È grande, davvero grande e degno di lode il professionismo di Mariella Devia, che a sessantadue anni suonati si toglie lo sfizio di riproporre al pubblico italiano la sua Traviata. In un mondo di cantanti perennemente indisposti, a volte persino a loro insaputa (non si spiegano altrimenti taluni comunicati ufficiali, che giungono quando la serata è ormai conclusa, ovvero diramati nei giorni successivi alla recita da fonti ufficiose, ma amiche e latinamente familiari), il soprano ligure affronta uno dei titoli da vertigine del repertorio ottocentesco senza un attimo di esitazione, senza farsi distrarre dagli improvvidi compagni di avventura (e non deve essere stata impresa facile), senza sottrarsi alle richieste fisicamente onerose di una regia che prevede un brindisi da intonarsi in piedi su un tavolino (con tanto di lancio di scarpe stile Callas) e un terzo atto ambientato in una camera da letto priva di letto, canapè e ogni altro arredo.
Purtroppo, non sempre il professionismo basta a risolvere una serata. Specie se il professionismo in questione non trova in orchestra un adeguato sostegno.
All’entrata la Devia mette in luce il suo tallone d’Achille, un registro basso che risulta poco sonoro e ovattato persino nella sala, acusticamente assai propizia, del Comunale. Le scene di conversazione al primo atto scorrono prive di mordente, mentre il brindisi vede la signora fraseggiare con maggiore varietà, sebbene al centro la voce accusi ben più che un principio di senescenza e, nei momenti in cui la cantante canta sul mezzoforte, risulti decisamente forzata. Il duetto con il tenore, staccato dal direttore a tempo letargico (scelta che è una delle costanti di questa Traviata), scorre senza particolari sussulti, mentre il finale primo, eseguito senza tagli di sorta, si segnala soprattutto per la lunghezza dei fiati nel cantabile, lunghezza che consente alla Devia di inanellare le frasi musicali quasi senza soluzione di continuità. Un numero da autentica virtuosa, cui però non fa riscontro un’analoga disinvoltura nel legare centro e acuti (penso alla salita al la bemolle di “solinga ne’ tumulti”, che a ogni enunciazione, salvo la terza, è risolta con suoni non sempre saldissimi). Salvo un piccolo trasporto all’acuto nella seconda strofa del cantabile, l’intera scena, cadenze comprese, è eseguita “come scritto”: una scelta francamente incomprensibile per un soprano assoluto, quale è la signora Devia, che potrebbe solo trarre giovamento da puntature, riscritture e trasporti, in un ruolo come quello di Violetta, massime in una scena che ha sempre visto brillare i soprani di coloratura (i tanto sbertucciati – oggi – usignoli) per numero e varietà di interpolazioni. Naturalmente servirebbe un direttore in grado di consigliare la cantante e, nel caso, dissuaderla dal proporre entrambe le strofe di “Ah fors’è lui” (ma il discorso vale, mutatis mutandis, per l’”Addio del passato”), se la seconda strofa deve risultare identica alla prima, senza una variazione o un colore a differenziare le due enunciazioni delle medesime frasi musicali. La tradizionale puntatura al mi bemolle sovracuto in chiusa è mantenuta e risolta con un suono penetrante ma d’intonazione non immacolata.
Al duetto con Germont padre la Devia risulta fioca e poco incisiva nel “Non sapete quale affetto” (anche qui un tempo più mosso in orchestra le avrebbe sicuramente giovato), più sicura e sonora nel “Così alla misera”, malgrado il centro suoni ancora tendenzialmente chioccio, mentre la cantante monta in cattedra ed è formidabile nella perorazione “Dite alla giovine”, risolta tutta in pianissimo, con un legato di tenuta impressionante, anche in considerazione dell’età. Viene da chiedersi perché la Devia non applichi la medesima strategia nel corso dell’intera opera e non moderi, come fa invece in questo passaggio, il volume nel tentativo di occultare, per quanto possibile, la non più intatta freschezza timbrica. Paura di essere considerata gelida e inespressiva?
Puntualmente all’”Amami Alfredo”, staccato, manco a dirlo, a un tempo catatonico, si ripresentano suoni duri e spinti al centro. Per reggere una simile agogica e dinamica orchestrale, occorrerebbe una voce di diversa consistenza e altra malia timbrica, oltre che una maggiore dimestichezza con il fraseggio in un repertorio diverso da quello belcantista, autentico terreno di elezione della Devia. La passione e la disperazione di Violetta, sembra inutile ricordare, non solo quelle di Elvira o di Lucia.
La scena della festa di Flora vedono la cantante un poco meno in affanno, complice i tempi più rapidi adottati da Mariotti, sebbene per le grandi frasi “Ah perché venni incauta” valgano le considerazioni esposte per l’arioso del quadro precedente. Di nuovo grande tenuta dei fiati e maggiore sonorità, pur con qualche suono spinto, alla chiusa del secondo atto, in cui finalmente sentiamo una Violetta in grado di “tirare” il concertato e di non farsi sommergere dall’orchestra, qui opportunamente tenuta a freno (almeno sino ai fragorosi accordi conclusivi).
Nel terzo atto la Devia ha declamato con enfasi un poco grottesca la lettera, ha legato i suoni con minore facilità rispetto agli atti precedenti, brillando nel “Parigi o cara” soprattutto per la qualità della mezzavoce (e il confronto con l’Alfredo di turno le ha sicuramente giovato). Anche qui, e più che negli atti precedenti, si sono avvertiti, oltre alla naturale stanchezza, i limiti della belcantista alle prese con un ruolo agli antipodi rispetto al proprio repertorio abituale. E non è solo questione di tessitura, ma di colori e di fraseggio.
Intendiamoci bene: quella della Devia è una signora prestazione, non solo in rapporto al deprimente presente, ma in senso assoluto. È il frutto, l’ennesimo, di una cantante che non solo si prepara con scrupolo, ma padroneggia gli strumenti del canto professionale e conosce le proprie potenzialità. A differenza di certi sostenitori fanatici, magari dell’ultima ora o quasi, e malgrado annunci di futuri debutti, che speriamo rimangano sulla carta. E lo speriamo in primo luogo per la Devia, perché nulla è più imbarazzante, per un grande cantante, del barcamenarsi in un ruolo troppo gravoso o troppo distante dalla sua vocalità.
Sebbene l’etichetta della Scuola dell’Opera Italiana, diletta alla gestione Tutino, accompagni anche questa produzione bolognese, i due Germont sono cantanti in piena carriera e per giunta di grandi mezzi naturali (la voce del tenore è bella anche sotto il profilo timbrico). A differenza della protagonista, però, entrambi praticano un canto a dir poco brado e i risultati sono costernanti. Il tenore Fernando Portari ha cantato per l’intera serata fra naso e gola, singhiozzando a ogni tentativo di smorzatura e riducendo la mezzavoce a un sistematico falsettino. Un poco meglio Stefano Antonucci, che ha esibito voce legnosa e qualche slittamento d’intonazione sugli acuti, ma anche un gusto un poco più sorvegliato rispetto al rampollo scenico. Di totale e condivisibile saggezza la scelta di omettere, per questo claudicante Germont père, la cabaletta dell’aria.
Nel folto stuolo di comprimari (questi sì, accademici) ha brillato il Grenvil di Masashi Mori, voce ampia e sonora che riascolteremmo volentieri in ruoli più impegnativi.
Della direzione di Mariotti abbiamo in sostanza già detto, aggiungendo che i principi alla base di questa lettura (suono terso, tempi dilatati, contenimento del volume orchestrale) hanno conferito alla musica un tono a dir poco soporifero (particolarmente nel preludio al terzo atto), smentito solo dal quadro della festa di Flora, in cui la direzione è parsa ingranare un’altra marcia (con l’eccezione di un’entrata delle zingarelle, che evocava un gruppo di signore bene in visita alla presidentessa del circolo letterario di quartiere).
La regia di Antoniozzi (ovviamente, un nuovo allestimento) vede la solita trasposizione del dramma negli anni Sessanta, con un ricevimento in casa di Violetta che richiama quello in apertura del film “Signore & Signori”, una festa di Flora in cui la proiezione di filmati alla “Sangue e arena” vorrebbe mascherare in qualche modo l’immobilità del coro (a tratti sembra di assistere a un concerto in abiti di scena) e un terzo atto che, con la sua scena vuota e la trovata di una controfigura di Violetta, che rimane accasciata a terra, evoca quei teatrini off che offrivano una sorta di parodia involontaria degli spettacoli del Living Theater. Anche qui, rose e fiori rispetto ad altre Traviate (nonché al Don Pasquale accademico dello scorso anno), tuttavia ci domandiamo se non sarebbe stato meglio, per risparmiare qualche spicciolo, riprendere lo spettacolo di Irina Brook, proposto sempre a Bologna non più tardi di cinque anni fa.
Purtroppo, non sempre il professionismo basta a risolvere una serata. Specie se il professionismo in questione non trova in orchestra un adeguato sostegno.
All’entrata la Devia mette in luce il suo tallone d’Achille, un registro basso che risulta poco sonoro e ovattato persino nella sala, acusticamente assai propizia, del Comunale. Le scene di conversazione al primo atto scorrono prive di mordente, mentre il brindisi vede la signora fraseggiare con maggiore varietà, sebbene al centro la voce accusi ben più che un principio di senescenza e, nei momenti in cui la cantante canta sul mezzoforte, risulti decisamente forzata. Il duetto con il tenore, staccato dal direttore a tempo letargico (scelta che è una delle costanti di questa Traviata), scorre senza particolari sussulti, mentre il finale primo, eseguito senza tagli di sorta, si segnala soprattutto per la lunghezza dei fiati nel cantabile, lunghezza che consente alla Devia di inanellare le frasi musicali quasi senza soluzione di continuità. Un numero da autentica virtuosa, cui però non fa riscontro un’analoga disinvoltura nel legare centro e acuti (penso alla salita al la bemolle di “solinga ne’ tumulti”, che a ogni enunciazione, salvo la terza, è risolta con suoni non sempre saldissimi). Salvo un piccolo trasporto all’acuto nella seconda strofa del cantabile, l’intera scena, cadenze comprese, è eseguita “come scritto”: una scelta francamente incomprensibile per un soprano assoluto, quale è la signora Devia, che potrebbe solo trarre giovamento da puntature, riscritture e trasporti, in un ruolo come quello di Violetta, massime in una scena che ha sempre visto brillare i soprani di coloratura (i tanto sbertucciati – oggi – usignoli) per numero e varietà di interpolazioni. Naturalmente servirebbe un direttore in grado di consigliare la cantante e, nel caso, dissuaderla dal proporre entrambe le strofe di “Ah fors’è lui” (ma il discorso vale, mutatis mutandis, per l’”Addio del passato”), se la seconda strofa deve risultare identica alla prima, senza una variazione o un colore a differenziare le due enunciazioni delle medesime frasi musicali. La tradizionale puntatura al mi bemolle sovracuto in chiusa è mantenuta e risolta con un suono penetrante ma d’intonazione non immacolata.
Al duetto con Germont padre la Devia risulta fioca e poco incisiva nel “Non sapete quale affetto” (anche qui un tempo più mosso in orchestra le avrebbe sicuramente giovato), più sicura e sonora nel “Così alla misera”, malgrado il centro suoni ancora tendenzialmente chioccio, mentre la cantante monta in cattedra ed è formidabile nella perorazione “Dite alla giovine”, risolta tutta in pianissimo, con un legato di tenuta impressionante, anche in considerazione dell’età. Viene da chiedersi perché la Devia non applichi la medesima strategia nel corso dell’intera opera e non moderi, come fa invece in questo passaggio, il volume nel tentativo di occultare, per quanto possibile, la non più intatta freschezza timbrica. Paura di essere considerata gelida e inespressiva?
Puntualmente all’”Amami Alfredo”, staccato, manco a dirlo, a un tempo catatonico, si ripresentano suoni duri e spinti al centro. Per reggere una simile agogica e dinamica orchestrale, occorrerebbe una voce di diversa consistenza e altra malia timbrica, oltre che una maggiore dimestichezza con il fraseggio in un repertorio diverso da quello belcantista, autentico terreno di elezione della Devia. La passione e la disperazione di Violetta, sembra inutile ricordare, non solo quelle di Elvira o di Lucia.
La scena della festa di Flora vedono la cantante un poco meno in affanno, complice i tempi più rapidi adottati da Mariotti, sebbene per le grandi frasi “Ah perché venni incauta” valgano le considerazioni esposte per l’arioso del quadro precedente. Di nuovo grande tenuta dei fiati e maggiore sonorità, pur con qualche suono spinto, alla chiusa del secondo atto, in cui finalmente sentiamo una Violetta in grado di “tirare” il concertato e di non farsi sommergere dall’orchestra, qui opportunamente tenuta a freno (almeno sino ai fragorosi accordi conclusivi).
Nel terzo atto la Devia ha declamato con enfasi un poco grottesca la lettera, ha legato i suoni con minore facilità rispetto agli atti precedenti, brillando nel “Parigi o cara” soprattutto per la qualità della mezzavoce (e il confronto con l’Alfredo di turno le ha sicuramente giovato). Anche qui, e più che negli atti precedenti, si sono avvertiti, oltre alla naturale stanchezza, i limiti della belcantista alle prese con un ruolo agli antipodi rispetto al proprio repertorio abituale. E non è solo questione di tessitura, ma di colori e di fraseggio.
Intendiamoci bene: quella della Devia è una signora prestazione, non solo in rapporto al deprimente presente, ma in senso assoluto. È il frutto, l’ennesimo, di una cantante che non solo si prepara con scrupolo, ma padroneggia gli strumenti del canto professionale e conosce le proprie potenzialità. A differenza di certi sostenitori fanatici, magari dell’ultima ora o quasi, e malgrado annunci di futuri debutti, che speriamo rimangano sulla carta. E lo speriamo in primo luogo per la Devia, perché nulla è più imbarazzante, per un grande cantante, del barcamenarsi in un ruolo troppo gravoso o troppo distante dalla sua vocalità.
Sebbene l’etichetta della Scuola dell’Opera Italiana, diletta alla gestione Tutino, accompagni anche questa produzione bolognese, i due Germont sono cantanti in piena carriera e per giunta di grandi mezzi naturali (la voce del tenore è bella anche sotto il profilo timbrico). A differenza della protagonista, però, entrambi praticano un canto a dir poco brado e i risultati sono costernanti. Il tenore Fernando Portari ha cantato per l’intera serata fra naso e gola, singhiozzando a ogni tentativo di smorzatura e riducendo la mezzavoce a un sistematico falsettino. Un poco meglio Stefano Antonucci, che ha esibito voce legnosa e qualche slittamento d’intonazione sugli acuti, ma anche un gusto un poco più sorvegliato rispetto al rampollo scenico. Di totale e condivisibile saggezza la scelta di omettere, per questo claudicante Germont père, la cabaletta dell’aria.
Nel folto stuolo di comprimari (questi sì, accademici) ha brillato il Grenvil di Masashi Mori, voce ampia e sonora che riascolteremmo volentieri in ruoli più impegnativi.
Della direzione di Mariotti abbiamo in sostanza già detto, aggiungendo che i principi alla base di questa lettura (suono terso, tempi dilatati, contenimento del volume orchestrale) hanno conferito alla musica un tono a dir poco soporifero (particolarmente nel preludio al terzo atto), smentito solo dal quadro della festa di Flora, in cui la direzione è parsa ingranare un’altra marcia (con l’eccezione di un’entrata delle zingarelle, che evocava un gruppo di signore bene in visita alla presidentessa del circolo letterario di quartiere).
La regia di Antoniozzi (ovviamente, un nuovo allestimento) vede la solita trasposizione del dramma negli anni Sessanta, con un ricevimento in casa di Violetta che richiama quello in apertura del film “Signore & Signori”, una festa di Flora in cui la proiezione di filmati alla “Sangue e arena” vorrebbe mascherare in qualche modo l’immobilità del coro (a tratti sembra di assistere a un concerto in abiti di scena) e un terzo atto che, con la sua scena vuota e la trovata di una controfigura di Violetta, che rimane accasciata a terra, evoca quei teatrini off che offrivano una sorta di parodia involontaria degli spettacoli del Living Theater. Anche qui, rose e fiori rispetto ad altre Traviate (nonché al Don Pasquale accademico dello scorso anno), tuttavia ci domandiamo se non sarebbe stato meglio, per risparmiare qualche spicciolo, riprendere lo spettacolo di Irina Brook, proposto sempre a Bologna non più tardi di cinque anni fa.
Verdi – Traviata
Atto I
E’ strano – Luisa Tetrazzini (1908)
Ero presente alla prima del 12 ottobre e concordo molto con ciò che è stato scritto. Mi pare tuttavia un po' troppo severo il giudizio su direttore e Germont padre: il tempo lungo scelto da Mariotti era palesemente disturbante, fin dalle prime battute dell'ouverture, tuttavia, calato nella voce, ha dato un respiro interpretativo alla Devia che secondo me non aveva mai avuto in precedenza, e la precisione e la tenuta di tutto lo spettacolo mi ha affascinato sul piano intellettuale; di germont padre mi sentirei di apprezzare la buona gestione del timbro (non saprei se è il termine giusto ma nel vecchio genitor seconda strofa c'era tutta la voce ipocrita di colui che forza l'animo altrui e la verità).
Non mi sono piaciute per niente le scene, poco la regia, molto però i costumi e le scelte cromatiche.