Un’antica pratica della Chiesa Cattolica cinque-secentesca, poi caduta in disuso e ai giorni nostri cancellata, affermava che l’elezione di un Papa poteva avvenire per acclamazione unanime dei cardinali elettori. Nonostante ci siano numerose ed evidenti differenze tra il Teatro Pavarotti di Modena e la vaticana Cappella Sistina, soprattutto in coloro che la frequentano, oceanica, calorosa e unanime è stata l’acclamazione che il pubblico modenese, durante la prima di “Maria Stuarda”, ha tributato alla grandissima Mariella Devia, non solo incoronata sovrana della serata.
Tale tributo, doverosissimo ça va sans dire, sottolinea ancora una volta, e ce n’è bisogno, che di artiste vere, di razza, professionali, preparate il pubblico ha fame! Una fame di arte ed entusiasmo spontaneo verso colei che con questo ciclo di recite ha letteralmente polverizzato tutte le possibili pseudo-simil-belcantiste odierne, anche recentemente ascoltate, che commenti forumistici, dolciastri proclami su social network e recensioni, o presunte tali, infarcite di accenti paragonabili solo alle svenevolezze da “Baci perugina”, hanno inopinatamente innalzano a esempio di “belcanto” moderno. Una bufala autentica, non solo colossale, ma parecchio comica oltre che greve, che puzza troppo di stantio per essere credibile. Mi spiace, ma oggettivamente è così! Una sovrana assoluta, e sola purtroppo, la Devia, che dopo il buco nell’acqua della sua recente “Traviata” bolognese, si riappropria, nel proprio elemento, dei consueti panni donizettiani dell’infelice e colpevole Stuarda, ruolo studiato, approfondito, assimilato che nonostante qualche ovvia perplessità su stile e tessitura, oggi il soprano può vantare di calzare come un guanto. E difatti il miracolo si compie: il pubblico, al suo apparire a scena aperta nel giardino di Forteringa, le tributa un applauso talmente entusiasmante, che l’introduzione orchestrale e l’attacco della Kennedy vengono ritardati saggiamente per alcuni minuti. Poi la Devia inizia con “O nube che lieve” e subito iniziano i prodigi: l’appoggio ovunque sovrano della voce, il controllo magistrale dell’emissione tutta giocata su un dolcissimo piano cesellato da acuti in pianissimo sulla parola “sospiri”, un legato a prova di bomba sostenuto da un fiato perfetto che le permette di legare intere frasi, respirando all’unisono con la musica ed un registro di testa saldo e brillante come il cristallo, lasciano il pubblico in apnea. L’accento poi è ovunque vibrante, ed è eccezionale come la Devia riesca con un fraseggio dolcissimo, intimista a scolpire l’ ambigua femminilità della regina prigioniera, riuscendo naturale ed immediato l’incanto di rendere suo complice il pubblico, il quale deve necessariamente ritenerla pura e innocente, pur nella evidente colpevolezza. “Nella pace del mesto riposo” ha un piglio decisamente battagliero, quasi una Odabella verdiana, tutto tenuto su un coerente mezzo-forte di spavalda intonazione, per non parlare del tono con cui accenta frasi come “resti, resti sul trono adorata”, il cui l’interprete è attraversata da un elegantissimo sprezzo beffardo, ma mai volgare né greve, e velata da un peccaminoso orgoglio. Le scale cromatiche, i trilli, non troppo infallibili però, ed i vocalizzi ascendenti e discendenti, su cui aleggia qualche trascurabile durezza, esplodono in acuti timbratissimi, come nelle raffinate variazioni della rispresa, in cui sorprende lo sfoggio ampio e inedito di un registro grave morbido e dal colore freschissimo. Le frasi nel successivo duetto con Leicester si colorano di abbandoni degni di una amorosa malinconica, eppure carica di desiderio, che culminano in un “Da tutti abbandonata” ricamato in un cremoso patetismo, perfetto contraltare dello scontro con Elisabetta, nel quale il crescendo nervoso dell’accompagnamento orchestrale, conduce ad una invettiva liberatoria e scabra al contempo, introdotta da un maestoso “No” e conclusa evitando saggiamente la variante acuta, gestendo cioè con sensibilità le vibrazioni dei registri centro-grave e donando maggiori sottolineature all’insulto senza quelle aperture di suono che anche interpreti più blasonate aggiungevano rovinando l’effetto. Splendido, infine, tutto III atto in cui l’orgoglio sprigionato dalle iniziali parole della Stuarda, si trasforma lentamente in quella trasfigurazione emotiva che è la “scena della confessione”, il cui vertice, oltre a tutto il lunghissimo climax finale, è raggiunto da “Delle mie colpe lo squallido fantasma”, delirio di un’anima lacerata dal peccato che dischiudendo la sua anima con la forza della voce, trascolora, nel suo galleggiare sicuro e vibrante, sui vocalizzi e impalpabili involi all’acuto verso l’autentica catarsi. Bellissimo. In questo contesto la Devia è purtroppo isolata. Un peccato gravissimo, a mio parere, che non si sia trovata una Elisabetta, non dico di pari livello, ma almeno passabile, cosa che purtroppo Nidia Palacios sicuramente non è. Dalle ripugnanti recite di “Lucrezia Borgia” a Bergamo, in cui interpretava un Maffio Orsini calamitoso e inudibile, sono passati pochi anni ed Elisabetta è un ruolo praticamente centrale che potrebbe offrire alla cantante diversi nascondigli; in più la dimensione del teatro di Modena, più ridotto rispetto al Teatro Donizetti di Bergamo, può aiutare in parte la proiezione di una voce tutto sommato troppo piccina per parti di tal fatta.
La Palacios poi non è né mezzosoprano, né contralto, ma tutt’al più un sopranino, corto corto in alto, inesistente in basso, stridulo ovunque, con una esile vocina poggiata più sulla natura che sulla tecnica, atraversata da un vibrato che rende ancora più acido il timbro, già chiaro, e a rischio rottura su ogni nota a partire dal Mi. Si aggiunga una resa del personaggio a malapena generico nonostante si sforzi di sfoggiare una parvenza di grinta. Un po’ meglio le cose vanno con il tenore turco Bülent Bezdüz, in carriera dal 1997 nel cui curriculum appaiono anche collaborazioni importanti con maestri del calibro di Sir Colin Davis (“Les Troyens”, “Falstaff”), sostituito all’ultimo minuto dell’insufficiente Adriano Graziani “provvidenzialmente” indisposto e vittima di critiche non proprio entusiastiche. Alla figura giovane il tenore associa una voce piccola, gradevole, beneducata, esilissima, ma che riesce a correre bene in teatro e si copre di gloria nel duetto con la Devia e nei passi più elegiaci, nei quali dimostra un buon controllo del fiato ed un accento interessante e quantomeno partecipe. Ugo Guagliardo (Talbot) e Gezim Myshketa (Cecil) sono praticamente due baritoni sovrapponibili; più rozzo il primo, più delicato il secondo, entrambi fanno sentire la loro voce solo al III atto, mentre negli atti precedenti non ci è dato sapere nulla della loro vocalità inghiottita com’è dall’orchestra. Brava invece si dimostra Caterina di Tonno che emerge nel ruolo di Anna Kennedy ed è l’unica che può duettare degnamente con la Devia sfoggiando voce chiara, morbida e sonora ed un musicalità di grande sensibilità. Buono il coro preparato dal Maestro Corrado Casati nonostante lo stridore di certi soprani soprattutto nella preghiera del III atto. Irriconoscibile, in meglio, la direzione di Antonino Fogliani. Sceglie l’edizione critica a cura di Anders Wiklund per quanto riguarda la partitura accogliendo alcune delle varianti “Malibran”, ma tagliando, giustamente, l’Ouverture che Donizetti scrisse per il Teatro alla Scala, che invece quando si esibì su quello stesso podio volle introdurre. Allora, ricordo, tanta era la pesantezza sia della parte visiva che della parte musicale. Un golfo mistico annegato da un’agogica grigia e spenta di suprema lentezza tanto da mortificare le intenzioni dei cantanti. A Modena Fogliani ha totalmente ripensato la sua direzione rivista sotto l’ala degli influssi rossiniani e del Donizetti già maturo della “Lucia di Lammermoor”. L’orchestra di Modena è sicuramente volenterosa e duttile, ma non può mascherare certi stridori degli archi e certe stonature dei fiati; infatti Fogliani, come già Frizza a Roma, predilige, in questo caso, tempi nervosi ed espressivi per quanto attiene alla figura di Elisabetta, facendola uscire da quell’ingombrante alone di “seconda donna” almeno musicalmente parlando, mentre predilige una timbrica più melodiosa, dolceamara, fluida per Maria Stuarda; interessante quindi lo scontro anche musicale che si viene a creare in orchestra per far emergere uno o l’altra sovrana. Molto curato, ad esempio, l’utilizzo del clarinetto per sottolineare la presenza della Stuarda, richiamando dappresso l’utilizzo che Donizetti farà dell’arpa ed del flauto per accompagnare Lucia e implacabile il declamato melodico che travolge l’orchestra nel finale del II e III atto in cui l’elettrizzante duello non avviene più tra Elisabetta e Maria, ma tra Fogliani e la Devia con esiti felicissimi per entrambi, meno per gli altri cantanti che letteralmente spariscono. La regia di Francesco Esposito (suoi anche i pregiati costumi), già collaudata in molti teatri dal 2001, di cui esiste un DVD e che vide a Roma il debutto nel ruolo della Devia, dipinge tutti i personaggi come dominati, loro malgrado dalla personalità della Stuarda, autentico deus ex machina della vicenda, moltiplicata in scena da sinistre figuranti atteggiate in pose plastiche o tragicamente ricoperte di veli rossi, all’interno di un ambiente funereo che imprigiona i cantanti tra grate incombenti, mura nerissime (scenografie di Italo Grassi), discrete proiezioni e di un disegno luci magnifico curato da Fabio Rossi che visualizza cromaticamente ambienti e passioni. In realtà non accade nulla in scena, a parte il ridicolo uso del solito frustino sado-maso, e l’insistita presenza di drappi rossi o argentati poggiati a terra volendo rappresentare di volta in volta la via verso il trono o verso il patibolo, ma si lascia guardare e non da fastidio né ai cantanti, né al pubblico. Al termine applausi cortesi per tutti, molto calore per tenore e direttore e trionfo assoluto per la Devia: trionfo, vero, autentico, rumoroso di quelli con le mani battute sulle balaustre dei palchi; di quelli con i piedi che battono prepotenti sul legno del pavimento; di quelli che accennano ad essere ritmati; di quelli con il pubblico in delirio che chiama ripetutamente e a gran voce la sua beniamina per ringraziarla delle emozioni che ha saputo trasmettere. Di fronte a questo i “trenta secondi” di clap-clap che a fine recita accoglie gli artisti nei teatri italiani ed esteri, ultimamente scambiati per successi epifanici e difesi strenuamente quanto comicamente, diventano solo materiale per barzellette.
Tale tributo, doverosissimo ça va sans dire, sottolinea ancora una volta, e ce n’è bisogno, che di artiste vere, di razza, professionali, preparate il pubblico ha fame! Una fame di arte ed entusiasmo spontaneo verso colei che con questo ciclo di recite ha letteralmente polverizzato tutte le possibili pseudo-simil-belcantiste odierne, anche recentemente ascoltate, che commenti forumistici, dolciastri proclami su social network e recensioni, o presunte tali, infarcite di accenti paragonabili solo alle svenevolezze da “Baci perugina”, hanno inopinatamente innalzano a esempio di “belcanto” moderno. Una bufala autentica, non solo colossale, ma parecchio comica oltre che greve, che puzza troppo di stantio per essere credibile. Mi spiace, ma oggettivamente è così! Una sovrana assoluta, e sola purtroppo, la Devia, che dopo il buco nell’acqua della sua recente “Traviata” bolognese, si riappropria, nel proprio elemento, dei consueti panni donizettiani dell’infelice e colpevole Stuarda, ruolo studiato, approfondito, assimilato che nonostante qualche ovvia perplessità su stile e tessitura, oggi il soprano può vantare di calzare come un guanto. E difatti il miracolo si compie: il pubblico, al suo apparire a scena aperta nel giardino di Forteringa, le tributa un applauso talmente entusiasmante, che l’introduzione orchestrale e l’attacco della Kennedy vengono ritardati saggiamente per alcuni minuti. Poi la Devia inizia con “O nube che lieve” e subito iniziano i prodigi: l’appoggio ovunque sovrano della voce, il controllo magistrale dell’emissione tutta giocata su un dolcissimo piano cesellato da acuti in pianissimo sulla parola “sospiri”, un legato a prova di bomba sostenuto da un fiato perfetto che le permette di legare intere frasi, respirando all’unisono con la musica ed un registro di testa saldo e brillante come il cristallo, lasciano il pubblico in apnea. L’accento poi è ovunque vibrante, ed è eccezionale come la Devia riesca con un fraseggio dolcissimo, intimista a scolpire l’ ambigua femminilità della regina prigioniera, riuscendo naturale ed immediato l’incanto di rendere suo complice il pubblico, il quale deve necessariamente ritenerla pura e innocente, pur nella evidente colpevolezza. “Nella pace del mesto riposo” ha un piglio decisamente battagliero, quasi una Odabella verdiana, tutto tenuto su un coerente mezzo-forte di spavalda intonazione, per non parlare del tono con cui accenta frasi come “resti, resti sul trono adorata”, il cui l’interprete è attraversata da un elegantissimo sprezzo beffardo, ma mai volgare né greve, e velata da un peccaminoso orgoglio. Le scale cromatiche, i trilli, non troppo infallibili però, ed i vocalizzi ascendenti e discendenti, su cui aleggia qualche trascurabile durezza, esplodono in acuti timbratissimi, come nelle raffinate variazioni della rispresa, in cui sorprende lo sfoggio ampio e inedito di un registro grave morbido e dal colore freschissimo. Le frasi nel successivo duetto con Leicester si colorano di abbandoni degni di una amorosa malinconica, eppure carica di desiderio, che culminano in un “Da tutti abbandonata” ricamato in un cremoso patetismo, perfetto contraltare dello scontro con Elisabetta, nel quale il crescendo nervoso dell’accompagnamento orchestrale, conduce ad una invettiva liberatoria e scabra al contempo, introdotta da un maestoso “No” e conclusa evitando saggiamente la variante acuta, gestendo cioè con sensibilità le vibrazioni dei registri centro-grave e donando maggiori sottolineature all’insulto senza quelle aperture di suono che anche interpreti più blasonate aggiungevano rovinando l’effetto. Splendido, infine, tutto III atto in cui l’orgoglio sprigionato dalle iniziali parole della Stuarda, si trasforma lentamente in quella trasfigurazione emotiva che è la “scena della confessione”, il cui vertice, oltre a tutto il lunghissimo climax finale, è raggiunto da “Delle mie colpe lo squallido fantasma”, delirio di un’anima lacerata dal peccato che dischiudendo la sua anima con la forza della voce, trascolora, nel suo galleggiare sicuro e vibrante, sui vocalizzi e impalpabili involi all’acuto verso l’autentica catarsi. Bellissimo. In questo contesto la Devia è purtroppo isolata. Un peccato gravissimo, a mio parere, che non si sia trovata una Elisabetta, non dico di pari livello, ma almeno passabile, cosa che purtroppo Nidia Palacios sicuramente non è. Dalle ripugnanti recite di “Lucrezia Borgia” a Bergamo, in cui interpretava un Maffio Orsini calamitoso e inudibile, sono passati pochi anni ed Elisabetta è un ruolo praticamente centrale che potrebbe offrire alla cantante diversi nascondigli; in più la dimensione del teatro di Modena, più ridotto rispetto al Teatro Donizetti di Bergamo, può aiutare in parte la proiezione di una voce tutto sommato troppo piccina per parti di tal fatta.
La Palacios poi non è né mezzosoprano, né contralto, ma tutt’al più un sopranino, corto corto in alto, inesistente in basso, stridulo ovunque, con una esile vocina poggiata più sulla natura che sulla tecnica, atraversata da un vibrato che rende ancora più acido il timbro, già chiaro, e a rischio rottura su ogni nota a partire dal Mi. Si aggiunga una resa del personaggio a malapena generico nonostante si sforzi di sfoggiare una parvenza di grinta. Un po’ meglio le cose vanno con il tenore turco Bülent Bezdüz, in carriera dal 1997 nel cui curriculum appaiono anche collaborazioni importanti con maestri del calibro di Sir Colin Davis (“Les Troyens”, “Falstaff”), sostituito all’ultimo minuto dell’insufficiente Adriano Graziani “provvidenzialmente” indisposto e vittima di critiche non proprio entusiastiche. Alla figura giovane il tenore associa una voce piccola, gradevole, beneducata, esilissima, ma che riesce a correre bene in teatro e si copre di gloria nel duetto con la Devia e nei passi più elegiaci, nei quali dimostra un buon controllo del fiato ed un accento interessante e quantomeno partecipe. Ugo Guagliardo (Talbot) e Gezim Myshketa (Cecil) sono praticamente due baritoni sovrapponibili; più rozzo il primo, più delicato il secondo, entrambi fanno sentire la loro voce solo al III atto, mentre negli atti precedenti non ci è dato sapere nulla della loro vocalità inghiottita com’è dall’orchestra. Brava invece si dimostra Caterina di Tonno che emerge nel ruolo di Anna Kennedy ed è l’unica che può duettare degnamente con la Devia sfoggiando voce chiara, morbida e sonora ed un musicalità di grande sensibilità. Buono il coro preparato dal Maestro Corrado Casati nonostante lo stridore di certi soprani soprattutto nella preghiera del III atto. Irriconoscibile, in meglio, la direzione di Antonino Fogliani. Sceglie l’edizione critica a cura di Anders Wiklund per quanto riguarda la partitura accogliendo alcune delle varianti “Malibran”, ma tagliando, giustamente, l’Ouverture che Donizetti scrisse per il Teatro alla Scala, che invece quando si esibì su quello stesso podio volle introdurre. Allora, ricordo, tanta era la pesantezza sia della parte visiva che della parte musicale. Un golfo mistico annegato da un’agogica grigia e spenta di suprema lentezza tanto da mortificare le intenzioni dei cantanti. A Modena Fogliani ha totalmente ripensato la sua direzione rivista sotto l’ala degli influssi rossiniani e del Donizetti già maturo della “Lucia di Lammermoor”. L’orchestra di Modena è sicuramente volenterosa e duttile, ma non può mascherare certi stridori degli archi e certe stonature dei fiati; infatti Fogliani, come già Frizza a Roma, predilige, in questo caso, tempi nervosi ed espressivi per quanto attiene alla figura di Elisabetta, facendola uscire da quell’ingombrante alone di “seconda donna” almeno musicalmente parlando, mentre predilige una timbrica più melodiosa, dolceamara, fluida per Maria Stuarda; interessante quindi lo scontro anche musicale che si viene a creare in orchestra per far emergere uno o l’altra sovrana. Molto curato, ad esempio, l’utilizzo del clarinetto per sottolineare la presenza della Stuarda, richiamando dappresso l’utilizzo che Donizetti farà dell’arpa ed del flauto per accompagnare Lucia e implacabile il declamato melodico che travolge l’orchestra nel finale del II e III atto in cui l’elettrizzante duello non avviene più tra Elisabetta e Maria, ma tra Fogliani e la Devia con esiti felicissimi per entrambi, meno per gli altri cantanti che letteralmente spariscono. La regia di Francesco Esposito (suoi anche i pregiati costumi), già collaudata in molti teatri dal 2001, di cui esiste un DVD e che vide a Roma il debutto nel ruolo della Devia, dipinge tutti i personaggi come dominati, loro malgrado dalla personalità della Stuarda, autentico deus ex machina della vicenda, moltiplicata in scena da sinistre figuranti atteggiate in pose plastiche o tragicamente ricoperte di veli rossi, all’interno di un ambiente funereo che imprigiona i cantanti tra grate incombenti, mura nerissime (scenografie di Italo Grassi), discrete proiezioni e di un disegno luci magnifico curato da Fabio Rossi che visualizza cromaticamente ambienti e passioni. In realtà non accade nulla in scena, a parte il ridicolo uso del solito frustino sado-maso, e l’insistita presenza di drappi rossi o argentati poggiati a terra volendo rappresentare di volta in volta la via verso il trono o verso il patibolo, ma si lascia guardare e non da fastidio né ai cantanti, né al pubblico. Al termine applausi cortesi per tutti, molto calore per tenore e direttore e trionfo assoluto per la Devia: trionfo, vero, autentico, rumoroso di quelli con le mani battute sulle balaustre dei palchi; di quelli con i piedi che battono prepotenti sul legno del pavimento; di quelli che accennano ad essere ritmati; di quelli con il pubblico in delirio che chiama ripetutamente e a gran voce la sua beniamina per ringraziarla delle emozioni che ha saputo trasmettere. Di fronte a questo i “trenta secondi” di clap-clap che a fine recita accoglie gli artisti nei teatri italiani ed esteri, ultimamente scambiati per successi epifanici e difesi strenuamente quanto comicamente, diventano solo materiale per barzellette.
A me fa impressione quanto la Devia sia rilassata e morbida visivamente durante il canto. Segno di una tecnica infallibile. Ma questo oggi non va più bene. Se non si vedono smorfie o contorsioni sembra che non vada bene.
Esatto Luca!
La Devia è sempre rilassata quando canta (un po' di cautela nell'emissione dei sovracuti magari, ma giusto quel tanto) e riesce a trasmettere la facilità del suo canto come se fosse una cosa naturale (come dovrebbe in effetti essere).
Un appunto: dalle simil-pseudo-belcantiste odierne escludo per correttezza e onestà Jessica Pratt, che anche nella recente "Sonnambula" ha dimostrato, vedi recensione, tutto il suo meritato valore.
Marianne Brandt
Vero,la Pratt da sicurezza quando canta. Ma a differenza della Devia, noto un po' di tensione nel fiato, una sensazione di "apnea". Nella Devia invece non c'è alcuna tensione tranne che, oggi, per gli estremi acuti. Ma è una cosa che non è dovuta alla tecnica quanto piuttosto, credo, all'età.
Ma si parla appunto di piccolezze.