Quando si dedica ad un compositore famoso (rappresentato in tutto il mondo), un festival, una rassegna o una stagione, bisognerebbe essere in grado di eseguirlo ai massimi livelli e di offrirne interpretazioni di eccellenza, ponendosi come riferimento sia a livello esecutivo che a livello musicologico. Quando poi, per far questo, si percepiscono fondi pubblici (dallo stato, dalla regione e dal comune), oltre ai contributi di altri enti pure riconducibili alla partecipazione pubblica, bisognerebbe averne rispetto e investirli in progetti seri e culturalmente validi. Se, infine, si vogliono anche presentare nuove edizioni critiche di opere “di repertorio” (per offrirne letture differenti e più corrette), ovvero eseguirne “versioni alternative”, oppure titoli desueti, rari e sconosciuti, sarebbe doveroso che tali scelte vengano inquadrate storicamente, spiegate con cura, per poterne apprezzare appieno la portata e non intese come saggi accademici. Ecco, in assenza delle suddette capacità e volontà, bisognerebbe avere il buon gusto di rinunciare a progetti velleitari, magari “chiudere bottega” e, se possibile, ricominciare da zero.
Sotto gli occhi di tutti, in questi giorno, è la miserevole situazione del Festival Verdi: un discorso analogo – pur con le debite proporzioni, quanto a pretese, risonanza e masse di denaro impiegate – deve essere fatto per il Festival Donizetti di Bergamo. Con un aggravante: mentre Verdi non ha affatto bisogno di una rassegna a lui dedicata che “ne diffonda la musica” per l’orbe terracqueo, giacché, appunto in tutto l’universo mondo, le sue opere costituisco il 50% almeno della programmazione di tutti i teatri lirici (di qualsiasi livello e importanza), Donizetti necessita di un luogo a lui dedicato, ove indagare le troppe pieghe sconosciute del suo catalogo, offrendolo in modo corretto e coerente e proponendo, finalmente, esecuzioni degne e capaci di rendere giustizia ai suoi lavori. Ancora oggi, infatti, l’esecuzione delle sue opere, è alquanto lacunosa, sia in riferimento ai titoli (non si riesce ad andare oltre la manciata dei lavori “di repertorio”, lasciando perlopiù sconosciuta una larghissima fetta del suo ampio catalogo), sia in riferimento all’indagine musicologica, alla correttezza del testo, all’integrità delle partiture rappresentate. Basterebbe questo a giustificare l’esistenza di un Festival Donizetti? Certamente, almeno in teoria, poiché nella pratica non bastano le intenzioni (soprattutto quando non sono neppure troppo “buone”). E del resto è la storia recente che ci permette un bilancio della rassegna bergamasca: esecuzioni raffazzonate, presentate in cast discutibili, in brutti allestimenti, le cui cause non vanno identificate con l’endemica scarsezza di fondi o l’oggettiva difficoltà che un teatro che resta di provincia incontra nell’allestire titoli certamente complessi, ma il vuoto spinto dei contenuti e la totale mancanza di idee. Infatti, mentre le prime condizioni sono superabili con sforzo e impegno, le seconde sono testimonianza di una crisi profonda ed irreversibile. Già si è parlato di Poliuto e del modo inaccettabile con cui è stato allestito, ora tocca ripetere le stesse cose per le due farse che costituivano il secondo appuntamento del Festival: Amor ingegnoso di Mayr (Venezia 1798) e Il Campanello di Donizetti (Napoli 1836). Scelta che sulla carta pare ispirata a saggia prudenza (almeno per quel che riguarda Donizetti) rispetto alle velleitarie pretese del titolo inaugurale: scelta che nei risultati si è rivelata sbagliata (anche se per motivi diversi). Che senso ha, infatti, unire in un solo spettacolo opere così diverse – cronologicamente, esteticamente, qualitativamente, stilisticamente – quando nel catalogo donizettiano poteva trovarsi altra farsa in un atto da giustapporre al Campanello (e lo stesso dicasi per Mayr)? Che senso ha proporre quell’Amor Ingegnoso (in prima esecuzione moderna) smembrando il dittico originale di cui faceva parte – insieme a L’ubbidienza per astuzia – con coerenza stilistica e drammatica e che venne rappresentato dalla medesima compagnia la sera del 27 dicembre 1798, per l’apertura della stagione di carnevale? Che senso ha eseguire una partitura di valore musicale non certo sconfinato (come è quella di Mayr), priva di grande originalità (sono evidenti dappertutto i richiami a Mozart), ma ricca di difficoltà sia nella scrittura vocale (schiettamente belcantista) sia nel trattamento orchestrale (il compositore era un virtuoso nel campo e padroneggiava l’arte della strumentazione come pochi suoi contemporanei), quando si dispone di un’orchestra che ha avuto notevoli difficoltà pure con le quattro note elementari che accompagnano Poliuto e di una compagnia di canto volenterosa, ma in palese difficoltà con una scrittura così elaborata? Che senso ha eseguire una versione inedita del Campanello senza spiegare le differenze con l’originale nel programma di sala? Che senso ha la scelta di tale versione – che di fatto sostituisce i recitativi con i dialoghi e che prevede l’uso del dialetto napoletano da parte di Don Annibale – che trasforma la farsa in uno spettacolo di prosa, con un evidente squilibrio interno tra i pochi numeri cantati e gli interminabili scambi di battute? Che senso ha adottare tale versione, che comporta l’omissione del brano più famoso e gustoso – la travolgente tirata di Enrico “La povera Anastasia” che contiene uno dei sillabati più vertiginosi dell’intera produzione buffa ottocentesca – a favore di un interminabile dialogo in dialetto napoletano e veneto (che sarà pure divertente, ma che resta più adatto ad uno spettacolo tipo Legnanesi che al teatro d’opera), se non per evitare al baritono di turno di cimentarsi con il difficile brano (perché è questa la sensazione che tale scelta suggerisce, anche se magari non corrisponde al vero)? Che senso ha dedicare quasi metà del programma di sala a quel brano omesso, senza che di tale omissione vi sia traccia e spiegazione? E’ questa la filologia? E’ questo il metodo corretto di rappresentare Donizetti? E’ questo il rispetto per la propria funzione culturale, per il pubblico e per gli artisti? Donizetti non ha bisogno di un Festival da strapaese (così come Verdi, la cui rassegna parmigiana, fatte le debite differenze, è la medesima sagra). E questo a prescindere dall’evidente impegno della compagnia di canto, che però non basta a superare i limiti altrettanto evidenti (e qui la responsabilità è degli organizzatori); a prescindere dalla buona performance di Filippo Morace: un Don Annibale irresistibile (soprattutto col valore aggiunto dell’idioma partenopeo “aristocratico”), divertente, signorile ed elegante, senza mai scadere nella volgarità, e un Osmarino sagace e pungente nella farsa di Mayr; a prescindere dalla buona prova dell’Enrico di Maurizio Magnini – che interpola la cadenza della Lucia di Lammermoor (con tanto di flauto obbligato), nell’episodio del cantante “svociato”; e a prescindere, soprattutto, dalla gustosa regia di Enrico Beruschi (che si ritaglia il ruolo solo parlato ovviamente – in questa versione della farsa – di Spiridione): garbata, rispettosa e musicalissima, e che dimostra autentica verve teatrale (e amore per l’opera)…finalmente una vera regia, e non un concerto in costume. Un applauso sentito, dunque, alla maggior parte degli interpreti, al regista, alle belle scene: uno spettacolo godibile, dunque, ma che, per il contesto nel quale è inserito, mostra l’incapacità di questo Festival ad uscire dal pantano in cui si è ficcato. Un vero peccato.
Sotto gli occhi di tutti, in questi giorno, è la miserevole situazione del Festival Verdi: un discorso analogo – pur con le debite proporzioni, quanto a pretese, risonanza e masse di denaro impiegate – deve essere fatto per il Festival Donizetti di Bergamo. Con un aggravante: mentre Verdi non ha affatto bisogno di una rassegna a lui dedicata che “ne diffonda la musica” per l’orbe terracqueo, giacché, appunto in tutto l’universo mondo, le sue opere costituisco il 50% almeno della programmazione di tutti i teatri lirici (di qualsiasi livello e importanza), Donizetti necessita di un luogo a lui dedicato, ove indagare le troppe pieghe sconosciute del suo catalogo, offrendolo in modo corretto e coerente e proponendo, finalmente, esecuzioni degne e capaci di rendere giustizia ai suoi lavori. Ancora oggi, infatti, l’esecuzione delle sue opere, è alquanto lacunosa, sia in riferimento ai titoli (non si riesce ad andare oltre la manciata dei lavori “di repertorio”, lasciando perlopiù sconosciuta una larghissima fetta del suo ampio catalogo), sia in riferimento all’indagine musicologica, alla correttezza del testo, all’integrità delle partiture rappresentate. Basterebbe questo a giustificare l’esistenza di un Festival Donizetti? Certamente, almeno in teoria, poiché nella pratica non bastano le intenzioni (soprattutto quando non sono neppure troppo “buone”). E del resto è la storia recente che ci permette un bilancio della rassegna bergamasca: esecuzioni raffazzonate, presentate in cast discutibili, in brutti allestimenti, le cui cause non vanno identificate con l’endemica scarsezza di fondi o l’oggettiva difficoltà che un teatro che resta di provincia incontra nell’allestire titoli certamente complessi, ma il vuoto spinto dei contenuti e la totale mancanza di idee. Infatti, mentre le prime condizioni sono superabili con sforzo e impegno, le seconde sono testimonianza di una crisi profonda ed irreversibile. Già si è parlato di Poliuto e del modo inaccettabile con cui è stato allestito, ora tocca ripetere le stesse cose per le due farse che costituivano il secondo appuntamento del Festival: Amor ingegnoso di Mayr (Venezia 1798) e Il Campanello di Donizetti (Napoli 1836). Scelta che sulla carta pare ispirata a saggia prudenza (almeno per quel che riguarda Donizetti) rispetto alle velleitarie pretese del titolo inaugurale: scelta che nei risultati si è rivelata sbagliata (anche se per motivi diversi). Che senso ha, infatti, unire in un solo spettacolo opere così diverse – cronologicamente, esteticamente, qualitativamente, stilisticamente – quando nel catalogo donizettiano poteva trovarsi altra farsa in un atto da giustapporre al Campanello (e lo stesso dicasi per Mayr)? Che senso ha proporre quell’Amor Ingegnoso (in prima esecuzione moderna) smembrando il dittico originale di cui faceva parte – insieme a L’ubbidienza per astuzia – con coerenza stilistica e drammatica e che venne rappresentato dalla medesima compagnia la sera del 27 dicembre 1798, per l’apertura della stagione di carnevale? Che senso ha eseguire una partitura di valore musicale non certo sconfinato (come è quella di Mayr), priva di grande originalità (sono evidenti dappertutto i richiami a Mozart), ma ricca di difficoltà sia nella scrittura vocale (schiettamente belcantista) sia nel trattamento orchestrale (il compositore era un virtuoso nel campo e padroneggiava l’arte della strumentazione come pochi suoi contemporanei), quando si dispone di un’orchestra che ha avuto notevoli difficoltà pure con le quattro note elementari che accompagnano Poliuto e di una compagnia di canto volenterosa, ma in palese difficoltà con una scrittura così elaborata? Che senso ha eseguire una versione inedita del Campanello senza spiegare le differenze con l’originale nel programma di sala? Che senso ha la scelta di tale versione – che di fatto sostituisce i recitativi con i dialoghi e che prevede l’uso del dialetto napoletano da parte di Don Annibale – che trasforma la farsa in uno spettacolo di prosa, con un evidente squilibrio interno tra i pochi numeri cantati e gli interminabili scambi di battute? Che senso ha adottare tale versione, che comporta l’omissione del brano più famoso e gustoso – la travolgente tirata di Enrico “La povera Anastasia” che contiene uno dei sillabati più vertiginosi dell’intera produzione buffa ottocentesca – a favore di un interminabile dialogo in dialetto napoletano e veneto (che sarà pure divertente, ma che resta più adatto ad uno spettacolo tipo Legnanesi che al teatro d’opera), se non per evitare al baritono di turno di cimentarsi con il difficile brano (perché è questa la sensazione che tale scelta suggerisce, anche se magari non corrisponde al vero)? Che senso ha dedicare quasi metà del programma di sala a quel brano omesso, senza che di tale omissione vi sia traccia e spiegazione? E’ questa la filologia? E’ questo il metodo corretto di rappresentare Donizetti? E’ questo il rispetto per la propria funzione culturale, per il pubblico e per gli artisti? Donizetti non ha bisogno di un Festival da strapaese (così come Verdi, la cui rassegna parmigiana, fatte le debite differenze, è la medesima sagra). E questo a prescindere dall’evidente impegno della compagnia di canto, che però non basta a superare i limiti altrettanto evidenti (e qui la responsabilità è degli organizzatori); a prescindere dalla buona performance di Filippo Morace: un Don Annibale irresistibile (soprattutto col valore aggiunto dell’idioma partenopeo “aristocratico”), divertente, signorile ed elegante, senza mai scadere nella volgarità, e un Osmarino sagace e pungente nella farsa di Mayr; a prescindere dalla buona prova dell’Enrico di Maurizio Magnini – che interpola la cadenza della Lucia di Lammermoor (con tanto di flauto obbligato), nell’episodio del cantante “svociato”; e a prescindere, soprattutto, dalla gustosa regia di Enrico Beruschi (che si ritaglia il ruolo solo parlato ovviamente – in questa versione della farsa – di Spiridione): garbata, rispettosa e musicalissima, e che dimostra autentica verve teatrale (e amore per l’opera)…finalmente una vera regia, e non un concerto in costume. Un applauso sentito, dunque, alla maggior parte degli interpreti, al regista, alle belle scene: uno spettacolo godibile, dunque, ma che, per il contesto nel quale è inserito, mostra l’incapacità di questo Festival ad uscire dal pantano in cui si è ficcato. Un vero peccato.
Come autore di una recensione meno dura di questa dello stesso spettacolo ( http://comingsoonvignettaio.splinder.com/post/23474385/amor-ingegnoso-e-il-campanello-una-compagnia-di-cantanti-si-improvvisa-compagnia-di-prosa ) e come spettatore che ha assistito domenica per la prima volta questi due titoli, devo dire che ho avuto impressioni abbastanza simili. Quella di uno spettacolo a cui è stato dato un taglio molto da teatro di prosa e di una compagnia di cantanti messa in difficoltà, che si è dovuta tirar su le maniche e improvvisare compagnia di attori (Iddio glie ne renda merito). Del resto, Beruschi non è un direttore d'Opera, per quanto entusiasta sia stato del progetto, quindi ci sono state difficoltà inevitabili. Ad ogni modo, non sarei così pessimista; ci metterei la firma per far proseguire così questa stagione lirica bergamasca.
A me alcuna voce non è piaciuta in quei due spettacoli ch'erano veramente due farse. Il baritono (Ernesto) era tutto ingolato. Non c'è nulla di piu ridicolo di un pessimo cantante che deve cantare-imitare un buon cantante e canta come se cantasse bene, cantando pure sempre male e anzi malissimo. Il buffo di entrambe opere parlava, faceva ufficialmente della prosa. Non diro nulla sul tenore di Amor ingegnoso e dei soprani o del mezzo nell'opera di Mayr. Nel Campanello ho avuto l'impressione di essere in un teatro di prosa, come ha già detto Duprez, con una minima quantità di canto e anche quello prestito a un livello molto basso.