Bella perché, al di là di una discutibile bacchetta, il trio di protagonisti, pur con le dovute e consistenti differenze, è stato all’altezza dei rispettivi ruoli. E non si tratta certo di osannati e strapagati divi. I difetti e le imperfezioni tecniche ci sono e su più di un fronte – inutile negarlo – ma la resa complessiva è stata più che decorosa, soprattutto tenuto conto del contesto ufficialmente “provinciale” e quindi di minor pretesa d’eccezionalità.
Il grande assolo tripartito rivela ancora, nel recitativo d’entrata, la mancanza d’appoggio, mentre nel cantabile successivo riesce ad abbandonarsi con giusto slancio lirico e buon legato, anche se un po’ al limite della rottura (più che sensato, quindi, il mancato taglio di tradizione della seconda strofa). E se nel tempo di raccordo fa girare bene “i vortici”, i vocalizzi seguenti sono un po’ “larghi” e rallentati, con conseguente effetto… etilico. I primi quarti della cabaletta scivolano, poi, via per la mancanza di corpo in zona grave, tanto da inficiare pesantemente la qualità del fraseggio. La salita alla corona del do5 dei «ritroVI» è tirata mentre la nota non è altro che un grido di rabbia, così come il do diesis in chiusura degli altri vocalizzi prima del richiamo onirico di Alfredo. Più nitidi, invece, quelli che precedono il “da capo”, non privo di un altro paio di strilli, ma risparmiato del mi bemolle, segno di lucida avvedutezza (mi chiedo tuttavia cosa possa venir fuori dalle varie Lucie e Marie donizettiane che il soprano vanta in repertorio…).
Va comunque detto che l’esperienza e la indubbie doti sceniche della Auyanet, non separate da una certa comunicativa, le permettono di venir fuori meglio nel secondo atto, dove la tensione emotiva, che raggiunge momenti di grande intensità nelle frasi liriche e appassionate del duetto con Germont padre, può diventare terreno fertile per interpreti che ben sanno come “giocarsela” sul piano espressivo. Non a caso il momento più riuscito è stato l’”Addio del passato” del terzo atto, cantato con un trasporto emotivo e una pertinenza d’accento quasi struggenti, sostenuti questa volta da un più attento controllo dell’emissione rispetto allo standard medio della prestazione. Non per nulla trattasi di brano dalla scrittura piuttosto centrale.
Discreta la prova del tenore francese Jean-François Borras. Ad onta di un bel timbro in natura si percepisce un incompleto utilizzo del passaggio superiore, zona nella quale Alfredo è spesso chiamato a cantare, comprovato dal suono sbiancato e da una dinamica piuttosto povera dove predomina il forte. Quindi i problemi sono stati gli attacchi dell’aria e dei duetti dove Alfredo è chiamato all’espressione tenera ed all’emissione morbida, meglio la cabaletta ben risolta, senza da capo e con do leggermente tremulo, per contro nella scena della festa ed in quella seguente cosiddetta della borsa qualche squarcio verista di troppo, estraneo al clima dell’opera.
Il momento migliore della rappresentazione, il confronto padre figlio, soprattutto grazie a Damiano Salerno (sentito anche in un discreto Rigoletto a Bologna) Interessante baritono dal timbro chiaro, mantiene un’intonazione impeccabile, non muggisce in alto (strano eh) e l’emissione rimane costantemente pulita, anche se rimane il dubbio che canti più per dote che per il possesso ed il controllo della voce (come paraltro sembra comprovare l’esigua proiezione). Strabiliante la cabaletta. Complimenti!
Disastro il direttore Pietro Mianiti. Per usare un solito termine gergale, possiamo dire di aver ascoltato una “bandaccia”, che finisce per alternare momenti di totale mollezza (passaggi eccessivamente slentati) ad altri di peso e clangore quasi wagneriani… Ma la vibrazione e il mordente di Verdi anche con complessi mediocri sono ben altro. L’orchestra suona male e – al pari del basonato complesso scaligero – spernacchia, in particolare i fiati.
Comprimariato sotto la soglia di guardia, mentre la regia di Andrea Cigni esibisce una sorta di iperrealismo essenziale (sedie di plastica trasparenti, etc). solite incongruenze di prossemica, inserimenti “fantastici” che nulla ci azzeccano, ovvero un po’ di deja vu come la figura nera della morte, che prende posto sulla sedia di Violetta (già visto, retorico).
Pensierino doveroso:
Il Circuito lombardo ha proposto tre spettacoli di cui uno con fama difficile per la scelta della protagonista e gli altri due con titoli di repertorio per i quali i confronti sono scontati ed anche dovuti, i mezzi del Circuito lombardo sono quelli che sono da sempre e gli spettacoli non solo reggono per il livello proposto, ma anche per il confronto con blasonate città di provincia deputate patrie dell’opera e meritevoli di piogge di milioni di euro. E’ chiaro che la misurata disponibilità economica aguzzi l’ingegno ed allontani, con profitto, prodotti pre confezionati, mal assemblati e peggio scongelati del circuito non già lombardo, ma di agenzie note e riviste specializzate (sic!).
Carlotta Marchisio