La stagione del Circuito Lombardo si è aperta a Cremona con il capolavoro di Luigi Cherubini: Medea. Già l’argomento è stato ampiamente trattato in due articoli dedicati al 150° anniversario della nascita del compositore fiorentino – sostanzialmente ignorato dalle istituzioni musicali più prestigiose – così come la genesi dell’opera e la sua storia esecutiva: rimando, perciò, ad esse, unitamente alle interessanti discussioni conseguite, per un’introduzione più sistematica. Mi soffermo, qui, sullo spettacolo presentato al Teatro Ponchielli. Ma prima di dar conto dell’esecuzione, mi preme svolgere un paio di considerazioni preliminari. Innanzitutto vorrei cogliere l’occasione di rispondere a chi – all’indomani dello sciagurato Poliuto bergamasco (criticato dal nostro Corriere e sgradito a larga parte del pubblico presente in sala) – ci ha accusato di essere degli ingenui o degli illusi: come a dire che non ci si doveva aspettare tanto di più da un teatro di provincia; per cui l’indecente Paolina della Marrocu, le difficoltà di Kunde, la piattezza orchestrale e direttoriale, nonché il pretenzioso dilettantismo dell’allestimento, avrebbero dovuto essere accolti non solo con indulgenza, ma anche con gratitudine.
In fondo si stava a Bergamo e non certo in taluni dei “templi” dell’opera europea (quelli che produrrebbero “vera cultura” e non la nostra “italietta” da retroguardia). Come se noi – e con noi molti degli spettatori – credessero di ascoltare i Wiener, magari diretti da Abbado, o pretendesse nuove Callas o redivivi Corelli! Occasione gradita, dunque, è quella di raccontare uno spettacolo di provincia, onesto e dignitoso, rispettoso del pubblico e delle ragioni dell’arte (e non, come pare accadere con la Fondazione Donizetti, “prendere in giro” entrambi). Già, perché aldilà delle polemiche strumentali alla dimostrazione di chissà quali teoremi (taluni ci raffigurano come caricature livorose di melomani da anni ’50), la riuscita o meno di uno spettacolo non può e non deve basarsi sui nomi messi sulla carta, né sul teatro dove viene allestito: bensì sull’onestà e l’impegno profuso dagli artisti, tenuto conto, ovviamente, delle difficoltà contingenti. Questo abbiam sempre fatto e, con buona pace di chi critica, faremo sempre: giudicare senza preconcetti e senza chiedere più di quanto ci può essere offerto! Ovviamente, però, pretendendo quel minimo di decenza e di impegno che anche la provincia può e deve garantire. In tal senso il confronto tra il Poliuto bergamasco e la Medea cremonese è emblematico. L’opera di Cherubini presenta grandissime difficoltà esecutive: oltre all’impegno richiesto ai cantanti (per due dei quali particolarmente gravoso), coro e orchestra vengono sollecitati in modo assai inconsueto rispetto alla maggior parte delle opere del repertorio italiano (che costituisce l’asse portante del nostro sistema teatrale). Si è parlato abbondantemente dell’estrema raffinatezza compositiva di Cherubini, dell’altissima elaborazione sinfonica di una partitura che, ammirata dai più grandi compositori della sua epoca e di quella appena successiva, potrebbe benissimo essere firmata da Beethoven, così come del tour de force in cui è impegnata la protagonista (parte lunga, faticosa, ingrata e di grandissima intensità drammatica e vocale). Ascoltare come tutto ciò sia ben gestito, con la consapevolezza dei mezzi a disposizione – senza scollamenti, senza errori grossolani e con grande impegno e concentrazione (a cui ha fatto riscontro una buonissima resa artistica) – da un’orchestra attentissima, precisa e consapevole del proprio dovere (assai più che volenterosa) e da un direttore attento e capace, merita già un plauso riconoscente. Se poi un esito del genere – che ha, per certi versi, del miracoloso – viene paragonato alla piattezza e agli svarioni che un’orchestra molto più ricca di fondi e con ben diverse pretese, come quella di Bergamo, ha profuso nel compitare le quattro note e gli innocui accompagnamenti previsti da Donizetti, allora qualche domanda circa il modo in cui vengono spesi i denari pubblici, viene da farsela. Verrebbe anche da confrontare l’orribile prova scaligera fornita per l’elementare farsa rossiniana (errori, scrocchi, scollamenti di ogni genere…), ma si rischierebbe di andare fuori tema. Questo vuol dire che non bisogna essere i Wiener per suonare bene, né che si deve essere una superstar che bazzica i teatri londinesi o austroungarici per meritare applausi. Vuol dire, anche, che l’impegno e la buona volontà – uniti a professionalità e rispetto per il pubblico – possono ben supplire a carenze di fondi e di prove. Ma, bando alle polemiche, torniamo allo spettacolo cremonese. Spettacolo nel complesso riuscito e giustamente premiato dagli applausi del pubblico (purtroppo non numerosissimo). Un merito particolare che va riconosciuto all’impegno profuso nell’allestire un’opera di raro ascolto, anche se splendida, e che pure i teatri più blasonati (con incomparabile superiorità di mezzi) faticano a programmare. Premetto di non voler assolutamente parlare della Callas e del suo mito – che saggiamente a Cremona non si è cercato di scimiottare – anche perché sono passati 50 anni, e, nel frattempo, è cambiato tutto nell’eseguire quel repertorio, che ora si affronta con maggior aderenza stilistica e certezza delle fonti. L’opera è presentata nella sua versione italiana (con i recitativi di Lachner), ma secondo l’edizione rivista sui manoscritti originali, approntata del 1976 da Flavio Testi per Ricordi: versione dunque attendibile filologicamente, presentata nella sua forma integrale (le versioni della Callas – soprattutto quella registrata in studio con Serafin – erano invece massacrate da tagli). Questo complica naturalmente le cose e comporta non solo un maggior impegno per la protagonista, ma anche per gli altri personaggi (in particolare Glauce e Giasone). Il direttore, Antonio Pirolli, mostra ottima conoscenza della partitura, che affronta con gesto sicuro e preciso, sottolineandone ogni raffinatezza e sfumatura (in ciò ottimamente seguito da un’orchestra attenta e precisa, e che supera con onore gli scogli di una scrittura sinfonica ed elaboratissima: molto ben eseguiti anche gli episodi concertanti tra cui lo splendido assolo di fagotto nell’aria di Neris). Buono il coro (molto sollecitato nell’opera, in ossequio allo stile francese) efficace nel rendere la grandiosità di certi episodi. Molto affiatata la compagnia di canto, impegnatissima nell’offrire di Medea un’esecuzione coerente allo stile neoclassico che la impernia: quindi nessun suonaccio, nessuna sbracatura, nessun eccesso veristeggiante. Eppure nulla viene tolto alla tensione drammatica e alla concentrazione: a dimostrazione che non è affatto necessario lasciarsi andare a volgari effettacci per rendere la tragedia di Medea. Ovviamente non tutto è perfetto e se si dovesse usare il bulino si potrebbero muovere molte critiche: ma non avrebbe grande senso e sarebbe esercizio di scarso pregio intellettuale (soprattutto se confrontato con prove recenti di realtà ben più blasonate e assai meno riuscite). E dunque: autorevole il Creonte di Luca Tittoto nel dosare il calore paterno e la durezza del sovrano, la linea vocale è morbida ed equilibrata, l’emissione controllata ed elegante, con solo alcune difficoltà in taluni estremi acuti. Buona la Glauce di Eleonora Buratto: voce fresca, abbastanza agile e precisa nella difficile coloratura (la parte è integrale – a differenza delle esecuzioni storiche, ove era ridotta a poco più di una comprimaria – e presenta notevolissime difficoltà, essendo il ruolo più spiccatamente belcantista dell’opera). Più problematico Lorenzo Decaro, nel ruolo di Giasone: voce corposa e dalle tinte brunite nei centri, sicura e sonora, ma che tende a chiudersi salendo. Gli acuti – pur restando intonati e fermi – soffrono un certo ingolamento, e rivelano un po’ di fatica. Una prova tuttavia convincente, soprattutto nell’evitare certi facili effettacci: l’interprete è misurato e non si trasforma in una specie di Canio ante litteram. E neppure segue la sciagurata lezione di Vickers, Giasone immeritatamente considerato storico da taluni. La Neris di Alessandra Palomba è corretta: la splendida aria dell’atto II è ben compitata (con diligenza ed eleganza), ma è fredda e poco partecipata. Una piacevole sorpresa Maria Billeri: anche perchè l’ascolto di alcuni frammenti di una sua Norma mi aveva lasciato abbastanza perplesso. Medea, invece, appare molto più adatta alla sua vocalità. Linea di canto sicura e corposissima, dal volume impressionante (ma ben controllato) e dagli acuti sicuri e facili (forse esibiti, talvolta, con troppa veemenza). La parte è ingrata, inutile ribadirlo, nel suo continuo alternarsi tra declamati drammatici e squarci cantabili: richiede un centro resistente e robusto, capace di reggere, però, le frequenti ed estemporanee scalate nelle parti più alte della tessitura, che non devono mai essere risolte in grida sguaiate! La Billeri mantiene un encomiabile controllo nell’acuto, sempre fermo e intonato, ma mai fisso (buono l’uso delle mezze voci e delle smorzature per colorare la frase e dare senso drammatico agli sbalzi d’umore e alla furia di Medea: senza ricorrere all’armamentario verista). A ciò si aggiunga la padronanza dell’accento tragico e la saggia scelta di non imitare la Callas, neppure nella gestualità. Credo che il repertorio più congeniale alla cantante sia proprio questo e non certo il belcanto (le poche figurazioni di coloratura che talora arricchiscono anche il ruolo di Medea, risolte con una certa macchinosità e difficoltà, lo dimostrano appieno). La parte, poi, è lunga e richiede grande resistenza (la Callas riteneva “assassina” la parte), che la Billeri dimostra di avere, arrivando al termine senza alcun debito vocale. Al termine ovazione più che meritata. Tuttavia, il maggior merito, va, a mio giudizio, attribuito al direttore d’orchestra, che ha saputo valorizzare il materiale di cui disponeva, cavando il meglio da ciascuno e mettendone in secondo piano i difetti, ed evitando di trasformare l’opera in un campionario di brutture e volgarità (come il Poliuto bergamasco). Un ultimo accenno all’allestimento. Il regista Carmelo Rifici (già assistente di Ronconi e con un curriculum di tutto rispetto) decide di spostare l’azione nel periodo di composizione dell’opera (evitando così la romanità di cartapesta che si rischia sempre in titoli del genere, e l’attualizzazione fine a sé stessa). Un’epoca napoleonica sui generis in cui la forza della ragione vuole ristabilire regole e leggi dopo i furori rivoluzionari. Ordine contro disordine. Ambientata in una sala di un museo, dove i quadri che raffigurano i miti prendono vita, le forze dell’irrazionale (personificate da Medea) non accettano il nuovo ordine. Il tutto è risolto con grande eleganza ed attenzione al dato pittorico – evidente il richiamo all’iconografia di David (molto belli i costumi) – e alla gestualità (emozionanti l’ingresso del vello d’oro, il finale II e la fine dell’opera). Pur nell’obbiettiva ristrettezza di mezzi (penso al guazzabuglio maldestro del Poliuto bergamasco)! Non il solito concerto in costume, dunque, mascherato da avanguardia e costellato da provocazioni gratuite e poco coerenti con la musica. Insomma uno spettacolo da vedere e che – in questo periodo di vacche magre – è una boccata di aria pura! Senza pretese di assoluta eccellenza, ma rivelatore di quella professionalità e quell’impegno che oggi latitano ovunque…e di cui vi sarebbe bisogno più che mai!
In fondo si stava a Bergamo e non certo in taluni dei “templi” dell’opera europea (quelli che produrrebbero “vera cultura” e non la nostra “italietta” da retroguardia). Come se noi – e con noi molti degli spettatori – credessero di ascoltare i Wiener, magari diretti da Abbado, o pretendesse nuove Callas o redivivi Corelli! Occasione gradita, dunque, è quella di raccontare uno spettacolo di provincia, onesto e dignitoso, rispettoso del pubblico e delle ragioni dell’arte (e non, come pare accadere con la Fondazione Donizetti, “prendere in giro” entrambi). Già, perché aldilà delle polemiche strumentali alla dimostrazione di chissà quali teoremi (taluni ci raffigurano come caricature livorose di melomani da anni ’50), la riuscita o meno di uno spettacolo non può e non deve basarsi sui nomi messi sulla carta, né sul teatro dove viene allestito: bensì sull’onestà e l’impegno profuso dagli artisti, tenuto conto, ovviamente, delle difficoltà contingenti. Questo abbiam sempre fatto e, con buona pace di chi critica, faremo sempre: giudicare senza preconcetti e senza chiedere più di quanto ci può essere offerto! Ovviamente, però, pretendendo quel minimo di decenza e di impegno che anche la provincia può e deve garantire. In tal senso il confronto tra il Poliuto bergamasco e la Medea cremonese è emblematico. L’opera di Cherubini presenta grandissime difficoltà esecutive: oltre all’impegno richiesto ai cantanti (per due dei quali particolarmente gravoso), coro e orchestra vengono sollecitati in modo assai inconsueto rispetto alla maggior parte delle opere del repertorio italiano (che costituisce l’asse portante del nostro sistema teatrale). Si è parlato abbondantemente dell’estrema raffinatezza compositiva di Cherubini, dell’altissima elaborazione sinfonica di una partitura che, ammirata dai più grandi compositori della sua epoca e di quella appena successiva, potrebbe benissimo essere firmata da Beethoven, così come del tour de force in cui è impegnata la protagonista (parte lunga, faticosa, ingrata e di grandissima intensità drammatica e vocale). Ascoltare come tutto ciò sia ben gestito, con la consapevolezza dei mezzi a disposizione – senza scollamenti, senza errori grossolani e con grande impegno e concentrazione (a cui ha fatto riscontro una buonissima resa artistica) – da un’orchestra attentissima, precisa e consapevole del proprio dovere (assai più che volenterosa) e da un direttore attento e capace, merita già un plauso riconoscente. Se poi un esito del genere – che ha, per certi versi, del miracoloso – viene paragonato alla piattezza e agli svarioni che un’orchestra molto più ricca di fondi e con ben diverse pretese, come quella di Bergamo, ha profuso nel compitare le quattro note e gli innocui accompagnamenti previsti da Donizetti, allora qualche domanda circa il modo in cui vengono spesi i denari pubblici, viene da farsela. Verrebbe anche da confrontare l’orribile prova scaligera fornita per l’elementare farsa rossiniana (errori, scrocchi, scollamenti di ogni genere…), ma si rischierebbe di andare fuori tema. Questo vuol dire che non bisogna essere i Wiener per suonare bene, né che si deve essere una superstar che bazzica i teatri londinesi o austroungarici per meritare applausi. Vuol dire, anche, che l’impegno e la buona volontà – uniti a professionalità e rispetto per il pubblico – possono ben supplire a carenze di fondi e di prove. Ma, bando alle polemiche, torniamo allo spettacolo cremonese. Spettacolo nel complesso riuscito e giustamente premiato dagli applausi del pubblico (purtroppo non numerosissimo). Un merito particolare che va riconosciuto all’impegno profuso nell’allestire un’opera di raro ascolto, anche se splendida, e che pure i teatri più blasonati (con incomparabile superiorità di mezzi) faticano a programmare. Premetto di non voler assolutamente parlare della Callas e del suo mito – che saggiamente a Cremona non si è cercato di scimiottare – anche perché sono passati 50 anni, e, nel frattempo, è cambiato tutto nell’eseguire quel repertorio, che ora si affronta con maggior aderenza stilistica e certezza delle fonti. L’opera è presentata nella sua versione italiana (con i recitativi di Lachner), ma secondo l’edizione rivista sui manoscritti originali, approntata del 1976 da Flavio Testi per Ricordi: versione dunque attendibile filologicamente, presentata nella sua forma integrale (le versioni della Callas – soprattutto quella registrata in studio con Serafin – erano invece massacrate da tagli). Questo complica naturalmente le cose e comporta non solo un maggior impegno per la protagonista, ma anche per gli altri personaggi (in particolare Glauce e Giasone). Il direttore, Antonio Pirolli, mostra ottima conoscenza della partitura, che affronta con gesto sicuro e preciso, sottolineandone ogni raffinatezza e sfumatura (in ciò ottimamente seguito da un’orchestra attenta e precisa, e che supera con onore gli scogli di una scrittura sinfonica ed elaboratissima: molto ben eseguiti anche gli episodi concertanti tra cui lo splendido assolo di fagotto nell’aria di Neris). Buono il coro (molto sollecitato nell’opera, in ossequio allo stile francese) efficace nel rendere la grandiosità di certi episodi. Molto affiatata la compagnia di canto, impegnatissima nell’offrire di Medea un’esecuzione coerente allo stile neoclassico che la impernia: quindi nessun suonaccio, nessuna sbracatura, nessun eccesso veristeggiante. Eppure nulla viene tolto alla tensione drammatica e alla concentrazione: a dimostrazione che non è affatto necessario lasciarsi andare a volgari effettacci per rendere la tragedia di Medea. Ovviamente non tutto è perfetto e se si dovesse usare il bulino si potrebbero muovere molte critiche: ma non avrebbe grande senso e sarebbe esercizio di scarso pregio intellettuale (soprattutto se confrontato con prove recenti di realtà ben più blasonate e assai meno riuscite). E dunque: autorevole il Creonte di Luca Tittoto nel dosare il calore paterno e la durezza del sovrano, la linea vocale è morbida ed equilibrata, l’emissione controllata ed elegante, con solo alcune difficoltà in taluni estremi acuti. Buona la Glauce di Eleonora Buratto: voce fresca, abbastanza agile e precisa nella difficile coloratura (la parte è integrale – a differenza delle esecuzioni storiche, ove era ridotta a poco più di una comprimaria – e presenta notevolissime difficoltà, essendo il ruolo più spiccatamente belcantista dell’opera). Più problematico Lorenzo Decaro, nel ruolo di Giasone: voce corposa e dalle tinte brunite nei centri, sicura e sonora, ma che tende a chiudersi salendo. Gli acuti – pur restando intonati e fermi – soffrono un certo ingolamento, e rivelano un po’ di fatica. Una prova tuttavia convincente, soprattutto nell’evitare certi facili effettacci: l’interprete è misurato e non si trasforma in una specie di Canio ante litteram. E neppure segue la sciagurata lezione di Vickers, Giasone immeritatamente considerato storico da taluni. La Neris di Alessandra Palomba è corretta: la splendida aria dell’atto II è ben compitata (con diligenza ed eleganza), ma è fredda e poco partecipata. Una piacevole sorpresa Maria Billeri: anche perchè l’ascolto di alcuni frammenti di una sua Norma mi aveva lasciato abbastanza perplesso. Medea, invece, appare molto più adatta alla sua vocalità. Linea di canto sicura e corposissima, dal volume impressionante (ma ben controllato) e dagli acuti sicuri e facili (forse esibiti, talvolta, con troppa veemenza). La parte è ingrata, inutile ribadirlo, nel suo continuo alternarsi tra declamati drammatici e squarci cantabili: richiede un centro resistente e robusto, capace di reggere, però, le frequenti ed estemporanee scalate nelle parti più alte della tessitura, che non devono mai essere risolte in grida sguaiate! La Billeri mantiene un encomiabile controllo nell’acuto, sempre fermo e intonato, ma mai fisso (buono l’uso delle mezze voci e delle smorzature per colorare la frase e dare senso drammatico agli sbalzi d’umore e alla furia di Medea: senza ricorrere all’armamentario verista). A ciò si aggiunga la padronanza dell’accento tragico e la saggia scelta di non imitare la Callas, neppure nella gestualità. Credo che il repertorio più congeniale alla cantante sia proprio questo e non certo il belcanto (le poche figurazioni di coloratura che talora arricchiscono anche il ruolo di Medea, risolte con una certa macchinosità e difficoltà, lo dimostrano appieno). La parte, poi, è lunga e richiede grande resistenza (la Callas riteneva “assassina” la parte), che la Billeri dimostra di avere, arrivando al termine senza alcun debito vocale. Al termine ovazione più che meritata. Tuttavia, il maggior merito, va, a mio giudizio, attribuito al direttore d’orchestra, che ha saputo valorizzare il materiale di cui disponeva, cavando il meglio da ciascuno e mettendone in secondo piano i difetti, ed evitando di trasformare l’opera in un campionario di brutture e volgarità (come il Poliuto bergamasco). Un ultimo accenno all’allestimento. Il regista Carmelo Rifici (già assistente di Ronconi e con un curriculum di tutto rispetto) decide di spostare l’azione nel periodo di composizione dell’opera (evitando così la romanità di cartapesta che si rischia sempre in titoli del genere, e l’attualizzazione fine a sé stessa). Un’epoca napoleonica sui generis in cui la forza della ragione vuole ristabilire regole e leggi dopo i furori rivoluzionari. Ordine contro disordine. Ambientata in una sala di un museo, dove i quadri che raffigurano i miti prendono vita, le forze dell’irrazionale (personificate da Medea) non accettano il nuovo ordine. Il tutto è risolto con grande eleganza ed attenzione al dato pittorico – evidente il richiamo all’iconografia di David (molto belli i costumi) – e alla gestualità (emozionanti l’ingresso del vello d’oro, il finale II e la fine dell’opera). Pur nell’obbiettiva ristrettezza di mezzi (penso al guazzabuglio maldestro del Poliuto bergamasco)! Non il solito concerto in costume, dunque, mascherato da avanguardia e costellato da provocazioni gratuite e poco coerenti con la musica. Insomma uno spettacolo da vedere e che – in questo periodo di vacche magre – è una boccata di aria pura! Senza pretese di assoluta eccellenza, ma rivelatore di quella professionalità e quell’impegno che oggi latitano ovunque…e di cui vi sarebbe bisogno più che mai!
Sono tornato dalla rappresentazione che ha avuto luogo al Teatro Grande di Brescia. Ho asistito a un spetaccolo di assai alto livello. Si sentiva e vedeva che eravamo davanti a un buonissimo "team work". Giasone, Glauce e Neris avevano dei grandi problemi nella gestione delle loro voci, ma invece Billeri mi è molto piacuta, anche con tutti quelli difetti che ha enumerato il caro Duprez. Se sapeva meglio sostenere il suo mezzo straordinario con una migliore tecnica… Un grandissimo bravo alla bella e coerente regia "classicista", al coro e all'orchestra. Piena di energia e pathos, misurata e equillibrata la lettura della partitura dalla parte del direttore. Buona l'ouverture, lacerante l'introduzione al terzo atto e una perfetta misura tra presenza e "discrezione" dell'orchestra narrante durante del intero spetaccolo. Mai un solista o il coro o un strumento fuori tempo.
Sono contento. Spero che Billeri continuera in questo repertorio. Ha una voce di straordinaria potenza, impressionante l'accento dramatico. E' un'artista che vuole dare tutto che ha e che da tutto. Ma dovrebbe aggiustare i diffetti che si sentono nella sua voce – fissità nel centro, manca di sostegno negli estremi acuti, benche potrebbe risuonare anche li con grandissima forza se poteva dare un miglior appoggio alla voce. Una bella sorpresa dopo i deludenti ascolti su youtube in un repertorio che è veramente completamente sbagliato. La voce c'è, sicuramente anche per un ruolo come la Norma, ma la tecnica ageduata manca.
Mi fa piacere che tu abbia apprezzato lo spettacolo: certo diversi difetti sono riscontrabili, e ciascun interprete deve sistemare qualcosa, ma…ma nel complesso tutto funziona, tutto è ben fatto e, SOPRATTUTTO, è fatto con professionalità e impegno!