Quando Simon O’Neill inizia a cantare, improvvisamente appare chiarissimo uno dei punti più controversi dell’intero “Ring”: da dove proviene l’imbecillità patologica di Siegfried che tutti scambiano ossequiosamente per eroismo? O’Neill e Cassiers rispondono finalmente a questo centenario enigma. O’Neill in realtà non incarna affatto Siegmund, ma interpreta Mime con l’esatta caratura vocale di un tenore caratterista! Tutto sommato molto coerente con la trama stessa della Tetralogia: perché solo Alberich deve avere un figlio, Hagen, da una umana, Grimhild, seppur conquistata con la corruzione? Anche Mime, giustamente, deve avere la possibilità di procreare un piccolo eroico nibelungo potendo così rivendicare nei confronti di Siegfried l’assunto di essere la sua unica famiglia nell’opera seguente! Ed eccolo qui: Mime corteggia Sieglinde con una voce querula, chiara da caratterista, che risuona tra naso e gola, spinta sui Fa, i Sol, i La, affaticata al termine del I e II atto e nemmeno tanto intonata al centro. Per conquistare Sieglinde dovrà pur avere un fraseggio ricco di ammalianti vibrazioni, un accento virile che sappia sciogliersi in suadenti dolcezze! Nulla di tutto ciò; ascoltandolo si rimpiangono la paciosità di un Gary Lakes, la smunta educazione di un Robert Schunk; O’Neill possiede un fraseggio senza fantasia, senza variazioni, senza un colore, tutto è identico e grossolano, dunque assolutamente noioso nella sua monotonia interpretativa in scene chiavi come i due monologhi del I atto, tutto il duetto con Sieglinde che culmina con l’estrazione della spada, e peccato ancora più grave, un annuncio di morte assurdamente placido come una conversazione durante il tè delle 17:00. Non parliamo della musicalità del tenore: ascoltiamo una invocazione alla primavera o un saluto a Sieglinde in cui Barenboim deve letteralmente riacciuffare o aspettare il cantante pur di farlo andare a tempo con la musica prima di permettere alla Meier di reinserirsi correttamente nel tessuto orchestrale.
Padre di cotanto figlio, il Wotan di Vitalij Kowaljow, bass-baritono chiamato a sostituire il previsto René Pape, ennesimo artista che, ormai è consolidata e immancabile tradizione a cui siamo tragicamente abituati, abbandona “casualmente” il palcoscenico scaligero a pochi giorni della prima nicchiando dietro poco chiari e nebulosi pretesti e motivazioni; così va ogni anno alla Scala, dimostrando quanta serietà c’è dietro una ex-grande istituzione pseudo-culturale. Kowaljow, senza smentire il fattore genetico, quanto a fraseggio è ancora più anonimo, se non proprio abulico, del figlio, limitandosi quanto possibile alla compitazione, nemmeno tanto attenta o ricercata, delle note. L’accento, in pratica inesistente, mortifica non tanto la linea di canto, già di per se legnosa, ingolata, rauca alla fine di ogni atto, afflitta da vibrato che limita l’estensione in alto in cui la voce va indietro, ma proprio il personaggio stesso spogliato sia nell’autorità, sia nel tormento interiore, sia nella contraddittoria divinità. Si ascolti l’indifferenza con cui viene affrontato il duetto con Fricka, oppure l’alone di noia, micidiale in questo caso, dei lunghi monologhi del II e III atto; poche volte, come in questo caso, questi due momenti così ricchi di possibilità per esprimere l’atavico, intimo conflitto di Wotan, la logorrea del dio è risultata immersa in un grigiore espressivo così privo di interessi e di contenuti.
Nel 2008 Sir John Tomlinson ha interpretato alla Royal Opera House di Londra l’opera del compositore contemporaneo Harrison Birtwistle “The Minotaur”; e deve essersi talmente immedesimato nel ruolo da riprodurre, nei panni di Hunding, i medesimi suoni che, verosimilmente, la creatura mitologica doveva emettere quando era confinato nel labirinto di Cnosso. Si aggiunga una resa del personaggio identificato in un grottesco ometto piccolo borghese ovviamente perfido e rozzo, quanto vagamente violento. Confrontato con gli altri due, Tomlinson è un maestro di accento e fraseggio, o almeno, lo lascia dedurre.
La Fricka di Ekaterina Gubanova appare in scena vestita con un modello partorito dalla matita “kitsch” del duo Dolce & Gabbana, e con quell’abito luciderà con rara perizia il palcoscenico della Scala nel suo interminabile pellegrinare a destra e a manca. La voce sembra un ibrido tra quella di Sonia Ganassi e Monica Bacelli, molto sopranile nella sostanza, dunque anche accettabile nel caso della scrittura centro-acuta di Fricka, ma resa mezzosopranile attraverso suoni spesso intubati nonostante una buona proiezione. L’interprete si limita a mostrare della dea solo il lato irascibile trascurando tutto il resto. Al suo uscire di scena non restano molti ricordi.
Arriviamo alla cantante più attesa della serata nel ruolo di protagonista: Nina Stemme. La signora Stemme si cimenta con Brünnhilde e come dichiarato in una recente intervista, vede nella figlia di Wotan una pestifera ragazzina che si evolve fino a diventare prima umana e poi donna venendo a scontrarsi con i sentimenti di Siegmund e con i voleri di Wotan. Tutto giusto, tutto pienamente condivisibile, soprattutto se si è in possesso di una voce lirica e tendenzialmente luminosa più affine a Sieglinde, strada tra l’altro già battuta con successo e con esiti molto positivi, o alterni secondo i casi, anche in passato: si pensi ad una Marjorie Lawrence o in tempi più recenti ad Anja Silja, Helga Dernesch, Roberta Knie, Brenda Roberts, fino alla gemma costituita da Hildegard Behrens o alla recente e discontinua Evelyn Herlitzius. La Stemme possiede uno strumento dal bell’impasto timbrico, da lirico, sonoro al centro ed in basso, ma problematico ogni volta che le note si avventurano oltre al Sol in cui i suoni diventano fissi, striduli se non proprio urlati; esempi preclari i Do dell’Hojotoho, strilleti che sembrano generati da un Wotan che ha pestato i piedi della figlia con la lancia per errore, oppure tutta la parte finale del III atto in cui l’intonazione è sempre a rischio. Più a suo agio dunque nel registro centro-grave, più morbido, naturale, rilassato nell’emissione, come dimostra l’annuncio di morte o il duetto con Wotan del III atto. Il trillo, croce e delizia di ogni wagneriano, previsto da Wagner stesso (se lo ha messo ed anche altre volte nell’ambito delle tre opere dove compare la figlia di Wotan, vorrà pure dire qualcosa oltre a dimostrare che le interpreti che per prime affrontarono Brünnhilde lo possedessero) ovviamente sfrutta il vibrato naturale della voce più che la tecnica, e la Stemme non è né la prima né sarà l’ultima a risolverlo in questo modo. Il problema è l’interprete: la Behrens aveva una voce da Sieglinde, eppure riusciva a non darlo a vedere grazie ad un accento sfumato, duttile, drammaticissimo che trasmettevano in maniera naturale la trasformazione del personaggio, dalla divinità all’umanità, in ogni sua fase; la Stemme in qualunque momento E’ Sieglinde! Una Sieglinde mozartiana per giunta: nell’annuncio di morte la si attende interpolare in qualunque momento “Du bist der Lenz” oppure la cavatina “Porgi amor” tanto è candida e sbarazzina in un momento in cui dovrebbe dimostrare di essere una dea che incute sottopelle il timore della morte ad un eroe. Nel III atto poi è talmente languida e malinconica che la si immagina intonare, come al III atto delle “Nozze di Figaro”, “Dove sono i bei momenti”. Non c’è la dea, non c’è la sacralità, non c’è la vergine battagliera; al suo posto solo la pestifera ragazzina che si ritrova donna, una educata Sieglinde-Contessa, gentile, squisita ed un po’ spaurita. Si spera in un approfondimento del ruolo.
Waltraud Meier invece si dimostra grande, grandissima artista. Gli anni di carriera non passano invano, ovvio: il registro acuto è sempre più staccato dal centro e risuona metallico o leggermente più stridulo e si sente la fatica nel dominarlo, i gravi sono sempre gutturali, ma sonori, mentre il centro mantiene il consueto e peculiare colore seducente da mezzosoprano. Si risparmia la Meier, soprattutto durante il delirio del II atto che insiste nel passaggio verso l’acuto, e accenna “Kehrte der Vater nur heim!” per arrivare salva al meraviglioso addio dell’atto seguente (e al 7 Dicembre); eppure è l’unica che, ripeto, dimostra la sua statura artistica grazie anche allo studio approfondito di un personaggio che frequenta da quasi un ventennio e al grande talento della cantante-attrice. La sua Sieglinde, nonostante l’età vocale e anagrafica le consiglierebbero il più consono ruolo di Fricka, è una creatura, che rispetto alla sua impulsiva incarnazione del ’94 sempre in Scala con Muti, risulta più cupa e riflessiva, più consapevole e rassegnata di vivere un brevissimo istante di vita autentica; ma questo non le impedisce di sfruttare a fondo i dinamici colori della voce per assottigliare il timbro descrivendo il lato più intimo ed erotico o inasprirlo pur di trasmettere sia quello isterico e visionario della donna. Malgrado i difetti, l’accento profuso in “Du bist der Lenz”, in cui la voce galleggiando con forza al centro possiede un coinvolgente mordente lirico, o in tutto il “O hehrstes Wunder!” molto cauto nella gestione del fiato e nella solidità dell’intonazione, ma anche illuminato da uno squarcio di vera poesia.
Le otto Valchirie interpretate da Danielle Halbwachs, Carola Höhn, Ivonne Fuchs, Anaik Morel, Susan Foster, Leann Sandel-Pantaleo, Nicole Piccolomini, Simone Schröder possiedono voci potenti e strillacchiano con moderata generosità come ogni gruppo di valchirie dabbene che si rispetti.
Discontinua la direzione di Daniel Barenboim: nonostante un’orchestra dal suono morbido, rotondo, raffinatissimo nella cura di ogni tema e dettaglio, anche se i corni e gli ottoni penano parecchio con l’intonazione, il Maestro sceglie di caratterizzare ogni atto in maniera differente, lasciando perdere la coerenza interpretativa e prediligendo, al suo posto, tempi ovunque diversi accompagnati da sonorità dal respiro un po’ troppo largo per non dire pesante. Il primo atto si apre con un tempo molto sostenuto, ma scandito da lame di suono di grande suggestione così da descrivere una tempesta perfettamente calibrata nel corrusco suono degli archi. Da questo momento la rapidità si attenua, Siegmund penetra in casa, l’atmosfera si fa più soffusa. Tutto l’atto prenderà le forme di un piccolo dramma borghese, un po’ troppo stilizzato e colui che maggiormente ne risentirà nel proprio accompagnamento, sbrigativo ed estenuato, sarà proprio il figlio di Wotan, contrapposto a quello ben più ricco e chiaroscurato di Sieglinde. Con l’ingresso degli dei si cambia registro: toni ovunque pensosi si alternano a tempi larghi e pesanti; tutto insomma sembra quasi omologarsi al funereo, interminabile, in questo caso, monologo di Wotan, compreso il debole duetto Brünnhilde-Siegmund, risolto come un intellettuale scambio di convenevoli d’alta classe. Per poter ottenere un suono più stringato e dal giusto ritmo, dobbiamo accontentarci dell’ingresso della Valchiria e del delirio di Sieglinde, gli unici momenti affini al poderoso inizio del I atto. Bellissima la cavalcata delle Valchirie, la quale sembra aver preso a modello, molto da vicino, quella incisa da Karajan a Salisburgo, la cui chiave di volta era composta dagli archi posti in primo piano da cui si librava un violento ed espressivo suono carico di asprerità e stringatezza, ma mai stonato, e sostenuto dalla elettrizzante brillantezza dell’orchestra fino all’abbandono di Sieglinde, che può giovarsi ancora una volta del suono stavolta più malioso ed elegante degli archi, in netto, ma efficace, contrasto con l’incipit. Tutto però si decolora durante il dialogo Wotan- Brünnhilde: torna la tinta funerea del II atto, questa volta ancora più dilatata, greve. Struggente l’orchestra per quanto attiene l’impasto timbrico, ma inefficace la direzione purtroppo; la quale si riprende solo all’addio di Wotan ed al successivo incantesimo del fuoco, due episodi veramente ricamati nel tessuto musicale con grande mestiere: basti ascoltare lo sprigionarsi improvviso del tema di Loge, quasi una danza martellante e pizzicata in una leggerezza via via sempre più drammatica.
La regia non c’è, e se c’è non si vede, o meglio: Guy Cassiers (regia e scene), coadiuvato dai suoi collaboratori Enrico Bagnoli (scene e luci), Tim van Steenbergen (costumi), Arjen Klerkx e Kurt D’Haeseleer (video design), Csilla Lakatos (coreografia), gioca benissimo con gli effetti poetici ed espressivi del disegno luci, curatissimo e molto elegante, ma il suo lavoro si ferma qui. Come regista fa passeggiare molto i cantanti, li fa stare impalati, li fa abbracciare e inginocchiare, null’altro; perché tali individui debbano farsi del male, o dialogare su temi cosmici, o d’amore, oppure suggerire lo scopo di ognuno di essi Cassiers non vuole dircelo, non vuole definirlo, non vuole approfondirlo. L’ennesimo concerto con costumi, questi ultimi preziosi, ma ingombranti e poco maneggevoli (le valchirie abbigliate quasi come grigiastre ballerine di can-can; Brünnhilde impacciata nei movimenti a causa della solita giacchetta e di una sorta di rimbalzante guardinfante che una volta srotolato si rivelerà lunghissimo e propenso all’inciampo; Fricka lugubre sposa in nero; Wotan a metà tra il “Fantasma del Palcoscenico” di De Palma e Luigi XV). Al I atto la scenografia ricorda nell’impianto sia l’allestimento di Wieland Wagner (Bayreuth ’65), sia quello di Nikolaus Lehnoff (Monaco ’87), con le sue pareti intagliate nel legno poste a semicirconferenza, l’alberello sottile e rachitico (nel programma si parla del frassino come di un “cordone ombelicale”; le battute in merito alla funzione uterina delle pareti lignee può dare il via ad una serie di doppi sensi molto pertinenti), che poi si apriranno su una foresta di lance, simbolo dei patti di Wotan, le stesse che faranno da sfondo alla seconda parte del II atto durante l’annuncio di morte e che proteggeranno Brünnhilde e lo stesso Walhalla nell’incantesimo del fuoco. Nel II atto sullo sfondo una scultura composita di cavalli rampanti ed un rialzo con pertica e gabbia sferica rotante (il mondo? Il destino? La vita?) saranno gli elementi scenici per il confronto Wotan-Fricka ed al monologo del dio. Il III atto si apre su una serie di parallelepipedi posti a diverse altezze a mimare la frastagliata rocca delle Valchirie, circondati da una serie di fibre ottiche rosse calate dall’alto come rivoli di sangue, a cui si aggiungeranno, poste a formare un cerchio, delle lampade da studio di geometra, grondanti acqua, che circonderanno il corpo della valchiria addormentata. Le proiezioni, una parte delle quali omesse a causa di un inconveniente tecnico avvenuto a metà del I atto, sembrano tratte dagli effetti di programmi musicali per PC come Windows Media Player, Real Player e VLC, oltre che dagli ormai pluricitati numeri discendenti di “Matrix”.I danzatori Guro Schia, Vebjørn Sundby non pervenuti, ma evidentemente presenti e nascosti dietro le proiezioni.
Waltraud Meier, in una recente e acuta intervista sull’allestimento, aveva ragione…
Al termine entusiasmo trionfale da parte dei giovani “under 30”, alcuni dei quali hanno compreso solo al III atto che Sieglinde era ancora viva e che Wotan fosse una divinità, nonostante qualche perplessità, le molte caramelle ed i continui sbuffi.
L’importante è che abbiano applaudito, abbiano trovato tutto bello e abbiano provato “forti emozioni”.
Marianne Brandt
Fra poco meno di tre ore si alzerà il sipario sulla Valchiria della Scala.
Sabato 4 è andata in scena la prova generale, aperta come è ormai costume del teatro ambrosiano, a un pubblico di under 30. Anche se, a giudicare dall’eterogenea folla che popolava la sala del Piermarini, pareva piuttosto di assistere a una di quelle recite “per nonni e nipoti”, a prezzi convenientemente popolari, che il teatro soleva proporre parecchi anni fa.
Il trionfo era ovvio e scontato, come ovvia e scontata è stata la contingente apparizione del Maestro scaligero, ormai assurto al rango di ipostasi della musica colta, sul terzo canale della televisione di Stato.
Meno ovvio e meno scontato il bilancio dello spettacolo, che difficilmente si ripeterà tal quale questa sera, se non altro perché differenti e, si spera, più seconde saranno le condizioni in cui verrà proposto al pubblico. Un guasto agli impianti di videoproiezione, verificatosi nel primo atto dell’opera, ha dapprima ostacolato, quindi impedito del tutto la compiuta realizzazione del progetto scenico di Guy Cassiers e dei suoi collaboratori.
A noi, poveri melomani passatisti, anche oltre ogni ragione anagrafica, tutto questo disturba solo fino a un certo punto. Tanto per esser chiari: disturba quando un teatro, che si pretende insuperabile anche sotto il profilo tecnologico, investe una cospicua parte delle proprie risorse per mettere in scena spettacoli nuovissimi e d’avanguardia, di fatto fragili e labili ben più delle sbeffeggiate tavole pittate. Specie se poi il medesimo teatro, a mezzo stampa, lamenta la riduzione dei finanziamenti statali, laddove una messinscena “virtuale” in meno e un’esecuzione in forma di concerto in più costituirebbero, se non una rapida soluzione di ogni problema in tal senso, un porsi sulla via della redenzione. Quanto poi allo spettacolo in questione, sarebbe stato sufficiente, per illustrare il mondo degli Dei così come evocato da Cassiers e soci, riciclare scene e costumi della vecchia Zauberflöte di Roberto de Simone (vedere i costumi di Fricka e delle Valchirie di lei figliastre, nonché le sculture equestri che fungono da scorta alla Dea dei vincoli coniugali).
Trattandosi di una prova, seppure pubblica (a differenza dell’antigenerale, svoltasi nel più assoluto riserbo), non possiamo e non vogliamo offrire giudizi su cantanti e direzione d’orchestra. Semmai, qualche spunto di riflessione.
Riflettiamo in primis come il cantante, che maggiormente aderisce al testo musicale e drammatico, sia anche quello maggiormente usurato sotto il profilo vocale. Non esistono parole adeguate a esprimere lo stato di decozione di questo cantante, che continuano peraltro a propinarci in prime parti nei massimi teatri del mondo. Non è il solo, né il fenomeno si limita a questa corda o a questo repertorio.
Riflettiamo in secundis come altro elemento del cast, che per lunga frequentazione della parte dovrebbe conoscerne tutti i segreti e ben altri ancora, dia prova di una presenza scenica genericamente elegante, quando non semplicemente dignitosa, e di una voce, che suggerirebbe l’immediato abbandono non già della parte, peraltro mai risultata agevole, ma delle scene.
Riflettiamo poi, e invitiamo chi di dovere a ogni opportuna riflessione e meditazione in tal senso, come un cantante, giunto all’ultimo o quasi a sostituire un collega prevedibilmente scomparso dal cartellone, offra una prova di livello paragonabile a quella di artisti, coinvolti nella produzione ab origine. Sempre per essere chiari, il suddetto livello è ben al di sotto di quello, proverbiale, di guardia, e suggerirebbe, a seconda dei casi, altro ruolo, diverso contesto esecutivo o differente mestiere.
Riflettiamo infine come il dramma di Wagner, pur incentrato, al pari delle moderne soap operas, sul tema della famiglia allargata (e come quelle mette in guardia, massime in produzioni come questa, dai rischi collegati alla riproduzione endogamica), mai ci fosse apparso così palesemente assimilabile al dramma borghese e, nello specifico, piccolo borghese. E precisiamo, a Giacosa nel primo atto, a Guitry nel secondo e a Ibsen nel terzo. Non alludiamo certo alla trasposizione scenica. Non solo, almeno.
Per inciso, certe soluzioni musicali adottate, massime nel secondo atto, poco si spiegano e mal si conciliano con il quadro d’assieme di una lettura piccolo borghese, oltre a mettere a dura, durissima prova le risorse a disposizione. E questo è l’ultimo spunto di riflessione che proponiamo. Per ora.
Antonio Tamburini
Buondì. Ero anch'io all'anteprima, e devo dire di essere in parte d'accordo con quanto leggo qui sopra. Niente da eccepire a proposito di Tomlinson e, tutto sommato, della Gubanova. I limiti della Stemme sono noti, e, hojotoho fatto salvo, mi pare che se la sia cavata piuttosto bene; un'interpretazione che deve essere approfondita, certo, ma che non mi sento di disprezzare; difficoltà in zona acuta, a parer mio, si percepiscono nettamente sopra il la.
Sull'orchestra sono d'accordo solo in parte: i problemi degli ottoni non si sono limitati, purtroppo, alla sola intonazione, se l'orecchio non mi ha tradito. Ma, per carità, potrei essermi sbagliato. Nemmeno i legni mi pare abbiano brillato, e, in generale, il colore orchestrale (e la tenuta complessiva) mi è parso in qualche modo discontinuo, incoerente. Fatico a cogliere la raffinatezza cui Frau Brandt fa riferimento, benché gli sforzi musicali di Barenboim si siano potuti percepire nitidamente in più momenti (addirittura, mi è parso di cogliere più di un pp…).
Per contro, non ho sentito molta gola nel Wotan di turno, e meno che mai in zona acuta; ho sentito, invece, un'intonazione non sempre precisa e una certa genericità nella resa… ma mi auguro che il nostro (basso-)baritono si costruisca nel tempo; secondo me ci sono buone qualità, alla base.
Chi invece non mi ha proprio convinto è stata Frau Meier, la cui resa di Sieglinde sarà anche splendida sul piano drammaturgico e, genericamente, recitativo, ma non lo è su quello vocale: anzitutto perché la voce, spesso, non mi è pervenuta… magari per miei difetti di udito, e perché il vibrato della zona acuta mi è parso un po' troppo lacerante…
Insomma, una Walkuere con innegabili pregi e difetti, ma che a mio parere non si pone come modello negativo, in nessun senso, pur considerando i limiti che entrambi abbiamo evidenziato.
"difficoltà in zona acuta, a parer mio, si percepiscono nettamente sopra il la."
sotto il la si può forse parlare di acuti?
AT
Di norma, tutto ciò che sta sopra il secondo passaggio si considera acuto. Così, almeno, insegnano nei conservatori, che immagino Lei abbia frequentato.
Gli acuti di una cantante che canta Fidelio, Tosca e Aida, oltre naturalmente al Ring e prossimamente alla Kaiserin e a Minnie, si giudicano forse dalle note sotto il la? Ma forse questo nei conservatori nessuno lo insegna. E si sente.
Non mi pare fosse in discussione il repertorio della signora, né il suo futuro artistico.
Forse nei conservatori non si insegnerà a giudicare gli acuti della signora Stemme, ma pare che si insegni a leggere, sia pur malamente, e almeno per sport. Uno sport che sarebbe utile praticare, almeno per rispondere in modo pertinente alle altrui considerazioni.
Ossequi.
Nei conservatori non si fanno parecchie altre cose, mi permetto di aggiungere. Ad esempio non ci si domanda come sia possibile che una cantante, che dovrebbe per mestiere, prima ancora che per Arte, eseguire correttamente il secondo passaggio, si areni su un la acuto. Ma pazienza, forse la musica basta… leggerla, appunto.
Ricambio gli ossequi.
Lei mi insegna che esistono voci "corte" e voci "estese"… la natura dà o nega: che ci possiamo fare? Sul fatto che la signora non appartenga alla seconda categoria, niente da dire, concordo; nella Walkuere, tuttavia, il limite è ancora tollerabile; non lo sarà in Siegfried e non lo sarà nella Goetterdaemmerung, ma non è delle due ultime opere che qui si discute – mi corregga se sbaglio.
Non sarei pregiudizialmente ostile alla lettura della musica, come di ogni linguaggio: sa com'è, giusto per comprenderne il contenuto.
Saluti.
Auguro alla signora ogni bene e ogni fortuna. Le serviranno, specie nella Profezia di morte (molto carente l'altra sera, complice anche il maestro Barenboim, che pensava verosimilmente di disporre della Flagstad). Quanto alle voci corte, la Tebaldi arrivava tranquillamente al la, e la Cerquetti pure. Più in alto c'erano spesso problemi, è vero. In compenso in basso e al centro la "pasta" delle signore era ben altra cosa rispetto a quella della Stemme, per non parlare del resto (proiezione, legato e così via).
Mai negato l'importanza della lettura della musica: io stesso me ne servo quotidianamente, né potrei farne a meno, anche volessi.