credo nel 1944) con un vero "parterre de rois": Warren, Milanov, Peerce, Moscona, Merriman. Era molto tempo che non facevo questo ascolto; e ne sono rimasto impressionato come prima, più di prima. A parte la prova trascendentale della compagnia di canto, che teme ben pochi confronti, ciò che scuote e colpisce è proprio l'interpretazione nel suo complesso. Si possono mettere in luce altri lati del Rigoletto: la pietà umana, la sincerità dei sentimenti, l'amore che non arretra davanti a nulla, sia quello di una donna per un uomo che quello di un padre per sua figlia. Ma qui non c'è nulla di tutto ciò. Toscanini interpreta la partitura come l'espressione di un destino cieco, crudele e senza senso,ad opera del quale l'amore si converte immediatamente in morte, senza riscatto, senza la percezione di un significato superiore in cui risolversi. Tutto questo ' realizzato attraverso un'orchestra impassibile, in cui domina la violenza trattenuta; l'allegria e la spensieratezza, volgari prive di pietà, in cui è realizzata la canzone del Duca ne sono una prova meravigliosa. Noi possiamo ben pensare che la morte di Isotta sia la realizzazione suprema del suo amore; qui sappiamo bene invece che la morte non è se non la realizzazione di una disillusione senza riscatto, beffa e per il padre e per la figlia. Gilda può ben cantare "lassù in cielo", ma la violenza senza confronti (almeno a mia conoscenza) degli accordi finali ci dice che quel cielo non esiste e ci rimane soltanto l'attuazione di un destino inconsapevole di tutto, anche di se stesso e della propria malvagità.
Saluti
marco Ninci
molto interessante, mi permetterei però di mettere in discussione il canto verdiano di Peerce. Senza andare troppo lontano, basterebbe ricordare la prova di fine anni trenta di Kiepura per farsi più di qualche domanda….
Grazie, Silvio, per l'apprezzamento. Per quanto riguarda Peerce, certo non si tratta di un grande tenore nel senso pieno del termine. Però è un solidissimo professionista e, lungo tutta la gamma, non emette mai suoni sgradevoli. Poi, quel che più conta, è del tutto in sintonia con la visione che Toscanini ha del Duca come di colui che, con la sua allegra cialtroneria, è un po' il motore di tutta la vicenda. E anche la visione unitaria di un'interpretazione conta; quando per esempio il Duca di Carlo Bergonzi, un cantante verdiano tanto più grande di Peerce, nel momento in cui asseconda il soggiogante lirismo di Kubelik, si presenta invece come un sincero amoroso, fraintendendo così il carattere del personaggio.
Marco Ninci
Naturalmente intendevo dire il terzo atto del Rigoletto, non il quarto.
Marco Ninci
Saprà anche però che non è stato l'unico a fraintenderlo in quel senso. In molti hanno voluto affrontare il duca come fosse un mentitore e un don giovanni talmente perfetto da convincere innanzitutto se stesso della veracità del proprio sentimento, per circuire con efficacia le signore dame… è il caso di Bergonzi, ma certo non solo il suo (kozlosky? Kiepura?…)
Caro Silvio, mi sembra che il Duca non sia un mentitore, ma semplicemente un irresponsabile, un superficiale, in preda all'esaltazione del momento. Ed è proprio questo che lo rende così adatto ad agire come strumento del destino, ugualmente cieco ed irresponsabile. E' sempre sincero con se stesso, credo, ma questa sua sincerità non arriva mai a toccare un rapporto autentico con gli altri. E' proprio questo carattere che secondo me Peerce e Toscanini rendono così bene.
Saluti
Marco Ninci
Io non sono così certo che il carattere del Duca sia l'allegra cialtroneria. Insomma, mi sembra una lettura un po' guascona e superficiale. Non metto in dubbio che questo fosse l'intento di Toscanini, ma non mi sembra molto stimolante. In genere non ritengo stimolante nessuna interpretazione di Toscanini: lo trovo sempre troppo affrettato, arido, sbrigativo, semplicistico. Io trovo il Duca un personaggio spietato.
Caro Duprez, il Duca spietato lo diventa per ragioni oggettive, in quanto la sua cialtroneria mette in moto un meccanismo che non avrà pietà di nessuno. Non per una sua intenzione.
Marco Ninci
Ma la cialtroneria è, tutto sommato, un aspetto innocuo, magari stupido e risibile, ma non portatore di sventure. Il Duca, invece, abusa del potere in una spregevole corsa alla soddisfazione personale (usando l'umanità con cui si viene a confrontare come mezzo, proprio alla maniera di De Sade, che ribalta il motto kantiano). E non è affatto motore inconsapevole del meccanismo, ma spietato artefice dello stesso. E' il simbolo del potere assoluto che, come un sultano senza freni, comanda e non governa. E del resto questo era il messaggio del socialista Hugo, contro la società reazionaria della Francia restaurata.
Do ragione a Duprez. Il Duca non è un irresponsabile ma piuttosto un personaggio profondamente amorale che non indietreggia di fronte a nessuna convenzione sociale o regola di comportamento, esattamente come Don Giovanni. Le analogie evidenti tra il personaggio verdiano e quello mozartiano sono state analizzate da Pierluigi Petrobelli nel suo saggio "Verdi e il Don Giovanni, osservazioni sul processo compositivo verdiano" contenuto negli Atti del I Congresso di studi verdiani.
Vorrei ricordare a questo proposito quanto diceva uno stimato direttore d´orchestra come Tullio Serafin insegnando la parte al giovanissimo Pavarotti. Arrivati al terzo atto disse: "Ma secondo lei il Duca fa sul serio con Maddalena? No, lui ha già pagato tutto, potrebbe benissimo dire: 'Spogliati e facciamo l´amore' ma siccome era un po´artista come tutti noi voleva dirlo in un certo modo. Per questo voglio che lei canti 'Bella figlia dell´amore in tono esagerato, con ironia' "
Saluti
Dunque, forse il termine "cialtroneria", che io ho usato per il Duca, non è quello giusto. Descrive meglio la mia intenzione l'espressione, che ho ugualmente usato, "esaltazione del momento". E poi bisogna ricordare quello che ho scritto: "E' sempre sincero con se stesso, credo, ma questa sua sincerità non arriva mai a toccare un rapporto autentico con gli altri". Questo significa parlare non di atteggiamento guascone, bensì di mancanza di rapporto con gli altri, di assenza di consapevolezza delle conseguenze di questi rapporti. E' perciò che tale inconsapevolezza si fa strumento del destino. Io credo che qui non ci sia polemica sociale, come nella "Traviata", ma proprio constatazione dell'assurdità e della crudeltà del destino, il che allontana molto l'opera di Verdi dalla pièce di Hugo. E, per quanto riguarda Don Giovanni, quest'ultimo ha una grandiosità, una consapevolezza, un atteggiamento di sfida, persino nei confronti dell'aldilà, che secondo me lo rendono lontanissimo dal personaggio verdiano. Mi piace insistere invece in questo caso sul lato del "meccanismo", con il quale chi ne è schiacciato non ha la possibilità di lottare; un lato così bene messo in rilievo da Toscanini. Il quale dal canto suo era un vero interprete, non un congegno di precisione. Prendiamo la critica di Celletti alla sua registrazione di "Otello". Celletti è stato uno dei primi in Italia ad emettere giudizi piuttosto critici sulle registrazioni toscaniniane con la NBC. L'"Otello" non fa eccezione; vi si accusano aridità sentimentale e mancanza di lirismo. E tuttavia il critico dedica un larghissimo spazio (uno spazio che non dedica a nessun altro se non alla seconda incisione di Karajan) a descrivere, e in termini ammirati, la concezione generale che il Maestro ha dell'opera; il che equivale, per quella felice contraddizione che spesso appartiene ai critici veramente grandi, a riconoscergli una gigantesca statura di interprete.
saluti
Marco Ninci
Marco,
lasciamo stare il Duca e la drammaturgia verdiana perchè il discorso si farebbe troppo lungo.
Su Toscanini, nessuno ne nega la statura interpretativa. Io dico solo che le sue esecuzioni mi trasmettono un senso di vecchio e di già detto, ma sono miei gusti personali.
Quello che voglio invece sottolineare è che noi non possiamo ricostruire per intero la poetica verdiana di Toscanini sulla base di registrazioni di esecuzioni in forma di concerto, riguardanti titoli che non aveva più diretto in pubblico da almeno vent´anni. Se leggi le recensioni degli anni al Metropolitan, noterai che delle direzioni toscaniniane i critici del tempo mettevano in rilievo soprattutto l´abbandono e la ricchezza di sfumature. Per questo io penso che il vero Verdi di Toscanini fosse qualcosa di molto diverso da quel che risulta dai dischi citati.
Non penso che possiamo valutare fino in fondo l´evoluzione interpretativa di un direttore quando la discografia che abbiamo di lui è composta quasi interamente di registrazioni effettuate dopo i 70 anni di età.
Saluti
per riferire il paragone ad altro direttore come giudicare karajan dalle solo ultime registrazioni.
Belle…….la carmen e il cavaliere……!!!