Il secondo spettacolo del Festival Verdi 2010 potrebbe essere definito la seconda stazione della via crucis, inflitta al pubblico. La seconda è, come accade anche nella Sacra Rappresentazione, ben più dolorosa della prima. E non siamo arrivati alla cima del Golgota e le lamentazioni finali voglio, di proposito, lasciarle per la fine di questo mese verdiano, ove il peggior Verdi è stato quello del Festival di Parma.
Rimando, perché riassume la vox populi, sia ad una intervista di Michele Pertusi sulla Gazzetta di Parma sia alle spontanee ed indignate voci della chat di questo nostro blog, raccolte durante la trasmissione dello spettacolo. La terza fonte di commento attendibile è il loggione parmigiano dignitoso e composto, come si addice ai personaggi Verdiani, che ha commentato ora con sguardi fra loggionisti, ora con commenti a mezza voce, ora con doverosi zittii una serata di quelle NO.
Spettacolo pretenzioso e raffazzonato.
Allestire i Vespri non è impresa da poco a prescindere dalla versione scelta, in italiano o in francese, integrale, tagliata e se tagliata come, ma nel scegliere questo titolo non si può incappare in una realizzazione di questo tenore. Non nel senso di Armiliato Fabio.
In difetto o si cambia titolo o si cambia mestiere se non si sia in grado di pensare e realizzare di meglio.
In primo luogo l’allestimento ed il denaro pubblico. Gettato e sprecato. Voglio credere che il regista, scenografo e costumista Pier Luigi Pzzi, classe 1930, in carriera dal 1955 circa, abbia colto con questa presenza l’occasione per servire la cultura e le precarie condizioni della pubblica finanza regalando la propria prestazione o limitandosi alla richiesta di un semplice rimborso spese. Franca Valeri direbbe argent de poche. Questi Vespri sono quelli Scala 1987 neppure riveduti e corretti, passati nel 2003, credo, a Busseto. Ad un un personaggio, che riveste il triplice ruolo e svolge, quindi, una cosiddetta opera di ingegno artistico non è lecito e morale corrispondere compenso quando l’idea dello spettacolo e circa il 70% della pratica realizzazione sia stato proposto già per ben tre volte identico. A onor del vero sarebbero quattro perchè l’ambientazione risorgimentale nacque ai famosi Vespri 7 dicembre 1970 ove Pizzi era scenografo e costumista. Poi possiamo anche rilevare come il nero indossato da una dimagrita Daniela Dessi, somigliante nel solo aspetto alle divine dell’800, sia molto elegante, ma francamente non è poco, è assolutamente nulla, lo sanno tutte le sarte di esperienza. E poi da un allievo di Visconti non accetto che i frati, che accompagnano i condannati a morte siano dell’ordine domenicano, in quanto ai soli Cappuccini spettava tale ufficio. Alla Scala nel 1970 l’errore venne evitato se la memoria non difetta. Parimenti dobbiamo censurare un maestro della metafora come Pizzi per lo stupro in primo piano durante il ratto del finale secondo.
La direzione è stata elogiata per aver saputo accompagnare i cantanti, impresa non da poco con le forze schierate nella più parte dei ruoli di protagonisti e con un’orchestra non certo eccelsa. Però non posso far a meno di rilevare la piattezza con cui nell’ouverture sono stati enunciati i temi patetici ossia la canzone di Elena ed il “mentre contemplo quel volto amato” o i clangori alla chiusa del finale primo e all’insurrezione del finale quinto, ovvero la noia, che ispiravano i duetti fra i due Monforte o le sonorità slentate e da idillio alla stretta del duetto Elena-Arrigo nel carcere. Giustamente si dirà che la bacchetta doveva fare i conti con le insufficienti, esaurite forze, disponibili sul palcoscenico. E allora se le forze sono quelle si deve anche provvedere a ridurre e semplificare le cadenze previste da Verdi ai duetti degli innamorati, per evitare il rischio che il pubblico parmigiano, emulo del milanese 1970 o 1987, richiami e con ragione il verso del domestico felino. Sono mi sia consentito quei piccoli “trucchi del mestiere” che i maestri di bacchetta e forbice conoscevano e praticavano. Il quale pubblcio innanzi ad uno spettacolo di livello ancor più basso del Trovatore inaugurale è sembrato frenato nell’esprimere compiutamente il proprio serpreggiante dissenso rispetto alla produzione.
E veniamo alle dolorose note del palcoscenico.
Meglio gli antagonisti politici che gli innamorati. Non è un grosso merito con siffatta coppia di innamorati.
E poi il loggione parmigiano continua ad applaudire Leo Nucci e noi continuano a ribadire quanto già assunto in occasione del Rigoletto scaligero e dei parmigiani Trovatore e Simone. La voce di Nucci non è mai stata, e non interessa chiarirlo se per limitata dote o carenza di vera e rifinita tecnica, una palestra di velluto, gli anni hanno fatto il resto e, quindi, in questo Guido di Monforte, certo agevolato dalla scrittura acuta, ma non acutissima Nucci sfigura meno che nei precedenti ruoli verdiani. I parchi tentativi di addolcire e cantare piano comportano sistematicamente (vedi ripresa del “In braccio alle dovizie”) problemi di intonazione ed i segni di espressione che sono, come compete al padre verdiano, qui nella particolare declinazione del padre respinto, “dolcissimo”, “pp”, “morendo” spazzati via. Per rendersi conto prima di intraprendere difese d’ufficio basta dare una scorsa allo spartito, anche senza saper leggere la musica.
E poi la voce di Nucci da tempo ha smesso pure di essere tronituante e strapotente come competerebbe a baritoni di poche nuances e sfumature e gusto verista.
Il maggior successo della serata è, giustamente, spettato a Giacomo Prestia nel ruolo di Giovanni da Procida. La voce è di autentico basso, anche se ingolato al centro e, per conseguenza sbiancato e non fermissimo sugli acuti (vedi la cadenza della sortita eseguita, mi pare, come previsto da Verdi) o l’attacco del quartetto “addio mia patria”. Non comprendo il parziale taglio della cabaletta alla sortita.
E siamo giunti agli innamorati. Non si può tacere. Anche se il lugubre silenzio che ha accompagnato la squinternata esecuzione dell’assolo “Arrigo ah parli a un cor” è stato la stigmatizzazione di una prestazione assolutamente insufficiente. Davanti ad un simile comportamento dichiarare, come ha fatto la protagonista, che i fischi sono stati atto dei soliti quattro scellerati è, a sua volta, scellerato.
Andiamo per ordine. A Verdi Sofia Cruvelli, prima Duchessa Elena, non piaceva come persona, siccome la signora si credeva la reincarnazione della Malibran e non sarà l’ultima nella storia del melodramma, il maestro le confezionò una parte di assoluta difficoltà, per certi versi la più difficile delle verdiane per soprani. Difficoltà rappresentata dalla scrittura quasi da mezzo della sortita dalla dovizia di segni di espressione, di acuti da tenere (finale quarto) sulle masse orchestrali e corali, dalla irrinunciabile difficoltà di arrivare fresca al quinto atto dove il soprano Falcon si trasforma, per l’esecuzione del Bolero, in una chateuse a roulade o quasi stile Dorus-Gras. Tralascio le fantasmagoriche cadenze, proprio perchè cadenze e quindi da riscrivere ad personam.
Anche ritoccata ed accorciata, come Verdi fece per la traduzione italiana, protagonista la Barbieri Nini, la parte richiede qualcosa di diverso da una Mimì che anni e tempi hanno trasformato in Tosca o Minnie. Cantare queste parti in altri Festival e manifestazioni estive con successo non significa esser in grado di affrontare una parte che richiede integrità vocale, scaltrezza e saldezza tecnica, agilità sicure, legato e fiati da manuale. Preciso che le attuali condizioni vocali non consentono di affrontare con credibilità alcun ruolo verdiano a Daniela Dessi.
All’entrata la cantante, vuota in basso, stridula negli acuti ha moderato il volume e con esso l’inadeguatezza al ruolo, in quanto per scuola ed esperienza una cantante, che ha dimostrato di saper reggere parti al di sopra delle proprie naturali possibilità. I primi problemi sono emersi al duetto con Arrigo al monte Pellegrino, dove la recitazione da Manon a San Sulpizio, non risolve e nasconde alcunchè, la cadenza era sgangherata, frasi come “il mio fratel de vendica” se eseguite con suoni di un certo volume mostrano una voce priva di smalto, di timbro, stridore e suoni malfermi, mentre i tentativi di addolcire danno luogo a falsettini. “Sussurri e gridi” sono la caratteristica di questa vocale ed imterpretiva di questa Duchessa Elena.
La carenza di ampiezza e saldezza sono state ancor più evidenziate nel finale terzo quando Elena “tira” il concertato con il famoso “patria adorata”, ed al finale quarto dall’“Addio mia patria” attaccato con voce senescente e malferma nei tentativi di addolcire, urlato nella stretta.
Il peggio in quell’atto fosse stato il duetto eseguito con tempo letargico, sonorità da idillio, bisbigli e falsettini, da imitatrice della peggior Ricciarelli, neanche il caso di un richiamo alla Caballè. Pacifico che il Bolero (versione facilitata ovviamente, esentata da sovracuti e note sotto il rigo, ove possibile) fosse caricaturale nell’esecuzione.
In generale dal terzo atto in poi la voce è stata al di sotto di quel minimo controllo, che consente una prestazione decente e precisare che certi acuti ghermiti ed urlati possono anche passare il Fanciulla e Tabarro, ma sono oltraggiosi per l’autore ed il cantante in Verdi e in qualsiasi autore coevo e rendono inutili e grossolani giri di controllo in loggione da parte dei managers, alloggiati in comodi posti palco.
Alla fine il caso Armiliato. L’annuncio nel lungo, imprevisto e commentato dal pubblico intervallo fra quarto e quinto atto è stato il rimedio peggiore del male e ha, per certo urtato il pubblico. Ciascuno è libero d credere ciò che vuole sulla vera o diplomatica malattia. Per parte mia posso dire di aver sentito cantare parecchi artisti, pure annunciati malati, in modo bel diverso da quello di Fabio Armiliato sin dall’inizio della serata. E siccome sino al quinto atto (stranamente il meno peggio, nonostante l’annuncio dell’indisposizione) il signor Armiliato godeva di buona salute per questo deve essere valutato.
Basterebbe rilevare che già prima della malattia era stato previsto il taglio della siciliana al quinto atto per dire dell’inadeguatezza del cantante al ruolo. Il ruolo come tutte le parti da grand-opéra batte una zona che per i cantanti della tecnica e del conseguente repertorio di Fabio Armiliato coincide non già con la zona del cantabile, ma con quella degli acuti. E se un acuto è un bercio in Cavalleria o Tosca, ma anche in Forza, la più parte del pubblico sopporta, ma se bercio sono intere frasi la cosa cambia e di molto aspetto. Lotta impari tutta la sera, quindi, con suoni indietro ed ingolati nelle frasi del primo duetto con Monforte tipo il “cantabile grandioso” (grandioso dove?) “di giovane audace” dove i fa ed i sol stanno profondamente in gola, falsettini nel duetto con Elena al Monte Pellegrino, altri suoni fuori di posto e raggiusti al “Ombra diletta”, che insiste sulla zona del passaggio superiore, dove cantano sempre una serie di personaggio come Edgardo o il duca di Mantova mai frequentati da Fabio Armiliato. Al quarto atto l’aria è uno strazio e le risoluzioni all’ottava inferiore con una bella voce grossa e bitumata uno sconveniente omaggio a Verdi, assolutamente in sintonia con il Festival. Qualcuno, oggi vilipeso, ha scritto che il canto non è l’arte della cabala, avremo occasione di dimostralo praticamente, ci illudiamo ancora, ma siamo illusi che questo principio sia chiaro nella mente di chi proponga titoli e ruoli conseguenti, di chi offra o imponga cantanti su quei ruoli ed a chi ultimo li canti. In caso di difetto vige, per tutti i soggetti, il principio di correità.
Rimando, perché riassume la vox populi, sia ad una intervista di Michele Pertusi sulla Gazzetta di Parma sia alle spontanee ed indignate voci della chat di questo nostro blog, raccolte durante la trasmissione dello spettacolo. La terza fonte di commento attendibile è il loggione parmigiano dignitoso e composto, come si addice ai personaggi Verdiani, che ha commentato ora con sguardi fra loggionisti, ora con commenti a mezza voce, ora con doverosi zittii una serata di quelle NO.
Spettacolo pretenzioso e raffazzonato.
Allestire i Vespri non è impresa da poco a prescindere dalla versione scelta, in italiano o in francese, integrale, tagliata e se tagliata come, ma nel scegliere questo titolo non si può incappare in una realizzazione di questo tenore. Non nel senso di Armiliato Fabio.
In difetto o si cambia titolo o si cambia mestiere se non si sia in grado di pensare e realizzare di meglio.
In primo luogo l’allestimento ed il denaro pubblico. Gettato e sprecato. Voglio credere che il regista, scenografo e costumista Pier Luigi Pzzi, classe 1930, in carriera dal 1955 circa, abbia colto con questa presenza l’occasione per servire la cultura e le precarie condizioni della pubblica finanza regalando la propria prestazione o limitandosi alla richiesta di un semplice rimborso spese. Franca Valeri direbbe argent de poche. Questi Vespri sono quelli Scala 1987 neppure riveduti e corretti, passati nel 2003, credo, a Busseto. Ad un un personaggio, che riveste il triplice ruolo e svolge, quindi, una cosiddetta opera di ingegno artistico non è lecito e morale corrispondere compenso quando l’idea dello spettacolo e circa il 70% della pratica realizzazione sia stato proposto già per ben tre volte identico. A onor del vero sarebbero quattro perchè l’ambientazione risorgimentale nacque ai famosi Vespri 7 dicembre 1970 ove Pizzi era scenografo e costumista. Poi possiamo anche rilevare come il nero indossato da una dimagrita Daniela Dessi, somigliante nel solo aspetto alle divine dell’800, sia molto elegante, ma francamente non è poco, è assolutamente nulla, lo sanno tutte le sarte di esperienza. E poi da un allievo di Visconti non accetto che i frati, che accompagnano i condannati a morte siano dell’ordine domenicano, in quanto ai soli Cappuccini spettava tale ufficio. Alla Scala nel 1970 l’errore venne evitato se la memoria non difetta. Parimenti dobbiamo censurare un maestro della metafora come Pizzi per lo stupro in primo piano durante il ratto del finale secondo.
La direzione è stata elogiata per aver saputo accompagnare i cantanti, impresa non da poco con le forze schierate nella più parte dei ruoli di protagonisti e con un’orchestra non certo eccelsa. Però non posso far a meno di rilevare la piattezza con cui nell’ouverture sono stati enunciati i temi patetici ossia la canzone di Elena ed il “mentre contemplo quel volto amato” o i clangori alla chiusa del finale primo e all’insurrezione del finale quinto, ovvero la noia, che ispiravano i duetti fra i due Monforte o le sonorità slentate e da idillio alla stretta del duetto Elena-Arrigo nel carcere. Giustamente si dirà che la bacchetta doveva fare i conti con le insufficienti, esaurite forze, disponibili sul palcoscenico. E allora se le forze sono quelle si deve anche provvedere a ridurre e semplificare le cadenze previste da Verdi ai duetti degli innamorati, per evitare il rischio che il pubblico parmigiano, emulo del milanese 1970 o 1987, richiami e con ragione il verso del domestico felino. Sono mi sia consentito quei piccoli “trucchi del mestiere” che i maestri di bacchetta e forbice conoscevano e praticavano. Il quale pubblcio innanzi ad uno spettacolo di livello ancor più basso del Trovatore inaugurale è sembrato frenato nell’esprimere compiutamente il proprio serpreggiante dissenso rispetto alla produzione.
E veniamo alle dolorose note del palcoscenico.
Meglio gli antagonisti politici che gli innamorati. Non è un grosso merito con siffatta coppia di innamorati.
E poi il loggione parmigiano continua ad applaudire Leo Nucci e noi continuano a ribadire quanto già assunto in occasione del Rigoletto scaligero e dei parmigiani Trovatore e Simone. La voce di Nucci non è mai stata, e non interessa chiarirlo se per limitata dote o carenza di vera e rifinita tecnica, una palestra di velluto, gli anni hanno fatto il resto e, quindi, in questo Guido di Monforte, certo agevolato dalla scrittura acuta, ma non acutissima Nucci sfigura meno che nei precedenti ruoli verdiani. I parchi tentativi di addolcire e cantare piano comportano sistematicamente (vedi ripresa del “In braccio alle dovizie”) problemi di intonazione ed i segni di espressione che sono, come compete al padre verdiano, qui nella particolare declinazione del padre respinto, “dolcissimo”, “pp”, “morendo” spazzati via. Per rendersi conto prima di intraprendere difese d’ufficio basta dare una scorsa allo spartito, anche senza saper leggere la musica.
E poi la voce di Nucci da tempo ha smesso pure di essere tronituante e strapotente come competerebbe a baritoni di poche nuances e sfumature e gusto verista.
Il maggior successo della serata è, giustamente, spettato a Giacomo Prestia nel ruolo di Giovanni da Procida. La voce è di autentico basso, anche se ingolato al centro e, per conseguenza sbiancato e non fermissimo sugli acuti (vedi la cadenza della sortita eseguita, mi pare, come previsto da Verdi) o l’attacco del quartetto “addio mia patria”. Non comprendo il parziale taglio della cabaletta alla sortita.
E siamo giunti agli innamorati. Non si può tacere. Anche se il lugubre silenzio che ha accompagnato la squinternata esecuzione dell’assolo “Arrigo ah parli a un cor” è stato la stigmatizzazione di una prestazione assolutamente insufficiente. Davanti ad un simile comportamento dichiarare, come ha fatto la protagonista, che i fischi sono stati atto dei soliti quattro scellerati è, a sua volta, scellerato.
Andiamo per ordine. A Verdi Sofia Cruvelli, prima Duchessa Elena, non piaceva come persona, siccome la signora si credeva la reincarnazione della Malibran e non sarà l’ultima nella storia del melodramma, il maestro le confezionò una parte di assoluta difficoltà, per certi versi la più difficile delle verdiane per soprani. Difficoltà rappresentata dalla scrittura quasi da mezzo della sortita dalla dovizia di segni di espressione, di acuti da tenere (finale quarto) sulle masse orchestrali e corali, dalla irrinunciabile difficoltà di arrivare fresca al quinto atto dove il soprano Falcon si trasforma, per l’esecuzione del Bolero, in una chateuse a roulade o quasi stile Dorus-Gras. Tralascio le fantasmagoriche cadenze, proprio perchè cadenze e quindi da riscrivere ad personam.
Anche ritoccata ed accorciata, come Verdi fece per la traduzione italiana, protagonista la Barbieri Nini, la parte richiede qualcosa di diverso da una Mimì che anni e tempi hanno trasformato in Tosca o Minnie. Cantare queste parti in altri Festival e manifestazioni estive con successo non significa esser in grado di affrontare una parte che richiede integrità vocale, scaltrezza e saldezza tecnica, agilità sicure, legato e fiati da manuale. Preciso che le attuali condizioni vocali non consentono di affrontare con credibilità alcun ruolo verdiano a Daniela Dessi.
All’entrata la cantante, vuota in basso, stridula negli acuti ha moderato il volume e con esso l’inadeguatezza al ruolo, in quanto per scuola ed esperienza una cantante, che ha dimostrato di saper reggere parti al di sopra delle proprie naturali possibilità. I primi problemi sono emersi al duetto con Arrigo al monte Pellegrino, dove la recitazione da Manon a San Sulpizio, non risolve e nasconde alcunchè, la cadenza era sgangherata, frasi come “il mio fratel de vendica” se eseguite con suoni di un certo volume mostrano una voce priva di smalto, di timbro, stridore e suoni malfermi, mentre i tentativi di addolcire danno luogo a falsettini. “Sussurri e gridi” sono la caratteristica di questa vocale ed imterpretiva di questa Duchessa Elena.
La carenza di ampiezza e saldezza sono state ancor più evidenziate nel finale terzo quando Elena “tira” il concertato con il famoso “patria adorata”, ed al finale quarto dall’“Addio mia patria” attaccato con voce senescente e malferma nei tentativi di addolcire, urlato nella stretta.
Il peggio in quell’atto fosse stato il duetto eseguito con tempo letargico, sonorità da idillio, bisbigli e falsettini, da imitatrice della peggior Ricciarelli, neanche il caso di un richiamo alla Caballè. Pacifico che il Bolero (versione facilitata ovviamente, esentata da sovracuti e note sotto il rigo, ove possibile) fosse caricaturale nell’esecuzione.
In generale dal terzo atto in poi la voce è stata al di sotto di quel minimo controllo, che consente una prestazione decente e precisare che certi acuti ghermiti ed urlati possono anche passare il Fanciulla e Tabarro, ma sono oltraggiosi per l’autore ed il cantante in Verdi e in qualsiasi autore coevo e rendono inutili e grossolani giri di controllo in loggione da parte dei managers, alloggiati in comodi posti palco.
Alla fine il caso Armiliato. L’annuncio nel lungo, imprevisto e commentato dal pubblico intervallo fra quarto e quinto atto è stato il rimedio peggiore del male e ha, per certo urtato il pubblico. Ciascuno è libero d credere ciò che vuole sulla vera o diplomatica malattia. Per parte mia posso dire di aver sentito cantare parecchi artisti, pure annunciati malati, in modo bel diverso da quello di Fabio Armiliato sin dall’inizio della serata. E siccome sino al quinto atto (stranamente il meno peggio, nonostante l’annuncio dell’indisposizione) il signor Armiliato godeva di buona salute per questo deve essere valutato.
Basterebbe rilevare che già prima della malattia era stato previsto il taglio della siciliana al quinto atto per dire dell’inadeguatezza del cantante al ruolo. Il ruolo come tutte le parti da grand-opéra batte una zona che per i cantanti della tecnica e del conseguente repertorio di Fabio Armiliato coincide non già con la zona del cantabile, ma con quella degli acuti. E se un acuto è un bercio in Cavalleria o Tosca, ma anche in Forza, la più parte del pubblico sopporta, ma se bercio sono intere frasi la cosa cambia e di molto aspetto. Lotta impari tutta la sera, quindi, con suoni indietro ed ingolati nelle frasi del primo duetto con Monforte tipo il “cantabile grandioso” (grandioso dove?) “di giovane audace” dove i fa ed i sol stanno profondamente in gola, falsettini nel duetto con Elena al Monte Pellegrino, altri suoni fuori di posto e raggiusti al “Ombra diletta”, che insiste sulla zona del passaggio superiore, dove cantano sempre una serie di personaggio come Edgardo o il duca di Mantova mai frequentati da Fabio Armiliato. Al quarto atto l’aria è uno strazio e le risoluzioni all’ottava inferiore con una bella voce grossa e bitumata uno sconveniente omaggio a Verdi, assolutamente in sintonia con il Festival. Qualcuno, oggi vilipeso, ha scritto che il canto non è l’arte della cabala, avremo occasione di dimostralo praticamente, ci illudiamo ancora, ma siamo illusi che questo principio sia chiaro nella mente di chi proponga titoli e ruoli conseguenti, di chi offra o imponga cantanti su quei ruoli ed a chi ultimo li canti. In caso di difetto vige, per tutti i soggetti, il principio di correità.
Gli ascolti
Giuseppe Verdi
I Vespri siciliani
Ouverture – Erich Kleiber (1951), Thomas Schippers (1970)
Atto I
In alto mare – Martina Arroyo (1970)
Qual è il tuo nome – Giangiacomo Guelfi & Mario Filippeschi (1955)
Atto III
In braccio alle dovizie – Heinrich Schlusnus (1933)
Atto IV
Giorno di pianto – Mario Filippeschi (1955)
Atto V
Mercè dilette amiche – Antonietta Stella (1957), Renata Scotto (1970)
In chat si è detto tutto quel che c´era da dire. Sinceramente, in 45 anni di frequentazione dei teatri d´opera, non mi è mai capitato di assistere a una prova così indegna dal punto di vista della professionalità come accaduto nel quarto atto di questa produzione. Bene ha fatto poi Donzelli a rimarcare come il signor Pizzi abbia ancora una volta tentato di far passare per nuovo uno spettacolo che nella sua concezione risale addirittura a quasi quarant´anni fa.
Si puó cantare e suonare più o meno bene, ma prendere in giro il pubblico pagante, questo no.
Riflettano su questo, questi spocchiosi finti divi che si credono tali per aver azzeccato due o tre cose in carriera.
Saluti.
http://www.gazzettadiparma.it/primapagina/dettaglio/4/58461/Festival_Verdi_forti_critiche_di_Pertusi%3A_Manca_un_progetto_musicologico_serio.html
Quello sopra è il link all'articolo scritto dal basso Pertusi sulla Gazzetta di Parma. Caspita, se c'è andato giù duro! Leggetelo, che ne vale la pena. Offre molti spunti di discussione, tra l'altro.
Condivido appieno il pensiero di Donzelli, su Pizzi (ormai impresentabile) e sugli interpreti. Una cosa, però, mi viene da chiedere – pur immaginandomi la risposta – era proprio necessario arrivare alla prova del palcoscenico per verificare l'inadeguatezza della coppia Dessì/Armiliato? Non credo sia possibile balzare da ruoli baritenorili a quelli più spinti, passando da Norma ai Vespri, da Fanciulla a Forza del destino, passando per Alfredo, Chenier etc…insomma "di tutto di più"! Idem per la Signora… Ma ancora qualcuno sostiene che il Festival Verdi di Parma sia necessario? A me non sembra neppure opportuno, ormai…
Intanto è morta Joan Sutherland, a quanto pare…
Io mi sono indignato, ed è dir poco. Comunque dò ragione a duprez: dalle prime note emesse si sapeva SENZA POSSIBILITA' DI ERRORE che i due protagonisti non ce l'avrebbero fatta, non si poteva sbagliare, e non c'è bisogno di un polipo…
eee, professor Gioseffi, quanto dolore per la cara Joan!
Donzelli dixit:
"E poi da un allievo di Visconti non accetto che i frati, che accompagnano i condannati a morte siano dell’ordine domenicano, in quanto ai soli Cappuccini spettava tale ufficio".
I Cappuccini furono fondati verso il 1520; non facile che accompagnassero i morituri nella Palermo del 1282. Invece i Domenicani erano stati riconosciuti nel 1216… ("Il volgare piacere dell'anacronismo", per citare Borges).
Dame Joan, non sarai dimenticata.
hem hem….ma mio caro Ariodante, i Vespri di Pizzi, forse ti è sfuggito, hanno ambientazione ottocentesca!!!!…e Donzelli ha ragione, come al solito!
Non te la prendere: nessuno ti capisce meglio di me….è frustrante non riuscire mai a coglierlo in fallo.
Come nelle gomme da masticare: RITENTA, SARAI PIU' FORTUNATO!
saluti
Come da mio commento in chat, pensavo davvero che dopo la serata d'inaugurazione con Trovatore la china di questo Festival Verdi sarebbe potuta soltanto salire. Anche stavolta mi sbagliavo per eccesso di aspettative positive (poi dicono che il Corriere è prevenuto!). Con questi Vespri il Regio di Parma, dopo aver umiliato il compositore, lo ha senza dubbio offeso. Un teatro che ha l'ambizione di proporre "il miglior Verdi al mondo", rischia lo sberleffo quando riprende un titolo poco frequentato tagliando non solo il balletto al centro dell'opera, che l'avrebbe ridefinita nella sua essenza di grand-opéra, magari insieme al ripristino dell'originale libretto francese, ma ha permesso abbassamenti di tono (già sentiti nel Trovatore) e il taglio sconsiderato del breve assolo di Arrigo nel quinto atto, prova che la sovrintendenza e la direzione già sapevano quali sarebbero state le possibilità vocali dei "cantanti" in gioco! E poi tentano di far far fessi i più sostenendo che il cast "è di qualità" e che questi sono gli artisti giusti per riprendere dallo scaffale un'opera come i Vespri e render loro il dovuto onore! Ma ci sono o ci fanno? E non entro nei dettagli delle "doti" tecniche…
Anzi sì.
Per esempio non ho mai considerato professionali i suoni emessi dal signor Armiliato. L'emissione è tutta bloccata tra bocca e naso, gli acuti raggiunti con portamentoni terribili, che toccano tutte le note interposte tra quella iniziale e quella finale, tanto grevi da far rimpiangere i viaggi Tirrenia col mare in burrasca. Il centro è ingolfato e duro, che non permette modulazioni della voce (se non qualche facile sfalsettata) e di conseguenza una certa varietà di fraseggio. E non è neppure esente da suoni spinti, aperti e calate d'intonazione. Tant'è che l'annuncio dell'indisposizione è evidentemente parso più che dubbio. Perché Armiliato canta così da più di vent'anni. Nessuna sorpresa (vogliate risentire il suo "Giorno di pianto" a Barletta nell''88: trovare le differenze…). Insomma, non si affida Verdi, per di più una parte acuta e che si concentra spesso sul passaggio ("Giorno di pianto"), a chi è venuto bene qualche "Vittoria!" una volta ogni tanto. (continua)
L'Elena di Daniela Dessì. Un soprano in aria da diva (del muto!) che ha miagolato l'intera opera, senza gravi e con acuti fuori tempo (e buon gusto) massimo, validi tutt'al più per simulare l'arrivo di un'ambulanza in emergenza (Bolero). Addirittura i centri sono striduli e acidi! Insomma, una discreta cantante che ha fatto il suo tempo. E farebbe bene la signora a risentire le sue performance prima di strillare, per una volta fuori dal palcoscenico, "Ai disturbatori! Ai disturbatori!". Perché a certi "profesionisti" non solo mancano le qualità, ma anche l'umiltà e lo sguardo sincero sul proprio lavoro, caratteristiche che definivano lo statuto del grande artista (Joan Sutherland, risentendo le proprie registrazioni, ha più volte affermato, stupita: "Ma sono proprio io ad aver fatto questo acuto?". Ed era Joan Sutherland, mica Desirée Rancatore!). Insomma, questi divetti stizziti, abituati al consenso d'ufficio, ad essere… "adorati" nei loro templi di cartapesta, illusi di far contente le ormai poche bocche buone che ancora ci credono, arrivano a stigmatizzare non soltanto la contestazione, ma pure i silenzi (perché solo silenzi, spettrali e rivelatori, abbiamo "sentito" l'altra sera via streaming dal Regio). E ciò prova che il deficit di autocritica è endemico e che sta andando di pari passo con una responsabilità del palcoscenico che è venuta meno. Una respnsabilità che non è nemeno capace di essere autoreferenziale. Perché non serve più neppure da individuale, intima cartina di tornasole delle loro performance pubbliche. Altro che i teatri come cattedrali della cultura e della musica! Qui ci troviamo davanti ad acropoli del saldo, a plasticosi outlet del canto professionale che spacciano per "mondo possibile" l'improbabile ritorno di un teatro d'opera per tutti, democratizzato (brutta parola….) e prêt-à-porter, come è stato fino a qualche decennio fa. Solo i prezzi dei biglietti vegono meno a questa logica. E allora? Dov'è il vero outlet del canto democratico? Forza! Abbassiamo i costi d'ingresso a teatro e rendiamo compiuta l'illusione della vera "griffe" a buon mercato! Finalmente! Che bello…
…l'abbaglio continua. Magari alla tavola di un certo "girone" di pasoliniana memoria.
Cara Carlotta,
ti quoto. Ti straquoto. Ti arciquoto. Non ho mai quotato con tanto entusiasmo nessuno in vita mia.
E giiungo, a costo di sembrare ripetitivo: un festival che vuole proporsi a livello internazionale avrebbe il dovere di dotarsi prima di tutto di complessi adeguati, perchè un´orchestra e coro come quelli sentiti durante queste due serate, qui in Germania sarebbero indegni anche di una cresima di provincia!
Grazie Mozart! 😉
Credo che questi Vespri siano stati un punto di non ritorno per molti spettatori. Ora sulla pagina Facebook del tenore salta fuori che gli è stata diagnosticata una labirintite, tuttavia ha confermato le repliche programmate.
Per la sottoscritta il discorso non cambia, e ripeto: Armiliato canta così da più di vent'anni.
Concordo anche io sull'orchestra. Personalmente la trovo secca ed esangue.
basta la spiegazione che Dessì-Armiliato formano una coppia amorosa…e che scritturando l'una di rimorchio devi prendere l'altro? Così l'agente dei suddetti con una trattativa prende doppia percentuale. A quando una disanima, seria e approfondita, su questo mondo oscuro? Thanks! Mauve 126
Non sono d'accordo che l'Orchestra di Parma non sia degna di una cresima in provincia, perchè conosco le orchestre tedesche. Considerando poi le condizioni nelle quali si produce l'opera in provincia cioè a Parma, ove si battono 42 ore di lavoro a settimana contro le 28 degli Enti Lirici, dove le masse corali e Orchestrali costano per un anno di lavoro (Festival Verdi, Stagione lirica e Concertistica e di Balletto) quanto spende la Scala per le proprie in un mese, coristi e orchestrali possono andare fieri del loro lavoro, molto fieri. Non piace l'orchestrazione? Quando non piace l'esecuzione l'orchestra è fracassona e quando piace il maestro è un genio? Provate a frequentare anche i musicisti per capire il peso del loro lavoro e se fate una scappata a Parma, fermatevi all'ingresso artisti e dite le vostre perplessità, sarete ascoltati. Per quel che concerne i Vespri, chi era in Teatro ha appaludito fragorosamente l'esecuzione della Sinfonia. Certo non basta a giudicare positivamente tutta l'opera, ma basta per capire che le qualità di base ci sono.
caro stefano,
le coppie e le imposizioni per motivi coniugali sono, purtroppo, sempre esisistite, insegna la Storia (forse cronaca), ma quando si trattava della coppia Mario-Grisi era difficile stabilire chi fosse il divino dei due, idem per le sorelle Marchisio e quando Adelina Patti in certi titoli imponeva il bel Nicolini il pubblico almeno ascoltava Adelina Patti!
Anche qui la storia è la stessa, ma la qualità dei prodotti legata ai mala tempora currentes
Cara Edit,
lei conosce le orchestre tedesche? E quindi avrebbe il coraggio di dire che le masse di Parma potrebbero reggere il confronto con le nostre di Stoccarda, per dire? Tanto perchè lei lo sappia, qui i musicisti lavorano 40 ore a settimana e il teatro esegue 250 rappresentazioni all´anno.
Si informi cara e venga a fare un giro da queste parti…magari vi fate un´altra idea sul concetto stesso di orchestra.
salve.
da dipendente di una Fondazione Lirica Italiana, posso solo dire che mi spiace sentire colleghi esibirsi non al meglio ( per usare un eufemismo) come è successo a Parma per le due opere che abbiamo potuto seguire in streaming su Internet.
Possiamo stare qui a discutere pro o contro per ore, ma .. cara signora Edit50…. da quando in qua a PArma si lavora 42 ore a settimana? sono in straordinario perenne quindi… PERCHè fONDAZIONE O NO… IL CONTRTATTO NAZIONALE VALE PER TUTTI O SBAGLIO? O io "fondo" un teatro o un festival e melo gestisco come mi pare e faccio lavorare le masse 60 ore a settimana…che discorso è questo? la verità è che l?orchestra del Festival veerdi, è risaputo, non è un orchestra stabile , hanno pochissime prove e spesso devono arrivare alla prima lettura col direttore, avendo studiato ( e non letto) LA PARTE DA SOLI A CASA ALL'ULTIMO MINUTO. Quindi io non crocifiggerei i professori d'orchestra, ma chi li fa lavorare così, per risparmiare e pagarli poco e chi chiama direttori palesemente non all'altezza del compito!
Passo e chiudo.
Maometto II
Cari amici, non intendevo assolutamente ferire la grande responsabilità dei professori a 28 ore la settimana…sta di fatto che a Parma si fanno contratti di lavoro autonomo, redatti secondo le leggi italiane vigenti,e non del vecchio ducato, con scritte sei ore al giorno, che per sette fanno 42. Saranno instabili, però alla settimana il direttore d'orchestra li ha a disposizione 16 ore in più degli stabili. L'orchestra instabile di Parma è impegnata spesso anche all'estero. Negli sei sette mesi di lavoro all'anno, pare che faccia le stesse recite liriche dell'orchestra di Bologna, che è appunto stabile, almeno a leggere i dati diffusi a Parma. Quel contratto nazionale citato riguarda credo non più di 1.500 persone in un paese di 60 milioni di abitanti, cioè i dipendenti degli Enti Lirici.
Parma non è ente lirico e ha realtà di lavoro differente, in quanto a produttività sicuramente in stile europeo, se a Stoccada ne fanno 40 di ore la settimana. Dato che è possibile seguire l'orchestra di Parma in streaming ognuno è libero di trarre le proprie valutazioni critiche, posto che il diploma di conservatorio è lo stesso per tutti ed i mille posti stabili italiani non assorbono certamente tutto il meglio dei musicisti italiani. Tanti di noi appassionati frequentiamo i Festival e ascoltiamo fior di musicisti. Li si giudica più o meno bravi certamente non a seconda del loro contratto di lavoro.
slave… esimia Edit, nessuno la sta accusando di nulla, ma… le 6 ore al giorno le abbiamo tutti in contratto. Per esempio, io, artista del coro, ho un contratto che prevede 6 ore giornaliere per 6 giorni la settimana. ma, se lei fosse meglio informata, le 6 ore sono convenzionali, questo per lgi artisti del coro. Per ciò che riguarda l'orchestra, le ore giornaliere previste dal contratto sono maggiori,. ma, mia cara signora, è obbligatorio un giorno di riposo settimanale, che per esigenze di programmazione può essere anticipato di un giorno rispetto al consueto, oppure posticipato, ma ci sono precise limitazioni anche in questo e comunque 6 x6 fa 36 e non 42! non si prova ogni giorno e se c'è recita si contano le ore dello spettacolo…. ma va beh poi qui si entra in un terreno minato e ci vorrebbe un sindacalista come minimo per confutare. Io mi limito a riportare i fatti… ma mi creda… 6 ore di prove al giorno effettive , a meno che non siano sotto un "negriero" armato di frusta sarà proprio difficile che le facciano. Come ho già scritto precedentemente, qui non si discute per quante ore privino, ma la resa che sia in Trovatore che ne I Vespri è stat sotto, molto al disotto delle aspettative. e Ribadisco che le responsabilità maggiori sono dei direttori. e poi. mi scusi, il fatto che vadano all'estero che significa? che le Fondazioni che non vanno in tournèe siano pooco professionali? me la spieghi èer favore, mille grazie. e buona serata
Grazie Maometto, il fatto è che i musicisti del Regio sono pagati a prestazione giornaliera effettuata e non a riposi, che vi possono essere o non essere a seconda della programmazione del Teatro, non nel corso del Festival Verdi… Ma non voglio polemizzare nè giustificare rese artistiche inferiori alle aspettative:il riferimento alle tournèe all'estero era solo per rilevare che l'attività della Orchestra del Regio deve poter contare su attuazioni fuori casa per arrivare almeno ai sei sette mesi di attività all'anno, non godendo il Regio delle risorse per poter produrre tutto l'anno. E per una orchestra la continuità è essenziale per crescere artisticamente. Grazie e buona serata a tutti